RIFORMISMO, UN’IDEA DA RISCOPRIRE

di Riccardo Terzi

La parola riformismo richiede, per poter essere ancora utilmente impiegata, un preliminare lavoro di ridefinizione, perché anch’essa è entrata, come quasi tutte le parole del dizionario politico, nel vortice delle manipolazioni e degli stravolgimenti, fino a divenire qualcosa di irriconoscibile. Una parola ha un significato in quanto segna una linea di demarcazione e si inserisce quindi in un determinato campo conflittuale. Ma se tutti si dichiarano riformisti, a destra come a sinistra dello schieramento politico, ciò vuol dire che il significato è andato perduto. Ciascuno si sente autorizzato a stiracchiare a suo piacimento la categoria del riformismo e a piegarla alle più diverse interpretazioni. Per questa ragione, molti ne sconsigliano l’uso, trattandosi di una parola malata, equivoca, ormai definitivamente compromessa. Ma se dovessimo archiviare tutte le parole malate, temo che ci troveremmo condannati al silenzio. Penso piuttosto che si tratta di ricostruire la significatività del linguaggio, di farne un uso rigoroso, di capire che anche le parole sono divenute un terreno di battaglia.

Prendiamo allora in esame i possibili significati, storici e attuali, del riformismo. In una prima accezione, la politica riformista si definisce in opposizione alla pratica rivoluzionaria. Qui il discorso verte sui mezzi, non sui fini. Qual è la via più efficace per realizzare la trasformazione socialista, la rottura politica violenta o il metodo democratico di una graduale accumulazione di forza organizzata e di consenso popolare? Sono i termini del confronto, al Congresso di Livorno del 1921, tra le due opposte strategie di Bordiga e di Turati, ed è su questa base che si consuma la scissione comunista. Ma tutto ciò ha ormai solo un interesse storico ed ha perduto, almeno per la realtà dell’Occidente democratico, qualsiasi attualità. Che la lotta politica e sociale, anche la più aspra, si svolga nel quadro delle istituzioni e delle regole democratiche è ormai per tutti un presupposto assodato. Sotto questo profilo, dunque, il riformismo ha perso senso perché non ha più un avversario con cui competere.

Secondo una diversa versione, l’antagonista del riformismo è il massimalismo. Qui non si tratta solo dei mezzi, ma del fine: programma massimo o programma minimo. Ma è proprio questa definizione, oggi largamente diffusa, che favorisce un progressivo slittamento del riformismo verso un approdo moderato. Se il riformismo consiste in un processo di delimitazione del campo progettuale, di ridimensionamento degli obiettivi, su questa strada sarà sempre possibile procedere all’infinito, nella direzione di un minimalismo che alla fine diviene il nulla, il mero galleggiamento tattico nella realtà data dei rapporti di forza. Nella pubblicistica corrente, è questa l’interpretazione prevalente. Ma essa non ha nessuna seria motivazione storica e teorica.

Mario Tronti ha messo bene in luce, nel suo libro La politica al tramonto, il rapporto di forte complementarietà che ha legato storicamente il pensiero rivoluzionario e la pratica riformista. «Il riformista pratico, che non ha più in testa un pensiero rivoluzionario, assolve solo a una funzione provvisoria di razionalizzazione, normalizzazione e neutralizzazione di meccanismi vincenti e nemici. D’altra parte, non c’è nessuna rivoluzione possibile, comunista, e tanto meno operaia, senza una lunga marcia lenta, profonda, graduale, dentro quei meccanismi, economici e istituzionali, per smontarli dall’interno. Il rivoluzionario a parole, incapace della pazienza riformista, tiene solo accesa la lampada votiva davanti all’icona di un santificato antagonismo».

In questa formulazione c’è sicuramente una certa forzatura semplificatrice, come se riformismo e pensiero rivoluzionario fossero convissuti pacificamente come due lati dello stesso processo. Il rapporto, nella realtà storica, è stato meno indolore. Ma è comunque vero che il riformismo sta all’interno di un processo storico che tende a rovesciare la realtà data dei rapporti di forza: non è la minimizzazione dell’obiettivo, ma è la pratica politica concreta che dà realtà e materialità al progetto di trasformazione sociale. Per questo, l’opposizione di massimalismo e minimalismo ha un effetto del tutto deviante. Essa non ha nessun significato sotto il profilo della teoria politica, ma ha solo un valore empirico, come rappresentazione del temperamento soggettivo e delle predisposizioni tattiche, dell’essere disposti all’audacia o alla prudenza. La teoria politica può dire solo questo: che è un errore proporsi obiettivi massimi quando le condizioni oggettive non lo consentono, e che è un errore altrettanto grave fermarsi ai primi parziali risultati quando tutta la situazione storica è matura per un processo di cambiamento più profondo. Tutto dipende dalla valutazione delle forze in campo e delle condizioni storiche concrete. Un politico intelligente non è sempre audace, o sempre prudente, ma sa adattare la sua tattica alla situazione reale, e si pone quegli obiettivi che sono alla sua portata, non di più e non di meno.

Va quindi respinta l’equazione di riformismo e minimalismo. E anche la contrapposizione tra riformismo moderato e riformismo radicale, su cui da qualche tempo insiste Alberto Asor Rosa, non ha un vero fondamento teorico, perché cristallizza due momenti dell’agire politico e li trasforma in categorie ideologiche, mentre è solo l’esame della realtà che può decidere dell’efficacia di una determinata linea tattica.

In un’altra prospettiva, il riformismo può essere considerato nella sua opposizione al populismo. Qui si coglie una verità, ma solo parziale. Il populismo, nelle sue manifestazioni attuali, può essere semplicemente definito come l’anti-politica, in quanto fa leva sull’immediatezza, sul movimento spontaneo, sulla protesta, e a questa immediatezza offre come prospettiva non un programma politico, ma una mitologia, e spesso il mito si riduce alla divinizzazione del leader. Le celebrazioni per il decennale di Forza Italia sono l’ultimo esempio di un tale processo, con Baget Bozzo nel ruolo di officiante del nuovo rito pagano, e con Berlusconi nelle vesti ridicole di un novello profeta. Il populismo ha sempre questo carattere di sublimazione del ridicolo, il che non gli impedisce, in determinate condizioni, di essere una forza politica reale. Altrettanto evidenti sono i tratti populistici nella politica della Lega, con tutta la mitologia etnica del dio Po e della Padania come nuova terra promessa.

Ma l’ondata dell’anti-politica ha un carattere trasversale. Anche nel campo della sinistra, c’è chi punta tutto sull’immediatezza, sulla spontaneità dei movimenti contro le forme politiche organizzate: l’immagine della carovana, l’idealizzazione della società civile, la soggettività contro l’organizzazione, l’utopia contro il realismo della politica. Ma la discussione intorno al populismo riguarda solo indirettamente il tema del riformismo, perché qui è solo in gioco la razionalità del discorso politico, il che rappresenta naturalmente un discrimine molto importante, ma non sufficiente: è evidente infatti che vi possono essere politiche razionali anche nel campo conservatore. Nell’opposizione di politica e anti-politica, il riformismo è saldamente collocato nel primo campo. Ma poi, dentro questo campo, c’è tutto un ampio ventaglio di politiche possibili.

Fin qui, interrogandoci intorno ad alcune categorie astratte della politica, abbiamo solo potuto dire qualcosa su ciò che il riformismo non è, ma senza afferrarne la sostanza positiva. Qual è l’oggetto del riformismo? Che cosa si tratta di riformare? Solo così ci avviciniamo al nocciolo del problema.

Il riformismo nasce storicamente come un insieme di progettazioni e di iniziative politiche per la riforma del capitalismo, per costruire quei meccanismi sociali e istituzionali che siano capaci, anche all’interno di un’economia di mercato, di far valere i principi dell’eguaglianza e della solidarietà. Forse si può dire che il suo opposto è l’utopismo, il mito di una società radicalmente altra. Il riformismo agisce nella realtà data e non attende l’avvento di un nuovo ordine: è azione pratica, realistica, che punta all’efficacia e alla concretezza dei risultati. La realtà è sempre modificabile, è sempre aperta a diverse possibili evoluzioni, e non c’è quindi nulla di deterministico nella storia, ma tutto dipende dal gioco incrociato dell’azione dei diversi soggetti, il quale non obbedisce a nessuna legge storica predeterminata. Non c’è quindi un sistema, chiuso e compatto, al quale si può solo opporre una diversa logica di sistema. Ciò che il riformismo rifiuta è proprio questa estrema ideologizzazione dell’analisi sociale, per cui o c’è un salto di sistema, un mutamento ontologico, oppure ci sono solo mutamenti irrilevanti, inessenziali, apparenti. Il dogmatico pensa per sistemi, il riformista pensa per situazioni concrete. In questo senso, il riformismo rappresenta il momento alto e creativo dell’azione politica, proprio perché intende la politica come prassi, come invenzione, come azione che irrompe nella realtà e la modifica, senza schemi ideologici aprioristici. Alla categoria del riformismo appartiene ciò che c’è stato di vitale nella storia del movimento operaio. La stessa politica del PCI, nei suoi momenti più maturi, è stata di fatto una politica riformista: stava dentro un forte impianto ideologico, ma questo impianto costituiva solo uno scenario di sfondo, senza precludere una grande flessibilità dell’iniziativa politica concreta. In ogni caso, il campo d’azione del riformismo, in quanto progetto di riforma sociale, sta tutto all’interno del campo della sinistra, nelle sue diverse forme e accezioni, e questa reciproca appartenenza, della sinistra e del riformismo, la dobbiamo oggi riaffermare con forza, perché questo è il senso profondo della nostra storia.

Fuori da questo orizzonte storico-politico, il riformismo diviene davvero una parola priva di senso. E oggi il tentativo è proprio quello di spezzare questo legame storico e di neutralizzare il riformismo, di collocarlo fuori dal suo contesto originario, in uno spazio socialmente neutro. Se il riformismo non ha più una qualificazione sociale, allora diviene riformista qualsiasi ipotesi di cambiamento, quale che sia il suo oggetto e il suo orizzonte teorico. Certo, tutto può essere riformato: la legge elettorale, il codice della strada, il regolamento per le partite di calcio, lo statuto di una società cooperativa, e così via all’infinito. E allora la destra, che vuole smantellare le conquiste storiche del riformismo socialista, lo stato sociale e i diritti del lavoro, si autorappresenta come riformista, perché aperta al cambiamento, mentre la sinistra, che quelle conquiste difende, diviene di conseguenza conservatrice.

È una campagna ben orchestrata, e non mancano intellettuali servili che la sostengono, politici disinvolti, anche a sinistra, che stanno al gioco, e non manca, come sempre, la stupidità di chi non capisce di che cosa si parla. Il risultato che si tenta di ottenere è un vero e proprio rovesciamento storico: la sinistra, per essere riformista, deve rinnegare se stessa. Alla fine, in questa generale babele delle lingue, il vero capostipite del riformismo finirà per essere Licio Gelli, il quale ha progettato, in tutti i campi decisivi del nostro sistema politico, una linea audace e spericolata di cambiamento. E in effetti la classe dirigente attuale è stata largamente reclutata nella sua loggia massonico-eversiva, e il suo preteso riformismo da lì discende, da un progetto di rovesciamento dei principi costituzionali, nella direzione di un potere oligarchico che sia finalmente liberato da ogni controllo democratico dal basso. Dobbiamo dunque ridefinire con nettezza il senso delle parole, se non vogliamo essere trascinati nella melma di questo trasformismo reazionario.

Il riformismo non è la rincorsa del cambiamento, quale che sia, l’esaltazione acritica del nuovo, indipendentemente dai suoi contenuti. Questo atteggiamento ha avuto un preciso precedente storico: il futurismo, che non a caso è stato suggestionato dal mito fascista, dal vitalismo retorico di chi predicava la necessità di far piazza pulita di tutto l’ordine tradizionale. E nella Russia sovietica avviene, con segno rovesciato, un processo culturale parallelo, fino a quando la logica brutale del potere fa giustizia delle troppo facili illusioni. Ora, a me sembra di vedere, nel clima politico dei nostri giorni, in una parte della società, qualcosa di simile a quell’irrequietezza disperata e senza principi del primo novecento: una miscela di cinismo, di disprezzo delle regole, di esaltazione egocentrica, di spirito di avventura. E appunto su questi spiriti vitali fa leva la politica della destra. Ma tutto ciò, come è evidente, è l’esatto rovesciamento del progetto riformista.

Cerchiamo di chiarire ancora più a fondo l’elemento sostanziale: il riformismo ha a che fare con un processo sociale, nel quale si dà forma alla società, si costruiscono le legature sociali, si fa coesione, si organizzano e si rappresentano gli interessi collettivi. Riformare vuol dire qui dare alla società un’ossatura, una forma politica. Mentre il mercato, lasciato a se stesso, frantuma la compagine sociale, privatizza gli spazi pubblici e innesca un meccanismo di pura competitività nelle relazioni interpersonali, il riformismo è il lavoro continuo che la società stessa compie per non essere destrutturata e disgregata. In una parola, la causa del riformismo si identifica con la causa della socialità, è il bisogno di socialità che si organizza e si afferma. È molto importante, a mio giudizio, cogliere questo nesso e capire che il riformismo ha un profilo sociale prima che politico. È un modo di pensare e di agire che si oppone al decisionismo politico, al giacobinismo, alla rivoluzione dall’alto. Proprio per questo, per questa sua matrice essenzialmente sociale, il riformismo non appartiene solo alla tradizione socialista, ma c’è un filone importante di riformismo cristiano, che va riconosciuto e analizzato, il quale ha sperimentato in varie forme diversi modelli possibili di socialità e di solidarietà.

Nell’esperienza del movimento sindacale, i diversi filoni del riformismo, socialista e cristiano, trovano una convergenza e, nei momenti migliori, una sintesi unitaria. È nel processo dell’unità sindacale, processo contrastato e altalenante, ma tutt’ora aperto, che i diversi riformismi, integrandosi, superano le loro unilateralità: la tradizione socialista corregge i suoi difetti di astrattezza dottrinaria, e il pensiero cristiano supera la dimensione strettamente morale e scopre, oltre la cerchia delle relazioni umane immediate, i meccanismi più generali che organizzano il processo sociale.

Il sindacato, quindi, è un protagonista decisivo dell’azione riformista, non in virtù delle sue appartenenze politiche, ma per il lavoro che sa svolgere, quando lo svolge nella pienezza della sua autonomia, quando non si lascia spingere sul binario morto di un’azione solo di propaganda e di denuncia. Ciò che sta ora accadendo, nelle relazioni sindacali, mi sembra riproporre questa esigenza di sintesi e di superamento delle unilateralità. La CGIL si rende conto che ha bisogno di risindacalizzarsi dopo una fase di eccessiva esposizione politica, e la CISL capisce che solo in un quadro unitario si può davvero esercitare l’autonomia della rappresentanza sociale. È un processo nuovo, in cui ciascuno sta correggendo le sue precedenti parzialità.

Molto più complesso e difficile è il discorso sulla politica. Quando si parla di partito riformista, che cosa si intende? La sfera politica, in questi anni, ha allentato il suo rapporto organico con il processo sociale, per cui essa appare come la competizione per il potere all’interno di una ristretta oligarchia. Le novità della cosiddetta seconda repubblica vanno tutte in questa direzione: personalizzazione, enfasi sul ruolo del leader, battaglie televisive che si sostituiscono alle battaglie sociali, politica di slogan e di sondaggi, dove ciò che conta non è fare, ma comunicare, apparire, essere visibili.

Sì, ci sarebbe davvero bisogno di un partito riformista, che sia il contrario di tutto questo, che interpreti il riformismo come riscoperta del bisogno di socialità e di partecipazione popolare. Ma per raggiungere questo obiettivo non basta certo l’assemblaggio delle forze politiche esistenti, ma serve un loro ripensamento, una loro riforma. Io continuo a vedere una situazione di ambiguità, di indeterminatezza, in cui tutto può ancora succedere. Non si tratta, a questo punto, di difendere vecchie identità, ormai declinanti e residuali. Si tratta piuttosto di mettere mano alla costruzione di qualcosa che sia effettivamente nuovo, di pensare a quello che può essere oggi il profilo di un partito riformista, riformista nei fatti, nell’azione sociale concreta, e non secondo un’ambigua rappresentazione ideologica. Questo spazio di ricerca è ora aperto. Se un vero partito riformista ora non c’è, lavoriamo per costruirlo.



Numero progressivo: H40
Busta: 8
Estremi cronologici: 2004, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: Pubblicato col titolo “Con l’obiettivo della socialità organizzata” in “Argomenti umani”, aprile 2004, pp. 18-24. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 219-228