PRESENTAZIONE A “GLI ANZIANI E LA POLITICA”

Presentazione di Riccardo Terzi, segretario generale SPI CGIL, al volume “Gli anziani e la politica. Viaggio tra gli iscritti allo SPI CGIL”.

La ricerca realizzata dal consorzio Aaster ci offre un materiale molto ricco e complesso, che non può essere semplificato con qualche formula schematica, e che richiede un’attenta e paziente lettura, per coglierne tutti i diversi risvolti, i mutamenti che sono in corso nella condizione e nella soggettività delle persone anziane e, in parallelo, l’evoluzione delle forme della politica e della partecipazione democratica.

Non mi propongo, quindi, di tentare una sintesi, di individuare un’esclusiva chiave di interpretazione, perché credo che l’utilità della ricerca sta nel tenere aperte le risposte e le conclusioni, affidandole ad un lavoro collettivo di riflessione e di approfondimento.

Le ricerche, quando sono fatte seriamente, a questo servono: ad enucleare nuove domande, a problematizzare le apparenti certezze, ad allargare il campo della nostra osservazione della realtà, spingendoci ad un ulteriore sforzo di analisi e di pensiero.

Mi auguro che lo SPI sappia cogliere questa occasione, e non solo nelle sei regioni direttamente coinvolte nella ricerca.

Sono i nostri iscritti, i nostri quadri militanti, i principali protagonisti del lavoro di ricerca, sia per le risposte che si sono raccolte ai questionari, sia per l’organizzazione dei “focus group” nelle regioni interessate, i quali ci offrono un quadro delle relazioni che lo SPI ha saputo costruire con la realtà esterna, istituzionale e sociale. La ricerca, quindi, in primo luogo ci rappresenta quello che noi oggi siamo, ci consegna una complessa radiografia della nostra organizzazione.

Nella valutazione dei dati, dobbiamo sempre tenere presente il loro carattere “parziale”, il fatto che essi non si riferiscono all’intero universo degli anziani, ma solo allo SPI, e anche, dentro lo SPI, alla fascia più attiva e motivata.

Si tratta comunque di un campione sufficientemente esteso, con oltre 18 mila questionari compilati, e con la possibilità di mettere a confronto contesti territoriali molto diversi: nord e sud, grandi e piccoli centri, regioni con diverse tradizioni politiche.

Il quadro che ne esce ci indica la compresenza di due diverse tendenze, tra loro in apparenza contraddittorie: una crescente complessità e differenziazione interna, e il permanere di una forte caratterizzazione identitaria. Per quanto riguarda la complessità, si tratta di un dato già in parte conosciuto ed elaborato, da cui discende la qualità “confederale” dello SPI, il suo essere cioè un’organizzazione non settoriale, non di categoria, ma rappresentativa di un universo sociale differenziato: diverse generazioni di anziani, diverse storie lavorative pregresse, diverse condizioni di reddito, di salute, di conoscenza.

Nella ricerca tutte queste articolazioni vengono messe in evidenza, e si conferma come lo spartiacque fondamentale sia quello del complessivo “capitale sociale”, inteso come l’insieme di relazioni e di conoscenze di cui la persona dispone. In una società in rapida evoluzione, si accentua il divario sotto il profilo dell’accesso alle conoscenze e della familiarità con le nuove risorse tecnologiche. Da un lato abbiamo uno “sguardo cosmopolita”, dall’ altro un “imprigionamento nel locale”. L’invecchiamento può così assumere due diverse curvature: quella della passività e della marginalità, con l’inevitabile conseguenza di essere esposti alle paure, al rifiuto del nuovo e del diverso, proprio perché non si hanno gli strumenti per interpretare il contesto in cui si agisce, o viceversa quella di una nuova fase creativa, in cui si costruisce un proprio autonomo progetto di vita. Da questo punto di vista, lo SPI deve essere la forza organizzata che fa uscire le persone dall’isolamento passivo e che le inserisce in una rete di relazioni, dando loro gli strumenti per potersi rapportare con il cambiamento sociale e per gestire in autonomia la propria vita, il proprio futuro.

Questo lavoro di socializzazione, di promozione sociale, è uno dei compiti fondamentali della nostra organizzazione, e intorno a questo tema comincia ad esserci una più attenta sensibilità, anche se si stenta a tradurla in una azione organizzata e continuativa. C’è talora la tendenza a delegare ad altri questa funzione, alle associazioni di volontariato o alle istituzioni pubbliche, restringendo il lavoro dello SPI nell’ambito delle rivendicazioni economiche. Ma la condizione della persona anziana non può essere segmentata, e va affrontata nella sua totalità, tenendo insieme gli aspetti materiali e quelli culturali ed esistenziali, e considerando la loro stretta interazione.

Non c’è quindi efficace tutela sindacale senza un approccio di tipo globale.

Il problema dell’invecchiamento sta in questo crocevia tra attività e passività, tra autonomia e dipendenza, tra vita relazionale e vita che si ripiega in se stessa.

E sta qui il nodo irrisolto della politica nel suo rapporto con il mondo degli anziani, in quanto l’approccio prevalente è quello di tipo assistenziale, che considera la persona anziana solo come un destinatario passivo di cure e di protezione, e non come una possibile risorsa da attivare, come il titolare di una cittadinanza integrale, nei diritti e nei doveri.

Mi sembra essere questa la domanda politica fondamentale che emerge dalla ricerca, la richiesta di un pieno riconoscimento sociale, di essere non solo portatori di bisogni, ma cittadini che partecipano alla vita collettiva e alle decisioni pubbliche.

La tendenza in atto, in una società ipercompetitiva e individualizzata, va invece nella direzione opposta, e produce un crescente spreco di risorse umane, per cui l’invecchiamento diviene il momento in cui si è messi fuori gioco, e si viene gettati nel grande deposito delle cose, e delle vite, ormai inutili. È quindi evidente che la nostra iniziativa, per essere efficace, non può limitarsi agli obiettivi strettamente sindacali, perché la posta in gioco è più alta, è il senso della vita, la sua dignità, l’essere o no persone e cittadini a tutti gli effetti. Sullo SPI si carica una domanda di senso, in quella difficile fase di transizione che è il passaggio dal lavoro al pensionamento, da una vita scandita dai ritmi del lavoro ad una vita che va reinventata e reinterpretata. Per questo, dobbiamo avere una forte ambizione politica e progettuale, e non possiamo adattarci ad una pratica di tipo corporativo.

La nostra complessità interna riflette questa complessiva problematicità della condizione sociale ed esistenziale delle persone anziane, e questo richiede un’alta qualità del lavoro di direzione, per costruire un comune tessuto connettivo in una realtà largamente differenziata. La ricerca, inoltre, presta grande attenzione ad un dato fin qui poco considerato, all’esistenza cioè di diverse generazioni politiche, in rapporto ai momenti decisivi della propria formazione: la generazione della ricostruzione e della guerra fredda, quella del ‘68, quella della successiva fase di ripiegamento individualistico.

Nel passaggio dall’una all’altra generazione, ci sono rotture culturali e politiche, mutamenti significativi nel modo di concepire il rapporto con la politica. Il processo complessivo indica un progressivo venir meno di un atteggiamento di delega passiva, di appartenenza fiduciaria, di identificazione in un compatto sistema di valori, e l’emergere di una maggiore criticità e autonomia personale.

Anche se il tratto prevalente è ancora quello della “mobilitazione dall’alto”, il che significa appunto un rapporto di delega fiduciaria, questa posizione, con il cambio delle generazioni, viene via via soppiantata da un rapporto più problematico con i tradizionali referenti politici ed ideologici che hanno segnato la storia del sindacato. Questo tipo di movimento non è per se stesso negativo, può anzi significare una maturazione, una maggiore coscienza critica.

Ciò è evidente per la generazione del ‘68, che si è formata nel vivo di un processo collettivo di critica e di rinnovamento della politica. Ma negli anni successivi subentra una posizione di disincanto, e spesso di passività e di indifferenza nei confronti della politica, una tendenza a sottrarsi allo spazio pubblico per ritagliarsi un proprio spazio individuale.

La criticità di tutto questo processo sta nel fatto che al tradizionale universo ideologico, con la sua rigidità spesso schematica e dogmatica, non si è sostituita una nuova cultura politica, e il processo finisce per avere i caratteri della smobilitazione. “Ciò che si può dire a partire dai nostri dati è che la crisi della forma-partito, e del legame una volta stretto tra rappresentanza sociale e politica, sembra per ora produrre più smobilitazione delle classi popolari che modernizzazione delle forme di partecipazione.” Questo è evidentemente il problema politico centrale che segna tutta la nostra storia recente, e anche il sindacato ne viene condizionato e coinvolto, con un mutamento nelle forme dell’adesione, con la tendenza ad un rapporto di tipo strumentale, dove ciò che conta non è il progetto di società, ma l’utilità pratica dei servizi che vengono offerti.

Si è prodotto un vuoto culturale, e in questo vuoto prendono necessariamente forza i comportamenti opportunistici, perché si fatica a ricostruire il nesso tra il privato e il sociale, tra l’immediatezza degli interessi e una possibile strategia di cambiamento.

Il fatto grave non è la difficoltà che si incontra a colmare questo vuoto, quanto piuttosto il fatto che si dichiara la rinuncia preventiva a questo lavoro di ricostruzione, nel nome della fine delle ideologie, nel nome cioè di una smobilitazione del pensiero e della critica sociale.

Questo è oggi il tratto saliente della politica, nelle sue manifestazioni più visibili: una programmatica e dichiarata vuotezza, che viene contrabbandata come modernizzazione. È allora evidente che questo contesto culturale e politico, nel quale oggi siamo immersi, spinge verso un esito di frammentazione corporativa del corpo sociale.

Ma nonostante la forza di questa tendenza dissolutiva, e forse per una risposta di reazione, nello SPI continua a funzionare un meccanismo identitario, che forse è solo l’estrema propaggine di una storia passata, ma segnala comunque la volontà di non lasciarsi omologare, di non accodarsi ai luoghi comuni di una società deideologizzata.

Se analizziamo questo fenomeno, ne possiamo vedere, insieme, sia i punti di forza sia quelli di fragilità. Mi ha un po’ sorpreso, ad esempio, che il 29% degli intervistati, la maggioranza relativa, si rappresenti come collocato all’estrema sinistra.

Può essere positivo il fatto che non sfondi la tesi oggi di moda secondo cui destra e sinistra sono ormai concetti superati (solo una minoranza del 14% sceglie di non collocarsi), e tuttavia è evidente un certo sbilanciamento, per un sindacato che vuole essere una autonoma forza di rappresentanza sociale, che fa politica non in quanto si schiera, ma in quanto sa affrontare i problemi e sa mettere in campo un suo autonomo progetto sociale. Tra pratica sindacale e coscienza politica sembra esserci un nodo contraddittorio non risolto. Così, analogamente, l’indice particolarmente basso di fiducia nell’istituzione della Chiesa, in netta controtendenza rispetto ad analoghi sondaggi sull’intera popolazione, può essere una prova di attaccamento alla laicità delle istituzioni politiche, ma può anche essere la testimonianza di un blocco ideologico, di una certa incapacità a misurarsi seriamente con il fenomeno religioso.

In sostanza, si tratta di una identità troppo “datata” e troppo schematica, che rischia di non funzionare nella “società dell’incertezza”, in un mondo dove tutto è messo in movimento e dove quindi anche le identità e le culture politiche devono essere largamente rinnovate. Può essere che si tratti solo di una reazione difensiva, il che mostra una vitalità, uno spirito di combattimento. Ma si tratta anche di un limite, che può intralciare la capacità espansiva dell’organizzazione, in quanto essa appare caratterizzata da una troppo marcata connotazione politica.

Intendiamoci, una grande organizzazione di massa non può non avere un suo cemento identitario, un suo profilo ideologico, perché solo così si possono tenere insieme i diversi segmenti di una società frammentata.

Ciò che mi pare utile discutere è la “qualità” di questo tessuto connettivo, la necessità di una cultura politica più aperta alla comprensione dei grandi cambiamenti che stanno segnando la nostra epoca. L’impressione è che prevalga uno sguardo all’indietro più che una comprensione del presente, e questo può divenire alla lunga un impaccio non irrilevante.

Lo scenario è quello individuato nel rapporto di ricerca attraverso le due categorie interpretative della globalizzazione e dell’individualizzazione: nuova straordinaria apertura dell’orizzonte di vita, ma anche spaesamento di fronte a questa ampiezza e tendenza a chiudersi nelle tradizionali fortezze conosciute. Di qui la dialettica tra globalizzazione e localismo, che Aldo Bonomi tematizza come il conflitto tra flussi e luoghi. Le ansie e le tensioni emotive indotte dalla grande ondata migratoria, che sconvolge l’equilibrio storico delle nostre comunità, sono la manifestazione più vistosa di questo difficile passaggio che dobbiamo saper compiere, per costruire un nuovo equilibrio, un nuovo modello di convivenza. Di fronte alle nuove emergenze, ci troviamo impreparati, e proprio per questo finisce per prevalere l’emotività, in assenza di una politica consapevole e realistica. La nuova dimensione dei problemi richiederebbe un di più di politica, una più penetrante capacità di regolazione sulla scala globale e su quella locale.

Se c’è un allarme sicurezza, è perché si avverte una sostanziale impotenza degli organi dello Stato a garantire il rispetto della legalità, perché c’è una giustizia lenta e macchinosa, perché ci sono interi territori che sono allo sbando, dominati da gruppi criminali.

Non è un problema marginale, perché la sicurezza è il primo compito dello Stato, per mettere fine alla “guerra di tutti contro tutti”. Se la politica non riesce a rispondere a questa domanda, allora lo spirito pubblico prenderà altre strade: l’antipolitica, la protesta, l’intolleranza.

Ma questo vale per tutti i grandi problemi che incombono sul mondo globalizzato: equilibrio ambientale, controllo dei flussi finanziari, nuove disuguaglianze e povertà, minaccia del terrorismo, riesplosione degli scontri etnici. La politica è messa alla prova da processi che travalicano gli antichi confini degli Stati nazionali, e che richiedono nuovi strumenti, nuove soluzioni.

Anche la sinistra, radicale o riformista che sia, deve allargare il suo campo di osservazione, e non può limitarsi ad utilizzare lo schema classico del conflitto capitale -lavoro, perché nel frattempo nuove e più potenti contraddizioni si sono dispiegate nel mondo.

Per questo dico che abbiamo bisogno, anche come sindacato, di una nuova cultura, di un nuovo sguardo sulla realtà. Altrimenti finiamo noi stessi travolti e spiazzati da questi cambiamenti. La ricerca dimostra come ci sia, tra gli anziani iscritti allo SPI, la domanda di una “diversa” politica e una insoddisfazione profonda per la situazione attuale.

Il sentimento prevalente è la “rabbia”, la denuncia di una politica che si avverte come distante, separata dal vissuto concreto delle persone. Questo tipo di risposta indica comunque un atteggiamento attivo, non di rassegnazione o di rinuncia.

C’è come una passione politica frustrata, una volontà di fare, senza che siano disponibili gli strumenti e i luoghi di una partecipazione attiva.

Ci si sente traditi da una politica che sembra avere imboccato una strada lontana dai nostri interessi e dalle nostre aspirazioni. Ma su questa “rabbia”, su questa critica della politica, si può lavorare per tentare di aprire qualche nuova prospettiva. In fondo la ricerca ci dice questo: c’è bisogno di un cambiamento, di un profondo rinnovamento delle forme della politica, di una rottura dell’attuale struttura verticistica e oligarchica. C’è una crisi della politica, ma ci sono ancora molte energie potenziali che possono essere attivate, c’è una rete sociale che funziona, ci sono diverse forme di partecipazione e di impegno civile, c’è insomma una società che non è solo moltitudine indifferenziata e individualismo di massa.

Il sindacalismo confederale, in questa difficile transizione, ha un ruolo molto importante, perché ancora riesce ad essere, sia pure con molti limiti, il veicolo di una azione e di una coscienza collettiva, uno strumento di rappresentanza che costruisce la sua forza su un diffuso ed esteso rapporto di fiducia.

Naturalmente, questa fiducia è relativa e condizionata, non è data per sempre, ma dipende da ciò che il sindacato riuscirà a fare, dalle concrete risposte che saprà fornire, e quindi dalla vitalità del suo interno processo di rinnovamento e dall’intensità del suo rapporto democratico con i lavoratori e i pensionati.

Tuttavia, nonostante questo giudizio positivo che si può dare circa la tenuta e la capacità rappresentativa del sindacato, il tema della politica non può essere eluso, perché anche le prospettive dell’azione sindacale dipendono, in ultima istanza, dal contesto politico generale nel quale ci troviamo ad agire.

Se la politica è inceppata, anche il sindacato fa fatica a darsi un progetto, ed è inevitabilmente esposto al rischio di un ripiegamento corporativo.

Politica e società civile camminano insieme, o regrediscono insieme. Per questo mi sembrano del tutto fuorvianti le ricorrenti dispute sul primato della politica o della società civile, le due speculari illusioni, di una politica “decisionista” che impone dall’alto la sua autorità, o di un’autonoma forza risanatrice di un movimento civile che si sostituisce al sistema politico. Non accade né l’una cosa né l’altra, ma accade che la “distanza”, la separazione di politica e società, produce alla fine, se non interviene una inversione di rotta, una crisi organica dell’intero sistema.

Occorre dunque un duplice movimento: politicizzare l’azione sociale, farla cioè pesare politicamente, dotandola di un orizzonte progettuale, e sull’altro versante radicare la politica nel tessuto sociale, rimetterla in comunicazione con i processi reali di trasformazione, e farla agire dentro questi processi.

Nel cambiamento sociale che investe la società italiana, spiccano in particolare tre aspetti: l’invecchiamento della popolazione, l’ondata migratoria, il passaggio dal lavoro stabile al lavoro flessibile e precario. Noi qui ci occupiamo in particolare del primo tema, ma sono evidenti le connessioni, è evidente che per tutti questi aspetti ciò che è in gioco è l’effettività dei diritti di cittadinanza, è la capacità di impostare una politica che sia coerente con l’idea costituzionale di un’eguaglianza nell’accesso ai beni collettivi, abbattendo le barriere che ostacolano l’esercizio dei diritti fondamentali.

Senza questo impegno politico, la società finirebbe per regredire verso una struttura di tipo feudale, dove non ci sono diritti, ma privilegi di status, di casta, con una radicale manomissione del processo democratico, in quanto si restringe a pochi il campo delle decisioni politiche.

Il tema dell’invecchiamento, visto in questo quadro, si carica quindi di un grande significato politico. Non è un capitolo delle politiche sociali e di welfare, ma è un capitolo della democrazia costituzionale, e la persona anziana vi entra in gioco non come oggetto di interventi settoriali, ma come cittadino. È questo un tema che ritroviamo in molti passaggi della ricerca, e in effetti sta proprio qui il salto di qualità che deve essere compiuto nell’azione politica.

Sotto questo profilo, è interessante valutare le risposte fomite dai dirigenti politici, locali e nazionali. È un esame che ciascuno potrà fare, partendo dalle proprie autonome posizioni politiche, sulla base dei testi che la ricerca ci mette a disposizione. Non è mia intenzione, in questa sede, dare dei giudizi circostanziati. Voglio solo osservare come ci sia un tema ricorrente nelle diverse analisi politiche, anche tra loro molto distanti, ovvero la necessità di recuperare la dimensione del territorio come il luogo in cui politica e società possono ritrovare la loro necessaria relazione, come lo spazio per una politica più attenta alle domande sociali e alle concrete condizioni di vita delle persone.

Questa centralità del territorio assume una valenza ideologica ed identitaria nel discorso della Lega, come risulta chiaramente nell’intervista a Maroni: è il “senso di appartenenza territoriale” che può riempire il vuoto politico e che può dare una risposta alla domanda di identità. Si tratta solo di rovesciare l’antico schema classista: dalla coscienza di classe alla coscienza territoriale. Non credo di dover ancora una volta ribadire perché questa operazione sia illusoria e mistificante, in quanto crea soltanto un “mito” e non dà nessuna soluzione concreta ai problemi ed ai conflitti reali.

In altri interventi il territorio è pensato non come la risposta, ma come il luogo della domanda, come il campo dove sperimentare nuovi legami sociali, nuove forme di solidarietà e di comunità, con un intreccio di azione pubblica e di iniziativa sociale, utilizzando anche le potenzialità innovative del principio di sussidiarietà.

E questo vale in particolare per gli anziani, che più di altri, come annota giustamente il sindaco di Torino, “vivono” il territorio, il quartiere, e ne percepiscono i processi di degrado.

È quindi necessario, un presidio democratico del territorio, e questo richiede un’azione convergente e coordinata delle istituzioni politiche e dei soggetti sociali. Centralità del territorio, è stata anche la parola chiave della conferenza d’organizzazione della CGIL.

Lungo questa direzione, credo che possiamo trovare interlocutori politici ed istituzionali con cui misurarci. E soprattutto possiamo sperimentare una pratica sindacale, che punta a costruire dei sistemi territoriali integrati, con un rapporto di dialogo e di concertazione tra i diversi soggetti. È la linea che lo SPI sta già cercando di realizzare con lo sviluppo della negoziazione sociale.

Si tratta ora di articolare questo discorso, di renderlo concreto, operativo, di sviluppare una più larga sperimentazione, utilizzando tutti gli strumenti possibili e costruendo le alleanza necessarie. Naturalmente, il territorio non è il tutto esclusivo, ma è solo una articolazione. Il locale ha senso non in una logica di arroccamento, ma in un rapporto aperto, con un movimento che rinvia dal particolare al generale, proponendoci cioè di governare i grandi flussi della globalizzazione. La ricerca di Aaster ci dà molti strumenti conoscitivi e di analisi, sui quali possiamo costruire una nostra proposta di politica sindacale. Ma tutto questo richiederà un lavoro, una discussione, un approfondimento, richiede che noi tutti ci mettiamo in un atteggiamento di “ricerca”, per dare un senso, un indirizzo generale al nostro lavoro, sulla base di una più incisiva comprensione della realtà e dei suoi mutamenti. La ricerca è solo uno strumento, uno stimolo. Sta a noi dare efficacia a questo strumento di lavoro, in modo che tutta l’organizzazione possa vedere con maggiore lucidità e chiarezza i propri compiti futuri.



Numero progressivo: D38
Busta: 4
Estremi cronologici: 2008, settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza del testo a stampa in V53
Pubblicazione: “Gli anziani e la politica. Viaggio tra gli iscritti allo SPI CGIL”, Edizioni LiberEtà, settembre 2008, pp. 5-13