PASOLINI E GLI ANNI SESSANTA

Convegno SPI CGIL, Bologna 27 novembre 2012

Introduzione di Riccardo Terzi – Segretario dello SPI CGIL

Questa iniziativa può apparire un po’ inusuale, e troppo lontana dal raggio di azione che è proprio del sindacato. Sono perciò necessarie alcune parole di chiarimento.

Perché gli anni Sessanta? Sono gli anni che hanno segnato, per la nostra generazione, il momento decisivo della sua formazione politica. Se osserviamo la realtà attuale dello SPI, la biografia dei suoi quadri e militanti, l’universo ideologico e valoriale che tuttora funziona come criterio di orientamento e di giudizio, si può cogliere in modo evidente come tutto ciò ha origine in quella straordinaria stagione politica, con i suoi miti e con le sue illusioni, con la sua carica innovativa e con i suoi fallimenti. Le traiettorie individuali sono estremamente differenziate, e non ci può essere un’unica chiave di lettura, un’unica memoria di quel tempo. Ma è quello il tempo che ha plasmato, pur nella diversità delle esperienze, la nostra vita, il nostro carattere, il nostro modo di stare nel mondo.

Si tratta quindi per noi, oggi entrati nella fase critica dell’invecchiamento, sospesi tra rimpianto e speranza, tra saggezza e rancore, tra passione e disincanto, di compiere un bilancio critico della nostra esperienza di vita, per capire dove stanno i punti critici, dove i passi falsi, dove le contraddizioni che non abbiamo saputo risolvere. La memoria va usata come una risorsa politica, al servizio del futuro. Se è solo nostalgia o idealizzazione del tempo perduto, essa finisce per essere solo un peso sotto il quale restiamo schiacciati.

La domanda politica può essere allora formulata così, in tutta la sua crudezza: perché quel movimento espansivo, così ricco di idealità e capace allora di produrre una straordinaria spinta partecipativa, si è infine del tutto rovesciato nel suo opposto, dando luogo ad una lunga e non ancora conclusa fase di restaurazione? Quale è stata la molla politica e ideologica che ha reso possibile questo ribaltamento? E dove stanno le nostre responsabilità?

Sulle responsabilità tendiamo sempre a sorvolare, come se fossimo solo vittime di un destino, di una congiura della storia, senza mai avventurarci nel territorio insidioso del ripensamento critico e autocritico. Ma così ci condanniamo ad essere solo i testimoni impotenti di un passato che non ritorna, a vivere il presente come perdita e come sradicamento, abitatori di un mondo che ci è divenuto del tutto estraneo. Sul versante opposto, c’è l’entusiasmo cieco e incosciente per tutto ciò che appare nuovo, c’è la metafisica dell’innovazione, quali che siano le sue forme e i suoi contenuti, c’è l’ansia nevrotica di stare al passo con i tempi. Alla figura del vecchio nostalgico e rancoroso si contrappone la figura altrettanto patetica del vecchio che si camuffa dietro un esibito e improbabile vitalismo giovanile.

Parlare degli anni Sessanta vuol dire dunque parlare di noi stessi, di ciò che vogliamo essere e di ciò che pensiamo di poter fare. Vuol dire tentare di sottrarsi alle due opposte trappole della nostalgia e della vitalità artefatta, per ritrovare una bussola che ci possa orientare nel tempo presente.

In secondo luogo, perché Pasolini? È questa una scelta politica consapevole, che può ovviamente essere discussa e contestata. Pasolini rappresenta, a mio giudizio, lo sguardo critico che vede per tempo, più di qualsiasi altro, tutto il groviglio delle contraddizioni del “movimento” del ‘68, la sua interna fragilità culturale e il suo possibile destino di svuotamento e di fallimento. Ed è una critica condotta dall’interno, in un complicato rapporto tra condivisione e rifiuto, tra attrazione e repulsione, il che lo conduce in una difficile condizione di incomprensione, e spesso di isolamento.

La sua tesi di fondo, se è possibile così sintetizzarla, è che tutto il lavoro di negazione, di contestazione, di distruzione delle vecchie forme, finisce per essere, in modo del tutto inconsapevole, funzionale alla modernizzazione capitalistica, che ha bisogno, per potersi liberamente dispiegare, di creare una società di mercato, senza vincoli, senza regole, individualizzata e deresponsabilizzata, dove ci sia, nello stesso tempo, il massimo di libertà apparente e il massimo di dipendenza dai modelli consumistici indotti dal mercato. Il ‘68, in questo senso, non ha rappresentato un’alternativa, ma solo un’accelerazione del processo. Pasolini vede dunque che si sta stagliando all’orizzonte una nuova forma sociale, un nuovo modello, neocapitalistico e consumista, che si libera dei vecchi involucri delle ideologie conservatrici, e che spinge sull’acceleratore del cambiamento, dell’innovazione, del progresso tecnico, dando luogo ad un nuovo stile di vita.

E la sinistra, con tutte le sue ingenuità progressiste, finisce per essere del tutto spiazzata, perché la bandiera del progresso e del cambiamento è passata in altre mani. È questo un punto cruciale, ancora oggi attualissimo. Lo sbandamento della sinistra si spiega in larga misura così, come l’effetto del “mito” del progresso, di una visione della storia come un movimento solo ascendente, senza riuscire a vedere i suoi collaterali effetti sociali e culturali. L’errore che abbiamo tutti compiuto negli anni Sessanta è quello di non aver capito questa nuova dialettica della storia. Accade così che le stesse conquiste civili, come quelle dei referendum sul divorzio e sull’aborto, hanno in sé un’ambiguità di significato, perché sono nello stesso tempo un processo di liberazione e un varco che apre la strada verso una forma sociale del tutto individualistica, in cui si perde il senso della responsabilità e del rapporto con l’altro. Nel processo di liberazione, insomma, c’è anche un sottofondo melmoso di egoismo e di cinismo, che via via sembra prendere il sopravvento.

Tutto ciò ci rimanda ad un grande nodo politico e filosofico: quale funzione storica può svolgere il momento della negazione, e come esso debba ad un certo punto superare il suo lato negativo per dare luogo ad un processo nuovo di ricostruzione: la negazione della negazione, nel linguaggio di Hegel, l’ordine nuovo, nel linguaggio di Gramsci. La negazione, lasciata solo a se stessa, alla sua dinamica spontanea non crea nessun ordinamento superiore, ma finisce per essere usata da tutte quelle forze che puntano a costruire il loro dominio sulla dissoluzione delle regole e dei legami sociali. È quello che sta accadendo anche nell’attuale crisi politica: dietro l’attacco al sistema dei partiti, dietro il loro imminente collasso, non si annuncia una nuova e più matura democrazia, ma l’avvento di un sistema di potere, tecnocratico e oligarchico, che si può finalmente sbarazzare dei troppo stretti vincoli democratici. Come spesso accade, le più virulente forze anti-sistema fanno il gioco del sistema. E questo era, all’epoca, l’assillo di Pasolini, l’angoscia per un cambiamento che preparava la strada ad un nuovo dominio autoritario, determinando solo un nuovo equilibrio di forze all’interno della classe dominante. È «una lotta che la borghesia combatte con se stessa», e alla fine della partita c’è un capitalismo più forte, più pervasivo e più aggressivo. E così, in effetti, è accaduto.

Pasolini, come è noto, ha sempre guardato al PCI come all’unica autentica forza popolare, anche se era severamente critico verso i suoi tratti autoritari, paternalistici, moralistici. E tra il PCI e Pasolini c’è una sotterranea e fondamentale consonanza. Penso, ad esempio, alla formula di Berlinguer del partito “rivoluzionario e conservatore”, con la quale si vuol tenere insieme il momento della negazione e quello della costruzione. Lo stesso concetto lo troviamo in Pasolini, quando dice, in una delle sue corrispondenze su Vie Nuove, che «i veri tradizionalisti sono i marxisti», o che «non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato».

È una visione della storia che rifiuta il progressismo superficiale, positivista, e cerca di cogliere il complesso rapporto dialettico tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione. A entrambi, Berlinguer e Pasolini, farebbe orrore l’idea della rottamazione. Ora, la negazione, presa in se stessa come il valore assoluto, senza nessuna capacità di comprensione e di recupero del passato, senza avere il senso della complessità dei processi e delle necessarie mediazioni, finisce per sboccare nella pratica del terrorismo. È il «fascismo di sinistra», contro cui Pasolini combatte, fin dall’inizio, una durissima battaglia. Esso è il prodotto di un vuoto culturale, di una atrofizzazione delle idee e della sensibilità, che viene compensata dal fanatismo di una ideologia astratta, ossificata, che non entra mai in relazione con la realtà vivente, ma la appiattisce e la scarnifica dentro uno schema di violenta semplificazione. E la violenza diviene allora l’unica parola che si è capaci di dire.

Gli anni Sessanta, e quelli successivi, non dobbiamo dimenticarlo, sono anche questo, sono il terreno su cui è cresciuta questa pianta degenerata, con tutto il suo carico di cupa e cieca intolleranza, che ha fatto deragliare, per un lungo arco di tempo, tutta la nostra storia politica. L’uccisione di Moro è il momento culminante e di più alto valore, simbolico, proprio perché Moro incarna in sé l’idea della politica come complessità e come mediazione. Se poi viene la restaurazione, è anche l’effetto di questo processo degenerativo. Ciò spiega, mi sembra, la nostra scelta di leggere la vicenda degli anni Sessanta attraverso la testimonianza di Pier Paolo Pasolini, non per condividere tutto ciò che ha detto e scritto, ma perché ha visto per tempo ciò che già stava maturando nel sottofondo della nostra società, con uno sguardo disperato e profetico. Non possiamo dire di non essere stati avvisati di ciò che stava per accadere.

In terzo luogo, perché Bologna? È la città «consumista e comunista», come la definisce Pasolini. È quindi un decisivo punto di osservazione per capire fin dove la sinistra ha saputo, o voluto, offrire un’alternativa, e non solo un modello di buona amministrazione. E la domanda oggi ritorna: qual è il nostro compito? Solo moralizzare il sistema, solo mettere ordine nel disordine istituzionale, solo garantire efficienza? O non c’è la necessità di un diverso modello, di un lavoro più in profondità di ricostruzione del tessuto sociale?

Di questo si parla nella disputa sulla cosiddetta “agenda Monti”: se si tratta solo di mettere in ordine i conti, di razionalizzare l’esistente, o se è la società, nel suo insieme e nei suoi fondamenti, che deve essere riprogettata, su diverse basi. Ma serve, è chiaro, un’azione politica efficace, serve agire sui rapporti di forza, servono esperienze reali, risultati, e non solo testimonianze. Come dice Pasolini «il non vincere mai, e l’essere votati alla sconfitta, inaridisce». Sta qui il difficile passaggio da compiere, per sfuggire alla morsa che sembra condannarci alla passività subalterna o all’impotenza. È il tema della politica attuale, e anche, in modo ancora più stringente, del sindacato, la cui funzione di rappresentanza si misura sul ritmo della concreta esperienza di vita e di lavoro delle persone.

Per questo, io credo che la nostra discussione di oggi ha molto a che fare con i dilemmi attuali dell’azione sindacale, su cui si scarica una potente offensiva conservatrice. È sul terreno culturale, anzitutto, che noi siamo stati sovrastati. E non ce la caviamo solo con il pragmatismo, con la tattica quotidiana, con l’esercizio del nostro mestiere contrattuale, perché se la forza dell’egemonia sta da un’altra parte tutto il nostro lavoro finisce per essere solo difensivo, senza prospettive. Il fronte culturale non è il superfluo di cui possiamo fare a meno, ma è la condizione indispensabile per aprire un nuovo corso politico. E lo SPI può essere un luogo privilegiato di questa riflessione, proprio perché noi siamo stati i testimoni di una storia politica, e più di altri forse possiamo cercare di capirne il senso, le contraddizioni, le rotture, per guardare in avanti. Per questo io insisto sull’idea che possiamo sfuggire alle trappole dell’invecchiamento solo se ci occupiamo del futuro, se esercitiamo in tutta la sua pienezza il nostro diritto di cittadinanza.

Per concludere, voglio segnalare brevemente alcuni importanti lasciti che ci vengono dall’esperienza degli anni Sessanta, pur nelle sue tortuose contraddizioni di cui abbiamo parlato. In primo luogo, c’è anche una straordinaria storia operaia, che in varie forme si è intrecciata, anche in modo conflittuale, coi movimenti giovanili e studenteschi. C’è stata una relazione, un’influenza reciproca, uno scambio, questo è il fatto importante. Spesso ciò è avvenuto all’interno di una rappresentazione del tutto ideologica e astratta, ma in ogni caso, pur con queste deformazioni, il tema del lavoro è stato posto al centro, e si è capito che non c’è cambiamento politico se non c’è anche, contestualmente, un nuovo ordine sociale, un nuovo sistema di relazioni nei luoghi fondamentali della produzione. Poteva essere irritante l’atteggiamento saccente e prepotente con cui i diversi gruppi dell’estremismo organizzato pretendevano di dettare legge, di sostituirsi al sindacato, di essere gli unici interpreti della coscienza di classe, ma forse oggi possiamo rimpiangere questa attenzione al mondo del lavoro, nel momento in cui tutti sembrano affannarsi a dimostrare che le classi sono finite e che il conflitto sociale è un rottame del Novecento.

Tra le poche eccezioni mi piace citare Luciano Gallino, che ha descritto le politiche oggi dominanti come una forma sublimata e raffinata della lotta di classe, che nasconde la sua ferocia dietro la falsa neutralità della scienza economica di stampo liberista. È dal conflitto sociale che occorre ripartire per ridare un senso alla politica della sinistra, e per riattivare il sistema democratico, come un processo di inclusione e di promozione sociale.

Un altro aspetto che va ricordato è la grande spinta innovativa che si è aperta nella Chiesa, con il Concilio Vaticano II, con le Encicliche di Papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, con i fermenti di un mondo cattolico di base che opera una rottura netta e decisa con tutta una tradizione clericale e conservatrice. Occorre oggi riaprire una dialettica positiva col mondo cattolico, e più in generale con la religiosità nelle sue diverse forme, rifiutando la sua identificazione col moderatismo, e rifiutando la logica perversa dell’alleanza tra fede e potere.

È un tema ricorrente nella riflessione di Pasolini, che considera il sentimento religioso come una componente della nostra vita, come un sottofondo emotivo e irrazionale che sempre riemerge, e che può essere, di volta in volta, una forza potente di liberazione o di repressione. Nel cammino dell’emancipazione umana, non si può prescindere da questa possibile risorsa. Ma è questo un tema tutto da riscoprire, dopo un periodo in cui nelle chiese, cristiane e non, è prevalsa una logica di restaurazione, fondata su un’idea integralista della verità.

Infine, gli anni Sessanta sono percorsi da un tumultuoso movimento di democratizzazione, nei più diversi ambiti, dalla magistratura alla scuola, dalla sanità alle forze armate, con una critica radicale a tutte le strutture di tipo autoritario. È questo un filone fecondo, che deve oggi essere riattualizzato, nelle nuove condizioni. In effetti, contro le torsioni tecnocratiche oggi dispiegate, la democrazia ha senso solo se viene configurata e praticata come democratizzazione, come un processo di riconquista del potere di controllo e di decisione, mettendo in discussione, in tutti i campi, i meccanismi gerarchici dell’autorità, o della competenza, o del merito. E il banco di prova decisivo, su cui si misura la forza inclusiva della democrazia, è quello del rapporto tra politica ed economia, che è stato in questi anni devastato, a vantaggio di un mercato senza regole.

La critica del principio di autorità era, nel movimento degli anni Sessanta, l’aspetto più innovativo e più ricco di potenzialità, ma anch’esso è finito stritolato dentro le rigidità di una rappresentazione ideologica e dogmatica, che ha via via mortificato e stravolto le originarie istanze democratiche. Ma da qui possiamo ripartire. Oggi, con la coscienza delle degenerazioni e degli errori della nostra storia passata, possiamo tentare di costruire un nuovo progetto politico, che sia fondato sulla più larga partecipazione democratica. E Pasolini, con la sua intelligenza critica, col suo pensiero controcorrente, può ancora essere una guida per orientarci nelle contraddizioni del nostro tempo presente, evitando di essere dominati dall’«atroce deviazione della mente umana che è il buon senso».

 

Per approfondire:
Aldo Tortorella
Pasolini e gli anni sessanta e l’attualita di certe situazioni



Numero progressivo: L49
Busta: 9
Estremi cronologici: 2012, 27 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa di pagina web e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: Pubblicato in “Inchiesta online”, 8 aprile 2013. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 315-322