LOMBARDIA. UNA SANITÀ DA CURARE

Servizi territoriali e partecipazione: dieci proposte per rispondere ai bisogni di salute dei cittadini
Convegno CGIL Funzione Pubblica SPI Lombardia, Milano 14 giugno 2005

Introduzione di Riccardo Terzi – Segretario Generale SPI CGIL Lombardia

Il sindacato deve affrontare il problema della politica sanitaria da un punto di vista negoziale, cercando cioè di individuare qual è lo spazio possibile per un confronto sindacale, evitando la contrapposizione di astratti modelli ideologici. È un’operazione non facile, perché tutto il dibattito sulle politiche di welfare è fortemente ideologizzato, soprattutto in Lombardia, e perché con il governo regionale non si è mai sviluppato un vero confronto sindacale, ma ci si è limitati a far funzionare qualche tavolo tecnico, senza mai poter discutere davvero delle scelte strategiche complessive. L’unico criterio che dobbiamo seguire è quello di metterci dal punito di vista dei cittadini, delle persone che vogliamo rappresentare, e vedere, in questa ottica, quali sono le criticità del sistema sanitario in Lombardia e come possono essere affrontate.

Naturalmente, in un campo come questo, la rappresentanza del sindacato non è esclusiva, e dobbiamo metterci in una posizione di dialogo e di collaborazione con altri soggetti, dalla rete associativa del terzo settore alla comunità scientifica. E lo stesso sindacato ha al suo interno una pluralità di interessi, che devono essere tra loro mediati, degli utenti e degli operatori, degli anziani bisognosi di cura e dei dipendenti pubblici.

La fondamentale criticità del sistema sanitario in Lombardia sta nel fatto che esso si regge su una forte struttura ospedaliera, con alcune punte di avanzatissima qualificazione, ma manca un presidio territoriale diffuso, manca ciò che viene prima e dopo il ricovero ospedaliero. È quindi un sistema squilibrato, che risponde alle più gravi emergenze, ma non riesce ad accompagnare le persone nelle loro quotidiane necessità, sia nella fase della prevenzione e del controllo, sia in quella dell’accompagnamento e della riabilitazione post-ospedaliera.

Questo difetto incide particolarmente sulle persone anziane, che più hanno bisogno di una costante azione di sostegno, e per le quali spesso sarebbe necessaria e sufficiente un’efficace assistenza domiciliare, oggi del tutto carente.

Manca, in sostanza, un presidio territoriale, il quale non può che essere socio-sanitario, con una forte integrazione tra intervento sanitario e politiche sociali. Ci possono essere diversi modelli, diverse soluzioni possibili a questo problema. Un esempio interessante è quello della “casa della salute”, che si sta sperimentando in Toscana. Un’altra ipotesi di lavoro è quella di riorganizzare tutta la rete dei medici di base, passando dalla concezione tradizionale del libero professionista a quella di un lavoro organizzato collegialmente, dando luogo a strutture polivalenti, che mettono insieme diverse competenze e che possono così offrire una risposta più qualificata ai bisogni delle persone. Le soluzioni possono essere diverse, ciò che è importante è riconoscere che questo è un problema aperto e prioritario. Possiamo cercare di affrontarlo, qui in Lombardia, con un dialogo concreto tra istituzioni, operatori sanitari, sindacato, associazioni?

Nel programma elettorale del presidente Formigoni c’è qualche vago accenno a questo tema, ma manca qualsiasi indicazione operativa concreta. Prevale una linea di continuità, esaltando il modello lombardo, senza vederne però con sufficiente chiarezza i punti critici, i problemi che sono rimasti irrisolti. Ecco allora un tema di iniziativa sindacale e di confronto istituzionale: l’attività di prevenzione, da un lato, e quella di riabilitazione, di assistenza post-ospedaliera, dall’altro, che sta diventando una vera emergenza, anche per i criteri di rigida efficienza aziendale che sono seguiti dalle strutture ospedaliere, le quali riducono al minimo i tempi di degenza, scaricando poi sui malati e sulle loro famiglie tutti i problemi successivi di recupero e di riabilitazione.

Il secondo aspetto da considerare è il rapporto della politica sanitaria (e più in generale di tutte le politiche di welfare) con le trasformazioni sociali e demografiche che stanno avvenendo nella nostra società, e quindi con le nuove domande e con i nuovi bisogni, cercando così di attrezzare tutta la rete dei servizi per affrontare non solo le situazioni di emergenza, ma le tendenze di fondo e strutturali della società italiana.

C’è anzitutto il processo di invecchiamento, che sta cambiando profondamente tutta la struttura sociale. Tutte le proiezioni demografiche per i prossimi decenni ci danno delle previsioni allarmanti, con una crescita molto consistente del numero delle persone anziane e delle situazioni di non autosufficienza. A questo si accompagna anche un processo di destrutturazione della famiglia tradizionale, per cui la famiglia sempre meno riesce a funzionare come una rete di protezione. Basti considerare il numero, in costante crescita, delle persone sole. Si indebolisce quindi quello che è stato nel passato un importante punto di forza a sostegno della coesione sociale, e in queste nuove condizioni tutte le politiche per la famiglia debbono quantomeno essere aggiornate e ripensate.

C’è un altro grande processo sociale, di cui si parla ancora troppo poco nel dibattito pubblico: è l’ondata migratoria, che cambia la composizione sociale e incide sulle forme della convivenza e sulle identità culturali. Ci troviamo di fronte a persone deboli, senza diritti, con barriere linguistiche, ideologiche, e a volte anche razziste, che impediscono la realizzazione piena dei diritti di cittadinanza. Se a questo aggiungiamo le nuove forme di povertà e di emarginazione, presenti soprattutto nelle grandi aree urbane, vediamo un quadro complessivo di allarme sociale, nel quale per moltissime persone tutto il tema dei diritti è tutt’altro che risolto.

Dobbiamo allora considerare tutto il funzionamento del sistema sanitario e assistenziale dal punto di vista di queste persone, considerando le loro fragilità e la loro difficoltà a orientarsi in un sistema complesso, ad affrontare le complicazioni burocratiche, a disporre delle informazioni necessarie. Quando la Giunta Regionale mette al centro della sua strategia il principio della “libertà di scelta”, pone un problema molto importante, ma occorre vedere in concreto come rendiamo effettiva questa libertà, che rischia altrimenti, se manca una concreta azione di accompagnamento delle persone più deboli, di essere solo uno slogan propagandistico. Se tutta la situazione sociale richiede un sistema rafforzato di Welfare, diventa decisivo il tema delle risorse economiche. Va attentamente studiato tutto il problema della compartecipazione dei cittadini ai costi del sistema, distinguendo nettamente però le diverse situazioni individuali, sia dal punto di vista del reddito, sia sotto il profilo delle condizioni di salute. In questo senso, è stato importante l’accordo sindacale che ha eliminato i ticket per i malati cronici.

Ma resta del tutto irrisolto quello che è il problema più acuto, sotto il profilo delle relazioni affettive e dei costi economici, e che riguarda le situazioni di non autosufficienza. È un discorso che va riaperto con urgenza sia a livello nazionale, sia nelle singole Regioni, dove possono essere avviate delle sperimentazioni, anche con forme autonome di finanziamento (addizionale Irpef, tassa di scopo, assicurazione obbligatoria). Ecco un caso concreto in cui la libertà di scelta si scontra con la durezza della realtà, e in moltissimi casi l’unica scelta è quella di cercare una soluzione sul mercato privato delle assistenti familiari.

In conclusione, la politica sanitaria in Lombardia ha bisogno di essere inquadrata in una visione sociale allargata, non essendo per nulla sufficiente la rete ospedaliera ed essendo necessario un intervento integrato che affronti le diverse emergenze sociali. Il principio della sussidiarietà può essere un utile filo conduttore per affrontare questi problemi. Questo principio viene oggi sbandierato dalla Giunta Regionale, ma viene nei fatti disatteso e distorto. La sussidiarietà vuol dire due cose: valorizzazione di tutta la rete delle autonomie locali, e coinvolgimento dei soggetti sociali. Su entrambi i fronti, il governo regionale è inadempiente. Non c’è la responsabilizzazione di Comuni e Province, ma c’è un sistema regionale accentrato. E non c’è un confronto sistematico con i soggetti sociali, tra i quali certo non si può ignorare il peso delle rappresentanze sindacali. La Lombardia, tra l’altro, è l’unica regione che non si è ancora dotata di uno statuto, che non ha quindi definito la sua architettura istituzionale, e non ha creato gli strumenti e gli istituti della partecipazione democratica alle decisioni. La sussidiarietà rischia quindi di essere solo un vessillo ideologico, senza contenuti e senza effetti concreti.

Noi quindi insistiamo perché si apra davvero un confronto su tutti i temi fin qui accennati, coinvolgendo tutti i soggetti che sono interessati, tenendo conto dei nuovi poteri e delle nuove competenze che sono state attribuite alle Regioni nel campo delle politiche sociali, prendendo quindi sul serio il federalismo come una scelta di autogoverno e di responsabilità delle diverse comunità regionali e locali.



Numero progressivo: D27
Busta: 4
Estremi cronologici: 2005, 14 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in rivista non identificata