L’EQUAZIONE IRRISOLTA

di Riccardo Terzi

Per impostare utilmente la discussione intorno alla proposta del “partito democratico” (questa è ormai la sua definizione ufficiale dopo il seminario di Orvieto) occorre in via preliminare analizzare lo stato attuale della politica e i processi che l’hanno segnata nel corso di questi ultimi anni.

Occorre cioè capire come questa proposta si innesta nella realtà e quali nuove dinamiche ne possono scaturire. Senza questo lavoro analitico tutta la discussione sui modelli politici e sulle identità di partito resterebbe campata per aria.

La mia premessa è che lo stato attuale della politica è uno stato di crisi e che questa crisi, che si va trascinando da più di un decennio, rende incerto e problematico tutto il funzionamento della nostra vita democratica.

In questa crisi possiamo cogliere due aspetti. Il primo è che i partiti politici attuali, sia quelli sopravvissuti al grande crollo della prima repubblica, sia quelli di più recente formazione, sono strutture a debole identità e con scarsa circolazione democratica. Una volta dissipato il patrimonio delle ideologie politiche tradizionali, su cui si fondava la passione politica militante, con le sue generosità e con le sue intolleranze, lo spazio politico è occupato da agenzie elettorali e da strutture di tipo oligarchico, la cui vitalità si esaurisce nelle prestazioni televisive del leader di turno.

A ciò si accompagna anche una frammentazione del sistema politico, perché mentre non c’è grande abbondanza di teorie politiche è illimitata l’ambizione personale dei leader potenziali, e con l’invenzione del partito “personale” la proliferazione dei partiti può divenire un processo infinito. Ma nel mercato politico non succede che l’ampliamento dell’offerta aumenti la soddisfazione dei cittadini.

Succede il contrario, che si apre una frattura nel rapporto tra politica e società.

Il secondo aspetto riguarda la forma che ha assunto il bipolarismo. Si stenta a vedere quella evoluzione verso una competizione più limpida e più controllabile che del bipolarismo dovrebbe essere la virtuosa conseguenza. Ciò che è sotto i nostri occhi è solo una rissa permanente e violenta, che impedisce qualsiasi confronto delle idee e dei programmi, è la versione “fondamentalista” del bipolarismo, e quindi fanatica e faziosa, per cui qualsiasi “mediazione” è bollata come un tradimento. Ma senza mediazione la politica regredisce allo stato primitivo della guerra per bande. E accade spesso che la violenza dello scontro non è dovuta ad un eccesso di lontananza, ma piuttosto ad un eccesso di vicinanza, perché si tratta solo di decidere “chi” occupa una determinata posizione, chi ha il potere di fare ciò che comunque è necessario fare.

È solo un problema di immaturità, di transizione non ancora completata? Stiamo cioè camminando ancora troppo lentamente ma nella direzione giusta, o, visti i risultati, appare a questo punto ragionevole dubitare della direzione di marcia? E quali sono i passaggi possibili e utili per impostare su basi nuove il discorso di una moderna democrazia bipolare?

Se questo è il quadro, un po’ crudo ma realistico, la posizione più incomprensibile è il timore del nuovo, come se ci fossero forti identità politiche da salvaguardare. La sinistra si trova già oggi in una condizione di grave indeterminatezza, essendo crollate le basi teoriche e sociali su cui essa di reggeva. Imboccare una via innovativa è quindi una necessità non eludibile. Non è quindi in nessun modo accettabile un discorso di prudente conservazione (di che cosa?), e il pericolo maggiore è piuttosto quello che deriva dalla forza di inerzia degli apparati e dall’autoinganno di un ceto politico che pensa di essere il depositario di una identità, mentre invece è solo il risultato fortuito e provvisorio di una crisi non risolta.

Naturalmente, l’innovazione politica può percorrere diverse strade. Non c’è nulla di inevitabile, di necessitato. Trovo quindi del tutto sbagliata la tesi che la scelta del “partito democratico” sia obbligata, senza alternative. Non è il frutto di uno stato di necessità, ma di una scelta, di una volontà, anche per molti aspetti di un azzardo, di una difficile scommessa sul futuro. Nello stesso tempo, stanno prendendo forma anche altri progetti, come quello di Rifondazione Comunista, che cerca di tenere insieme radicalità e governo, antagonismo sociale e assunzione di responsabilità nelle istituzioni, o come il tentativo della Rosa nel pugno, che appare però già in forte sofferenza, di rimettere al centro il tema della laicità dello Stato.

Sono vie diverse e non necessariamente in conflitto fra di loro. È chiaro però che c’è bisogno, nello schieramento di centro-sinistra, di una forza centrale e trainante, la quale può essere una garanzia di successo per l’insieme della coalizione. I dirigenti di Rifondazione non saranno disposti ad ammetterlo, ma i più accorti sanno che il loro progetto sta in piedi solo in quanto trova un interlocutore, e che quindi c’è di fatto una reciproca convergenza e complicità tra la nuova sinistra radicale e il partito democratico. Ci sarà qualche scontro di frontiera, per segnare i rispettivi rapporti di forza, ci sarà un’area contesa (in particolare l’attuale sinistra DS), ma è nella logica delle cose che si trovi infine un equilibrio su cui costruire una collaborazione per il futuro. Ciò intorno a cui oggi si sta discutendo non ha i caratteri distruttivi della scissione, ma quelli più razionali di una riorganizzazione del campo della sinistra.

Ma quali sono le “domande” alle quali deve rispondere un nuovo progetto politico? Questo è un interrogativo cruciale, perchè in politica non si costruisce nulla di vitale se non c’è un solido retroterra su cui poter lavorare, se non c’è quindi una corrispondenza reale fra ciò che si progetta e ciò che è potenzialmente maturo nella vita sociale e nella coscienza delle persone. Insomma, il partito democratico interpreta qualcosa di reale, o è solo una costruzione artificiosa tutta interna alle élites politiche?

Vediamo allora di leggere le domande, talora anche inespresse, che circolano nel corpo sociale, e vediamo in parallelo come può prendere senso il progetto politico e su quali leve deve agire per assumere la necessaria forza espansiva. Questo lavoro di rimando dal sociale al politico è essenziale. Non si tratta qui della vecchia e stucchevole disputa tra società civile e società politica, ma di vedere le necessarie connessioni tra i due piani. Se i due piani restano slegati, ciò significherebbe semplicemente che il progetto politico non ha le gambe per camminare. E in questo caso sarebbe solo un’inutile perdita di tempo.

Ora, di tutto questo non si è abbastanza discusso. Anche a Orvieto, in una discussione complessivamente seria e impegnata, la società reale è rimasta troppo sullo sfondo. E quindi il rischio di una operazione tutta ed esclusivamente “politica”, che non va oltre gli steccati della classe dirigente, non è ancora sufficientemente sventato.

Una prima domanda, quella in apparenza più semplice ed elementare, è la domanda di unità. Di fronte alla frammentazione partitica e alla ripetuta esibizione dei particolarismi e dei personalismi, si chiede alla politica di offrire un progetto unitario, di costruire uno spazio comune, nel quale contano i valori di fondo e contano meno le piccole competizioni per la spartizione del potere. È una domanda semplice, ma non banale. E per raccogliere questa domanda, il partito democratico deve realizzare al suo interno una effettiva fusione delle culture politiche che concorrono alla sua formazione. Se esso dovesse essere o apparire solo una precaria convivenza di forze che restano tra loro divise e competitive, tenute insieme solo da una diplomazia di vertice, l’obiettivo politico sarebbe mancato.

Per questo, l’idea di una “federazione” sarebbe la soluzione peggiore, perché non farebbe che riprodurre in modo irrigidito le attuali identità di partito, senza farle evolvere e senza rimetterle in discussione in una ricerca comune che sia davvero aperta e non cristallizzata. Come regolare il pluralismo interno del nuovo partito è un problema complicato. Il pluralismo, è evidente, è nella natura stessa di un partito che mette insieme diverse storie e culture politiche. Ma esso deve essere il più possibile fluido, flessibile, per evitare che la frammentazione si riproduca sotto la forma di correnti rigidamente organizzate. La scelta per il partito democratico ha un senso solo se non si tratta di una coabitazione forzata e se si pensa che essa possa produrre qualcosa di nuovo, una nuova identità e un nuovo senso di appartenenza collettiva.

In secondo luogo, c’è una domanda di partecipazione, c’è il rifiuto di una politica oligarchica e verticistica, che lascia al singolo cittadino, e anche al militante di base, solo la possibilità di adeguarsi a decisioni che sono prese altrove. I giochi sono sempre già fatti, noi possiamo solo assistere allo spettacolo, possiamo simpatizzare, i più generosi possono anche applaudire, ma lo spazio politico non è più uno spazio che ci include, ma è riservato agli addetti ai lavori.

Questa è la sfida più difficile: è possibile rovesciare questa tendenza, è possibile ricostruire uno spazio democratico che sia davvero aperto alla partecipazione di tutti? Quando, in via eccezionale, è stato offerto uno strumento di partecipazione, abbiamo visto una straordinaria disponibilità, come è accaduto in occasione delle primarie. Ma è possibile che l’eccezione diventi la regola? Qui tocchiamo un tema che è essenziale per definire la natura del nuovo partito. In che senso esso si definisce “democratico” ?

Ci possono essere due significati: democratico perché il suo orizzonte è solo quello istituzionale, della governabilità dentro un assetto di potere stabilizzato, o viceversa perché si vuole affrontare il problema della crisi della democrazia e si vuole puntare sulla risorsa della partecipazione e della responsabilizzazione attiva dei cittadini, incidendo quindi sulle strutture del potere. Il partito democratico può avere un futuro solo in quanto si configura come il partito della democratizzazione, come una rottura, quindi, rispetto al modello autoritario–plebiscitario che in questi anni ha occupato la scena politica, e non solo per responsabilità della destra populista.

Sotto questo profilo, la relazione tenuta ad Orvieto da Salvatore Vassallo offre alcuni spunti interessanti, perché essa cerca di disegnare un partito anti-oligarchico, nel quale “l’adesione implichi un diritto a partecipare in maniera diretta alle principali scelte riguardanti l’indirizzo politico e la selezione dei dirigenti”.

In sostanza, è molto importante che la qualificazione di “democratico” non sia l’omaggio retorico ad un valore dato per scontato e per acquisito, ma sia la presa d’atto di una crisi che si è aperta nei nostri sistemi politici e, quindi, la ricerca di nuove soluzioni. Il nuovo partito deve sentire con inquietudine questo tema della democrazia, come una questione non risolta, non archiviata, non confinata nelle celebrazioni del 25 aprile.

D’altra parte, l’ultimo referendum costituzionale ha riattualizzato tutto il problema e ha fatto venire alla luce una sorprendente capacità di reazione ai progetti neo-autoritari della destra.

È quindi possibile scommettere sulle risorse della partecipazione, e cercare di incanalare nel nuovo progetto questa diffusa domanda democratica, dando ad essa voce politica ed inquadrandola in una nuova forma organizzativa. Qui c’è un nodo che è stato ampiamente discusso a Orvieto: come si governa questo processo? Dall’alto o dal basso? È un patto politico tra i gruppi dirigenti, o è un movimento nuovo che supera le strutture esistenti?

Mi pare evidente che queste diverse istanze devono essere tra loro mediate. Se c’è un eccesso di governo dall’alto, il processo si blocca. Se c’è solo un movimentismo non ordinato, si resta fermi ad uno stadio di informalità velleitaria, e non si costruisce un partito. In questo difficile equilibrio stanno le insidie maggiori, perché si rischia in ogni momento di sbandare nell’una o nell’altra direzione.

A Orvieto c’è stato un incontro degli stati maggiori, e c’è stata, in modo chiaro, una scelta politica motivata e determinata. Il partito democratico ha cominciato a prendere forma, e non è più solo un’ipotesi o una suggestione. Ma ora bisogna attivare un più vasto movimento di opinione e mettere in moto un processo democratico più largo. È urgente mettere tra loro in comunicazione i due processi, in modo che la distanza, la separazione di “alto” e “basso”, di politica e società, sia progressivamente superata.

Infine, c’è una domanda di socialità, di coesione, in opposizione ai processi in atto di disgregazione individualistica, di precarizzazione del lavoro e della vita. Per rappresentare questa domanda, possiamo usare il concetto di “solidarietà”, che è comune a tutte le diverse tradizioni del riformismo sociale e alle molteplici esperienze associative, cooperative, sindacali. In che rapporto sta il nuovo progetto politico con questo mondo delle forze sociali organizzate? E quale modello sociale esso intende promuovere?

Questo è il tema finora meno discusso e meno elaborato. Negli ultimi anni si è via via sempre più rarefatto e sfilacciato il rapporto della politica con le rappresentanze sociali, col risultato di incrementare il corporativismo degli interessi da un lato, e l’autoreferenzialità della politica dall’altro. Si deve ora ricostruire una relazione, una comunicazione tra i due piani. E un nuovo partito, che ha l’ambizione di essere una grande forza popolare e di massa, deve chiarire il suo profilo sociale, i suoi referenti, il suo modo di stare nella società e nei suoi conflitti.

Come ha lucidamente chiarito Giuliano Amato nel suo intervento ad Orvieto, il tema si presenta oggi in termini molto diversi rispetto al passato, perché non c’è un “soggetto sociale” coeso, con un proprio autonomo livello di coscienza, non c’è una soggettività di classe che si costituisce per se stessa e che anticipa la politica, ma c’è una dispersione, una frammentazione, che la politica deve cercare di riunificare. Ma, se questo è vero, ciò significa che la politica si deve assumere direttamente la responsabilità di una propria iniziativa sociale, per ricostruire la coesione e la solidarietà in un paese che rischia di essere travolto da una competitività individuale e di gruppo senza regole e senza valori comuni.

In questo quadro, il nuovo partito terrà relazioni aperte, non diplomatiche, senza deleghe e senza collateralismi, con l’insieme delle rappresentanze sociali, con un impegno costante di confronto e di mediazione, ma secondo un proprio preciso indirizzo di politica sociale. La socialità, insomma, non è affidata alle relazioni esterne, ma deve stare nel cuore del suo programma. E questo richiede una pratica di concertazione, riconoscendo pienamente il ruolo e l’autonomia dei corpi sociali intermedi, a partire anzitutto da un confronto serrato con le grandi confederazioni sindacali che costituiscono oggi, pur con i loro limiti, la più diretta e unitaria espressione del mondo del lavoro.

Su questo trinomio (unità, partecipazione, solidarietà) si può tentare di costruire una nuova forza politica di massa, impiantata nella realtà sociale del paese. Ma occorre sapere che questo progetto implica una rottura con le attuali forme della politica, elitarie e verticistiche, che su tutti questi terreni occorrono novità percepibili, occorre un chiaro cambio di marcia e un gruppo dirigente che si immedesima con questa nuova sfida politica. Questi sono, a mio giudizio, i veri nodi da affrontare, dalla cui soluzione dipenderà l’esito finale dell’intero processo.

Vorrei infine rispondere alle due obiezioni che vengono correntemente sollevate: il rischio di un arretramento sulla laicità dello Stato, e il problema delle affiliazioni internazionali.

La laicità significa la costruzione di uno spazio pubblico comune, senza verità precostituite, nel quale sia sempre aperto e praticabile il confronto tra diversi modelli, tra i diversi valori che si incrociano nella nostra vita collettiva. Ora, un partito che è in se stesso pluralista, pluriculturale, garantisce più di altri questo spazio comune, perché dovrà fare del confronto la propria norma, e dovrà quindi trovare di volta in volta soluzioni politiche condivise, secondo un criterio di razionalità. In un grande partito democratico, lo spazio per i fondamentalismi e per i settarismi si riduce, e il tessuto connettivo non potrà che essere di carattere politico, oltre il particolarismo dei convincimenti individuali. La laicità dello Stato e della politica, quindi, non è in discussione, come non è in discussione il peso che ha nella nostra vita collettiva la dimensione religiosa, e la sua legittimazione a pronunciarsi nel dibattito democratico. Ciò che va combattuto è il cortocircuito tra fede e potere, il tentativo di schiacciare l’una sull’altro, l’idea cioè di puntellare la religione con la forza e di assolutizzare il potere in quanto detentore della verità. A questa riemersione del fondamentalismo un partito culturalmente aperto, che unisce laici e cattolici, appare naturalmente come una barriera, proprio per il fatto che esso è inclusivo e riconosce la legittimità dei diversi itinerari, dei diversi approcci alla verità.

Per quanto riguarda la collocazione internazionale, il problema davvero cruciale è quale ruolo viene proposto per l’Italia nell’Europa e nel mondo, e quale giudizio viene dato sui grandi nodi che sono aperti sulla scena mondiale. Da questo punto di vista, molte cose si sono già positivamente chiarite con l’avvio del nuovo governo e con la precisa impronta che Massimo D’Alema sta dando alla politica estera dell’Italia. E questo non dipende dall’appartenenza alle famiglie politiche europee, perché il conflitto passa all’interno di esse, e il nome “socialista” non garantisce nulla, come dimostra ad abundantiam l’esempio di Tony Blair o quello dei socialisti francesi che hanno fatto campagna per il No nel referendum per la Costituzione europea. È tutta la geografia politica dell’Europa che deve essere oggi verificata e rimessa in movimento, alla luce dei nuovi nodi strategici che ci stanno di fronte.

Un nuovo partito, che unisce i molteplici filoni del riformismo italiano, non entra in Europa per accodarsi a qualcuno, ma con l’ambizione di riaprire un confronto e di determinare una nuova dinamica nelle relazioni politiche, guardando anche oltre l’Europa, ai grandi sommovimenti che stanno cambiando la scena mondiale.

Se guardiamo alla nostra storia passata, vediamo come i partiti italiani hanno sempre avuto una loro autonomia e peculiarità, e non sono mai stati, nei loro momenti migliori, la succursale nazionale di una qualche centrale internazionale. In particolare, chi viene dal PCI dovrebbe sapere che è proprio l’autonomia nazionale ciò che ha reso possibile la sua straordinaria esperienza. Il problema delle affiliazioni internazionali dovrà essere affrontato, ma non è la premessa da cui partire, a meno che non si cerchi semplicemente un pretesto per rifiutare la discussione sul nuovo partito.

Ora, ciò che serve è una grande discussione di massa, aperta e plurale, che raccolga i più diversi contributi. Non c’è ancora un progetto definito a cui poter dire solo un sì o un no. C’è un lavoro da fare per rendere più forti e plausibili le ragioni di un progetto che cerca di dare una risposta alla crisi del paese.

A questa discussione non possiamo sottrarci.


Numero progressivo: H36
Busta: 8
Estremi cronologici: 2007, novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, novembre 2007, pp. 18-28