LA TRANSIZIONE POLITICA

L’Italia nella transizione - Convegno CGIL-CRS

Tre relazioni introduttive al dibattito di Milano e le conclusioni del segretario della CGIL
Terzi: La politica
Barcellona: Il sociale
Panzeri: Il sindacato
Cofferati: Rischi e opportunità per la CGIL

Relazione di Riccardo Terzi

Il concetto di “transizione” è un concetto ricorrente nel linguaggio politico. La politica è infatti intelligenza del divenire e governo del cambiamento, ed è quindi sempre, in questo significato largo e generale, l’arte di navigare nella transizione.

Ma quando parliamo oggi dell’Italia nella transizione non ci limitiamo e riproporre l’antica verità di Eraclito, ma ci riferiamo, in un senso assai più stringente, ad una condizione specifica di crisi e di mutamento, la quale investe non solo l’ordinamento politico in senso stretto, ma l’intero universo di significati e di valori che ha fin qui regolato la coscienza collettiva del paese.

Non funzionano più i punti di riferimento e le appartenenze tradizionali, e ancora non si sono affermati nuovi criteri di interpretazione del reale e nuove regole di condotta. La crisi istituzionale è solo un aspetto di questa più generale instabilità ed incertezza.

 

È una situazione aperta, non predeterminata nei suoi sbocchi, come è vero sempre nei momenti di accelerazione della crisi. Potremmo anche ricorrere all’immagine della “catastrofe”, in quanto essa designa una situazione a tal punto alterata da rendere inutilizzabili tutti gli strumenti ordinari di controllo e di regolazione.

La condizione attuale ha esattamente questi connotati, in quanto si è rotto il punto di equilibrio su cui si reggeva l’intero sistema, e tutto quindi è rimesso in discussione e in movimento. Ma è finora mancata una ricognizione attenta delle nuove dinamiche politiche che si sono aperte, e prevale piuttosto l’uso di formule e di schemi propagandistici che sembrano dir tutto e non dicono nulla: la seconda Repubblica, la democrazia del maggioritario, la fine della partitocrazia e del consociativismo, l’opposizione di società civile e società politica.

Con tali mezzi interpretativi, non si afferra la realtà se non nei suoi aspetti più superficiali, e il dibattito politico si avvilisce in un gioco di parole e di simboli.

Se la retorica è la tendenza ad attribuire più valore alle parole che alle cose, possiamo allora dire di trovarci oggi sotto il dominio della retorica.

“La prima cosa da farsi è il raddrizzamento dei nomi”, diceva Confucio. E oggi quanti confuciani si vedono in circolazione! I nomi, quelli sì, sono stati raddrizzati, trasfigurati, e nuove élite si presentano come le uniche depositarie del nuovo, le uniche interpreti legittime delle nuove parole sacre. Ma siamo davvero certi che si siano raddrizzate anche le cose? Nella realtà sembra piuttosto essere in atto una grande operazione di trasformismo e di manipolazione. Conta solo l’effetto immaginifico del messaggio, la retorica, appunto, come arte della comunicazione e della persuasione.

Questo oggi è il rischio, di affrontare i problemi ardui della transizione, e quindi della costruzione di un nuovo ordinamento politico, solo con qualche innovazione di immagine e con il lancio sul mercato di nuove sigle e nuove leadership. Una tale tendenza non riguarda solo la destra e la figura, sicuramente emblematica sotto questo profilo, di Berlusconi. È l’intera vicenda politica italiana che tende a rattrappirsi in un gioco di protagonismi personali e di schermaglie tattiche, con i riflettori puntati su ogni parola ed ogni gesto di quelle dieci persone che riempiono di sé i mass-media, mentre restano nell’ombra i nodi reali del Paese.

 

Messi in crisi i partiti come strumenti di organizzazione collettiva, non c’è il passaggio all’autogoverno della società civile, come recita la retorica ufficiale, non c’è una democrazia più larga e dispiegata, ma c’è la formazione di una casta politica ancora più ristretta ed esclusiva. L’antipolitica ha sempre questo effetto, di sequestrare la politica al controllo democratico e di consegnarla a qualche nuovo potentato. Ed è questo il tragitto che finirà per affermarsi se la situazione è lasciata alla sua dinamica spontanea, se non entra in campo un progetto visibile di riforma del sistema politico, e non possiamo certo ancora dire che questa tendenza sia stata rovesciata. Siamo tuttora sotto il segno dell’antipolitica.

Potremmo definire questo rischio come il «rischio -Pannella». Mi sembra infatti esemplare la parabola che ha portato questo campione della battaglia antipartitocratica e antisindacale a divenire infine il maggiordomo di casa Arcore.

Ed è anche esemplare la sua carica di ambiguità e la sua capacità di rimescolare continuamente le carte. Il fatto è che la società italiana oggi è percorsa, in larga parte, da umori distruttivi, da uno spirito di rancore che finisce per corroderne tutti gli elementi di coesione, e ciò la espone alle più varie manovre diversive.

La Lega, prima, si è alimentata di questo clima, e ora altri soggetti, anche più spregiudicati e pericolosi, giocano la carta della demagogia qualunquista.

L’analisi politica deve prendere le mosse da questi dati. Se non vogliamo costruirci un castello di illusioni, dobbiamo sapere che la condizione della nazione e del suo spirito pubblico presenta oggi molti sintomi di disgregazione. Occorrerà dunque un lavoro ricostruttivo, da realizzare con pazienza e con metodo, con i tempi lunghi che sono propri di qualsiasi opera non effimera, con il senso profondo della realtà e non con i giochi di artificio della retorica. È il momento di una politica raccolta, meditata, misurata. Altrimenti il sistema politico impazzisce, travolto da processi che non riesce a controllare, da un permanente stato di emotività e di tensione, che impedisce sia la formazione di una nuova classe dirigente sia l’attuazione di un disegno ragionato di riforma delle istituzioni.

Se questo è il quadro, e se questi sono i tempi della politica, ha assai poco senso l’infinita disputa sulla data delle elezioni, come se esse potessero rappresentare un momento taumaturgico. Dobbiamo avere, in ogni caso, una strategia di lungo periodo, e una linea politica tutta giocata sull’ aspettativa elettorale finisce per essere illusoria e miope. Questa enfasi sulle elezioni è il corrispettivo dell’enfasi sul “principio maggioritario”. Bisogna votare al più presto, per il solo e semplice motivo che questo governo non rientra negli schemi del bipolarismo, ed è quindi una anomalia da rimuovere.

La stessa contrapposizione di governi tecnici e politici mi sembra concettualmente aleatoria. Più che agli schemi politologici, dovremmo essere interessati ai programmi e alla loro pratica realizzabilità. E solo da questo può discendere il giudizio sulle prospettive politiche di governo.

 

C’è invece la tendenza a concentrare tutta l’attenzione solo sulla questione del principio maggioritario, in quanto esso sarebbe il cardine di coerente politica riformatrice, e se ne ricava il seguente semplicissimo dilemma: o si porta a compimento la riforma in senso maggioritario del nostro ordinamento politico, e si modifica in questa direzione la stessa carta costituzionale, o si regredisce verso la consociazione partitocratica. Considero tale dilemma del tutto fuorviante, perché si introduce così una semplificazione astratta, come se l’adozione della nuova legge elettorale determinasse di per sé una cesura, una rottura storica, e il passaggio quindi alla tanto decantata Seconda Repubblica.

I sistemi elettorali hanno solo una funzione strumentale e tecnica, e possono essere più o meno adeguati ed opportuni a seconda del contesto politico nel quale vengono inseriti. Giustamente, la costituzione non prescrive nulla in materia, e lascia alla legislazione ordinaria piena facoltà di decidere tra i diversi meccanismi possibili, e di innovare ogni volta che lo si ritenga necessario. La legge elettorale, dunque, presa in questa sua ristretta accezione tecnica, interviene solo sulle modalità di elezione del parlamento, e non modifica in nessun modo i rapporti tra i diversi organi dello stato, continuando ad essere il parlamento l’esclusiva fonte di legittimazione dei governi, e continuando a funzionare una democrazia rappresentativa, senza mandato popolare diretto. Si può ritenere che questo nostro sistema debba essere radicalmente modificato, ma non c’è nessun automatismo, nessun passaggio obbligato, nessuna logica costituzionale che renda inevitabile, dopo l’adozione della legge maggioritaria, la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema presidenziale.

Chi sostiene questa tesi, Mario Segni in testa, compie una mistificazione.

E io credo che, essendo ancora in fase di rodaggio e di sperimentazione la nuova legge elettorale, con un sistema politico che stenta a ristrutturarsi e che è tutt’ora attraversato da fortissime tensioni, un ulteriore colpo di accelerazione con l’adozione del modello presidenzialista avrebbe effetti dirompenti e assai pericolosi, alimentando personalismi, demagogie populiste e pulsioni autoritarie che già appaiono oggi nel panorama politico come un segnale inquietante.

 

La nuova legge elettorale era funzionale all’esigenza di introdurre un elemento di dinamismo e di innovazione in un sistema politico ormai bloccato e paralizzato. Si tendeva così a favorire, a determinate condizioni, una maggiore stabilità degli esecutivi, e si tendeva ad incentivare un processo di aggregazione delle forze politiche nella prospettiva di un sistema bipolare.

Con il referendum, inoltre, questa riforma si caricava di un più ampio significato politico e simbolico, proprio per il fatto di essere il punto di arrivo di una vasto movimento di opinione che metteva in discussione le forme tradizionali della politica e i processi degenerativi che hanno investito il sistema dei partiti.

Come spesso avviene nei referendum, il singolo quesito tecnico viene trasceso, e diviene l’occasione per esprimere una domanda di più ampia portata, e in questo caso la domanda, anche se nasceva in un contesto di motivazioni spesso nebulose, si riassume nell’esigenza di dar vita ad una politica più vicina ai cittadini, più controllabile, più democratica.

Ma tutti questi risultati, anche quelli più limitati, non sono garantiti automaticamente, e dipendono dalle scelte e dai comportamenti sia politici sia dei partiti che degli elettori, è quindi logico prevedere un periodo non breve di assestamento. Così è stato dopo le elezioni del 27 marzo e così continua ad essere oggi, con la presenza di un numero ancora grande di variabili possibili e di incognite.

L’essenziale ragion d’essere del referendum e della legge elettorale ha tutto sommato raggiunto il suo obiettivo, in quanto si è dinamizzata e messa in movimento tutta la situazione politica, ma non si poteva certo produrre il miracolo di far nascere dal nulla un sistema politico del tutto nuovo e già immediatamente funzionante ed efficace.

Ora, anche di fronte ai pericolosi segni involutivi in atto, non avrebbe nessun senso voltarsi indietro e rimettere in discussione le scelte che democraticamente si sono compiute, ma si tratta di sperimentare i nuovi meccanismi, di vederne più attentamente tutte le implicazioni, di governare le nuove dinamiche politiche che sono state prodotte. E a questo punto rientra in campo la politica, perché infine le riforme istituzionali non possono essere autosufficienti e chiamano in causa i soggetti politici e i loro concreti comportamenti.

Le forze politiche sono state costrette, tutte, a ridefinire la propria identità e le proprie strategie. Una spinta nuova ha operato costringendo a rendere esplicito il quadro delle alleanze e orientando l’intero sistema verso una logica di tipo bipolare. Da un sistema imperniato sul centro, che di volta in volta procede a cooptare altre forze nell’area di governo, stiamo passando ad un sistema imperniato sulla concorrenza di due poli alternativi.

Un tale mutamento ha investito in primo luogo gli eredi della DC, determinando in quest’area politica una serie di rotture e di ridislocazioni, non essendo più praticabile la tradizionale politica centrista.

Ciò non significa che il centro scompare, che le sue ragioni sono dissolte, ma solo che esso non è più autosufficiente. Per questo, un esito di pura e semplice dissoluzione del patrimonio politico del cattolicesimo democratico, il quale appunto ha rappresentato in Italia le ragioni di un centro moderato, non è né prevedibile né ancor meno auspicabile.

 

Il sistema politico va sì ristrutturato, ma non dissanguato, ed esso ha bisogno di soggetti forti, dotati di un proprio profilo storico e culturale, capaci perciò di dar vita a movimenti collettivi non effimeri. In questo contesto va preso sul serio anche un fenomeno come quello della Lega, per molti aspetti negativo, ma pur tuttavia espressione di forze reali.

L’altro opposto modello è quello del grande e amorfo contenitore elettorale, intorno ad un leader, dove il leader è tutto e il resto è solo truppa, è il modello di un bipolarismo snervato, senz’anima, nel quale la politica funziona solo come competizione di comitati elettorali, con il supporto di esperti di sondaggi e di strateghi della comunicazione’.

Ciò è del tutto funzionale in una prospettiva di destra, nella logica dell’anti-politica, la quale appunto nega la politica come luogo dell’identità’ collettiva e dell’etica pubblica. La politica in questa prospettiva è solo un segmento del mercato, è solo una delle forme che assume il principio di competitività.

Ma tutta la prospettiva della nostra vita democratica sarebbe gravemente compromessa se alla fine il modello berlusconiano – diciamo così per comodità, senza voler personalizzare – si afferma come la forma esclusiva di organizzazione politica.

C’è qui, intorno a questo nodo, una partita ancora tutta aperta. Non è ancora chiaro infatti che cosa è e che cosa si propone di divenire l’Ulivo di Prodi. Esso è esposto a due opposti rischi. Il primo è che non venga superata l’attuale frammentazione, che non nasca quindi nulla di nuovo e di vitale, che ci sia solo un cartello elettorale precario nel quale ciascuno difende le proprie posizioni acquisite e il proprio particolarismo. Se vogliamo anche in questo caso fare un nome, è il rischio -Ripa di Meana. Il secondo rischio è che si imbocchi la strada di una sorta di Forza Italia di sinistra, tutta giocata sull’immagine del leader e sulle tecniche di comunicazione, le quali comunicano non delle proposte politiche, ma solo delle suggestioni emotive.

 

Nel primo caso la sconfitta è sicura, nel secondo l’eventuale vittoria è solo apparente, perché pagata al prezzo di una sclerosi della vita democratica. A questo punto la stessa distinzione di destra e sinistra sarebbe del tutto evanescente.

Per sfuggire a questi opposti possibili esiti, occorre un lavoro paziente di ricostruzione e di riforma del sistema politico, senza scorciatoie e senza improvvisazioni, e avendo chiaro che c’è bisogno di nuove forme organizzative, di aggregazioni più ampie, lasciando alle spalle le vecchie identità.

In questo senso, l’Ulivo ha senso solo come un progetto per il futuro, ancora tutto da costruire, e a questo progetto occorre dare un’anima, ovvero un insieme forte di motivazioni, di scelte programmatiche, di valori, e ciò può avvenire cominciando ad avviare un confronto serio e un dialogo tra le diverse correnti politiche che a questo progetto possono contribuire. Il punto d’arrivo può essere, in prospettiva, la creazione di un’unica grande formazione politica della sinistra democratica, ma ciò richiede tutta una serie di passaggi, richiede un processo di maturazione, e l’operazione può essere compromessa da atti precipitosi e da forzature intempestive.

Per ora, è importante l’avvio di un lavoro politico che ridimensioni i particolarismi e le piccole logiche di bottega, e che si misuri con le grandi e complesse questioni di strategia, politica, istituzionale e sociale.

 

Ma il vero banco di prova, a mio giudizio, su cui si misura la validità una proposta politica della sinistra sta nella capacità di offrire una prospettiva nuova di sviluppo democratico, e di contrastare quindi in modo efficace le numerose spinte alla “semplificazione autoritaria”, alla concentrazione cioè di tutto il potere decisionale in un unico punto, in una leadership forte, capace di sottrarsi ai condizionamenti e ai vincoli del consenso sociale e di alleggerire il sovrappeso della domanda democratica.

Che questa sia una soluzione efficace per le società complesse è tutto illusorio, perché ciò di cui c’è bisogno è la costruzione larga di una classe dirigente, ai diversi livelli e nei diversi ambiti, è la pluralità di centri di decisione e di governo, è la forza dei corpi intermedi della società, è quindi la formazione di una poliarchia, nella quale diversi poteri si confrontano e si condizionano reciprocamente.

Nella discussione sulle rifanne istituzionali, quindi, questo dovrebbe essere il fondamentale criterio di giudizio, per aprire nuovi spazi di partecipazione democratica e per rispondere così davvero, concretamente, a quel bisogno di una politica più vicina ai cittadini che aveva alimentato il movimento referendario.

Per questo il presidenzialismo è una risposta sbagliata, perché si muove esattamente nella direzione opposta.

L’insistenza della destra su questo punto è sospetta. La destra in realtà ha in mente un vero e proprio stravolgimento dell’equilibrio costituzionale, e perciò c’è un allarme giustificato, che non riguarda il passato e le vecchie ideologie, ma riguarda più concretamente il futuro del nostro Paese.

Non c’è ancora una base condivisa di regole e di valori comuni, la quale possa consentire una alternanza che non metta a rischio le basi della convivenza democratica. Predicare la legittimazione reciproca, come qualcuno suggerisce, non è chiaro che cosa significhi in assenza di questi chiarimenti di fondo. È solo un problema soggettivo, o di fair play? Basta convincerci che non ci sono più pericoli per la democrazia perché essi siano effettivamente scongiurati? È questa una forma curiosa di soggettivismo. “Esse est percipi”, diceva il vescovo-filosofo Berkeley, esiste solo ciò che ci rappresentiamo. Ma non mi sembra una buona e realistica linea di condotta nel campo della politica.

Abbiamo dunque bisogno di affrontare una serie di problemi, che qui vengono soltanto accennati e che possono dare concretezza ad una prospettiva democratica: lo sviluppo delle forme di autogoverno, e in questa prospettiva la riforma federalista dello Stato, la regolamentazione dell’istituto del referendum, non per ridurre il rilievo di questo strumento, ma per una sua utilizzazione più ponderata ed efficace, il problema dei costi della politica, e quindi del finanziamento di partiti e di associazioni a garanzia della possibilità di accesso per tutti alla vita politica, il problema della selezione del personale politico, studiando i meccanismi possibili di elezioni primarie o di consultazioni per la scelta dei candidati, per giungere infine al problema assai complicato della democrazia in campo economico, delle forme possibili di controllo e di partecipazione dei lavoratori in un mercato aperto, non ristretto come è oggi a pochi gruppi oligopolistici.

Questo è il terreno su cui dovremmo lavorare di più, con proposte di merito concrete e con progetti definiti.

Per fare questo, per aprire la prospettiva di un nuovo sviluppo democratico, non occorre né rifare la Costituzione né affidarci all’evento mitico di una nuova assemblea costituente.

 

Il processo costituente è un processo costantemente aperto, che può avanzare di volta in volta quando maturano le condizioni politiche e i consensi necessari per determinate riforme, mentre la decisione di una revisione generale della Costituzione avrebbe il significato di rimettere in discussione i principi di fondo e avrebbe l’effetto politico inevitabile di aprire il varco a pericolose manipolazioni autoritarie. E nell’attesa di questo evento epocale, che funziona solo come miraggio, non si fanno quelle riforme limitate e possibili che sono già mature. Così rischia di impantanarsi anche tutto il dibattito sul federalismo.

In conclusione, c’è bisogno oggi di una politica che lavori sui tempi lunghi e costruisca una prospettiva di lavoro per la quale impegnare e riattivare le energie democratiche della società. Anche il sindacato, nella sua autonomia, sta dentro questo processo, e non può essere neutrale o indifferente di fronte alle grandi alternative che sono aperte nel paese, perché la stessa azione sindacale avrà forza e capacità rappresentativa se si colloca in un quadro forte di garanzie democratiche. Per questo credo che dalle riflessioni di questi giorni dovremmo trarre con più nettezza precise opzioni politiche, per poter orientare con lucidità il nostro lavoro quotidiano ed il nostro rapporto di massa con i lavoratori.

Se la stagione delle riforme deve ancora iniziare, e se è ancora tutto aperto il senso, l’indirizzo e il contenuto sociale del nuovo edificio istituzionale, un sindacato chiuso in se stesso, in una concezione angusta della sua autonomia, finirebbe per assecondare processi involutivi profondi e finirebbe infine per essere esso stesso travolto. Non c’è autonomia oggi se non c’è sguardo sul futuro e visione strategica. E infine questo è appunto il senso della nostra iniziativa, una sollecitazione a pensare politicamente nel mezzo della transizione.



Numero progressivo: C20
Busta: 3
Estremi cronologici: 1995, 14-16 settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 2, 6 febbraio 1996, supplemento pp. 3-6