LA TERZA VIA AL SOCIALISMO

Dibattito sulle Tesi per il XV Congresso del PCI

Partecipano: Alberto Asor Rosa, Paolo Bufalini, Cesare Luporini, Riccardo Terzi, Bruno Trentin

Da questo numero Rinascita inizia la pubblicazione di contributi all’analisi e al dibattito per il XV congresso del PCI, che si terrà a Roma dal 20 al 25 marzo, con questa discussione su uno degli aspetti centrali delle Tesi approvate dal Comitato centrale di dicembre. Nelle settimane prossime altre tavole rotonde verranno pubblicate, e insieme interventi dalla tribuna congressuale, inchieste sull’andamento dei congressi di sezione e di federazione, interviste. Nostro obiettivo è quello di contribuire all’analisi della realtà, alla definizione dei problemi, alla messa a confronto delle opinioni e delle posizioni. Cominciamo da un punto già molto discusso: la ricerca di una terza via al socialismo in Europa

A cura di Fabio Mussi e Bruno Schacherl

 

Rinascita Le Tesi per il nostro XV Congresso, approvati dal comitato centrale del 4-6 dicembre come base per il dibattito, ripropongono con forza il tema del socialismo, particolarmente nel preambolo. Non come se il socialismo fosse alle porte – ché anzi vengono sottolineati in ogni parte gli elementi di pericolosità e gravità della situazione interna e internazionale -, ma per la sua attualità. Viene messo a punto il giudizio sulla situazione concreta del movimento per il socialismo, e ne viene ripensato lo stesso concetto.

Il ragionamento procede per gradi, lo ritroviamo in diverse parti del documento:

1) si parte dalle «alternative drammatiche di fronte al mondo e all’intera umanità» (tesi 3, 4, 5, e poi, del cap. I, 19, 20, 21, 22);

2) si parla della crisi economica mondiale, che investe il mondo capitalista, ma non risparmia l’area dei paesi socialisti (tesi 23, 26);

3) si affronta il problema della «crisi storica del capitalismo» (sistema mondiale, tesi 2, e società italiana, tesi 8);

4) si fanno derivare alcune esigenze della coesistenza pacifica (tesi 4), di un sistema di garanzie e di libertà (tesi 9), di «uno sviluppo delle forze produttive attraverso una programmazione democratica dell’economia» (tesi 10), di una politica di austerità per i paesi sviluppati, particolarmente europei (tesi 11), dello sviluppo del nesso democrazia socialismo in una visione pluralistica delle forze in campo (tesi 12).

Da tutto questo (che è l’essenziale, ma potremmo riportare altre specificazioni e determinazioni delle Tesi), viene così fatta derivare, nella tesi 7, la proposizione di una «terza via al socialismo»: «Si tratta, dunque, a differenza delle esperienze delle socialdemocrazie, di avviare processi di trasformazione socialista, che siano però diversi da quelli portati avanti, dopo la Rivoluzione d’Ottobre nell’Unione Sovietica e in altri paesi socialisti. In questo senso parliamo, per quanto riguarda l’Europa, di una terza via. Si tratta di una visione della transizione al socialismo e delle caratteristiche di una società socialista che ha radici profonde nella storia dell’Europa occidentale, nelle secolari lotte per le libertà politiche, culturali e religiose che l’hanno caratterizzata, e soprattutto nelle grandi battaglie di democrazia, di libertà e di progresso sociale che sono state combattute e vinte dal movimento operaio.

La doppia critica, alle società nate dalla Rivoluzione d’ottobre, e alla socialdemocrazia, è contenuta particolarmente nella tesi 6. La prima domanda è questa: a voi pare che la formulazione strategica della «terza via» sia fondata, e le Tesi indichino sufficienti contenuti per darle sostanza e forza di prospettiva?

 

Asor Rosa Io direi che vi sono gli elementi problematici sufficienti a indicare una linea di ricerca, piuttosto che un «modello» tradizionalmente inteso di socialismo; anzi, non vi si definisce una vera e propria idea di socialismo, quanto piuttosto si avanzano delle negazioni, delle riflessioni critiche sul passato e anche sul presente, tali da individuare il campo della ricerca e gli strumenti con cui attuarla. Intanto, dalle nostre ipotesi di lavoro viene escluso più rigorosamente il modello socialdemocratico; ma al tempo stesso, con altrettanta chiarezza e rigore – e qui mi pare un punto di considerevole novità rispetto a precedenti formulazioni – si escludono i due modelli che a quello storicamente si sono in questo secolo contrapposti, ossia il socialismo sovietico o, come si autodefinisce, realizzato, e il socialismo autogestionario. Il primo, perché le Tesi rifiutano in modo molto chiaro la pianificazione assoluta, globale e l’intersezione non dialettica, totalizzante, tra politica ed economia; il secondo, perché riaffermano la funzione dello Stato come organo di programmazione e di gestione dei processi politici, economici, sociali.

Se queste sono le delimitazioni per negazione, in positivo il campo di ricerca della terza via si definisce sostanzialmente nei seguenti punti:

  1. a) innanzitutto l’affermazione dell’esigenza che, anche nel periodo della costruzione del socialismo, accanto al settore della produzione di proprietà pubblica si mantenga un settore di proprietà privata o comunque non immediatamente sottoposta alla gestione pubblica;
  2. b) la riaffermazione, entro certi limiti, della libertà del mercato, richiamata dalla formula «necessità obiettiva della produzione» che compare in un punto abbastanza decisivo delle Tesi;
  3. c) la visione della programmazione democratica come strumento di coesione e di indirizzo globale della produzione, all’interno della quale permangono i due settori ora ricordati;
  4. d) l’affermazione che il processo dev’essere portato avanti con le forme del pluralismo politico e culturale, per cui in una certa misura può essere anche reversibile ove il gioco appunto del pluralismo imponga dei passi indietro nella socializzazione dell’economia e nell’espansione della nostra visione politica e culturale.

Da questi elementi non si deduce, ripeto, un modello nel senso classico del termine, ma precisamente un campo di ricerca e sperimentazione politica e culturale. E per buone ragioni: perché, inutile nasconderlo, viviamo all’interno di una crisi dei modelli socialisti realizzati, in tutte le loro espressioni storiche e geografiche, sovietico, cinese, cubano, terzo mondo e così via; e perché credo sia giusto affrontare il problema della costruzione del socialismo nei paesi di capitalismo sviluppato partendo da un’altitudine empirica piuttosto che dalla proposizione di modelli teorici elaborati in astratto.

La questione dei contenuti della terza via è, direi, successiva a tutte le domande poste dalle Tesi. Che sono, sostanzialmente, le seguenti:

1) se, come ritengo, è giusta l’analisi che facciamo della situazione politica e sociale in Italia e in Europa, qual è il blocco di forze sociali in grado di sostenere un’ipotesi così avanzata e anche rischiosa di gestione del sistema politico? Qui le Tesi dicono parecchio di nuovo, eppure un approfondimento va fatto, nel senso di andare a definizioni più esatte della possibile composizione degli interessi delle diverse componenti di questo blocco, che vanno dai settori più gravemente colpiti dalla crisi del capitalismo – l’emarginazione, la disoccupazione – agli strati, ad esempio, della borghesia produttiva o della intellettualità professionistica.

2) Qual è, all’interno della via che sosteniamo, il rapporto tra disseminazione del potere, che è un fatto reale e per cui ci battiamo, e il suo rafforzamento al livello centrale? Ossia, la questione dello Stato all’interno della terza via.

3) E infine, ed è il punto decisivo su cui ci scontreremo al livello europeo e forse anche italiano: qual è il blocco di forze politiche capace di sostenere realisticamente una gestione così avanzata e rischiosa del sociale, ossia in quale dimensione politica si colloca il nostro discorso delle alleanze? A me pare che rimanga ancora abbastanza problematico il tema del nostro rapporto, che pure è necessario e per un tempo non breve, con forze che socialiste non sono ma che vogliamo coinvolgere in un processo di avanzata della democrazia in direzione del socialismo. A livello europeo, la questione presenta una quantità di incognite molto forte; ma anche in Italia, da due anni a questa parte, non è affatto scontato il modo in cui si pongono i problemi della direzione del paese.

 

Terzi Nella discussione in corso nel partito, dovremmo andare oltre la questione della pertinenza o meno della formula «terza via». Evidentemente essa indica un campo di ricerca e non risolve per se i problemi di una elaborazione compiuta della strategia per una trasformazione socialista in Italia e in Europa, e non pretende di delineare un modello compiuto. Il suo valore sta appunto nell’indicare l’esigenza di una ricerca nuova per aprire un cammino originale verso il socialismo, adeguato alle condizioni specifiche dell’Italia (e dell’Europa, cui si fa specifico riferimento). Perciò lo stimolo da dare alla discussione del partito è allo studio più preciso delle condizioni oggettive in cui operiamo, anche per evitare il rischio che mi pare si affacci di un dibattito astratto: che cosa «deve essere», che cosa sarà il socialismo in un futuro oggi non prevedibile. Che sarebbe già un entrare nella logica dei modelli: quello sovietico non va bene, né vanno «bene altri, costruiamone uno diverso da quelli realizzati. E sarebbe una discussione deviante, che ci allontanerebbe dai compiti concreti della battaglia politica.

Dobbiamo dunque impegnare una battaglia politica perché tutto il partito si impegni in un esame e in una ricerca seria delle condizioni specifiche dell’Italia e dell’Europa occidentale, che è l’orizzonte entro cui ci muoviamo, per cogliere il movimento reale che spinge in avanti e porta a trasformazioni in senso socialista. Un esempio. La questione, affermata dalle Tesi, della presenza del settore privato nell’economia anche in una prospettiva di trasformazione socialista, non può essere risolta in astratto tale presenza è giusta o non è giusta in se; ma va vista nelle condizioni date dell’economia italiana ed europea, quali sono le condizioni per avere la massima espansione possibile delle forze produttive. Ecco che anche il problema della durata storica e del ruolo positivo dell’iniziativa privata ha un senso se riferito a un ragionamento politico concreto, non a una modellistica astratta, e con il massimo di radicamento nella situazione italiana ed europea.

 

Bufalini Il carattere generale delle Tesi e già stato precisato con chiarezza da Asor Rosa; e condivido le preoccupazioni di Terzi sui pericoli di una discussione astratta. Vorrei dire, tra parentesi, che non credo molto produttivo il dibattito se era giusto dire «terza via». Si poteva dire che le vie al socialismo sono molte: un poco come quelle della provvidenza, se non infinite, certo varie. E già lo sono nel cosiddetto socialismo reale. Ma non è questa la questione. Noi abbiamo voluto indicare la varietà delle esperienze: c’è l’esperienza storica dell’Ottobre sovietico, i suoi sviluppi e contraddizioni cui guardiamo con occhio critico, ma che ha cambiato la situazione del mondo; e c’è l’esperienza delle socialdemocrazie, in particolare dell’Europa occidentale. Ora noi diciamo che, facendo tesoro di tutte le esperienze, e anche dell’esperienza delle nostre lotte, entriamo adesso in una fase nuova: di quelle vogliamo tener conto, analizzarle criticamente, ma per dare una soluzione nuova ai problemi che esse non hanno risolto e cercare quindi una nuova via.

Ma vorrei anche sottolineare che quando diciamo «terza via» non parliamo di una escogitazione fatta a tavolino né di una cosa tutta da inventare. Senza sottovalutare le importanti novità contenute nelle Tesi, dico che la terza via si configura come lo sviluppo, sia pure profondamente innovatore, di una esperienza storica che parte almeno dalla Resistenza, dalla Costituzione repubblicana, dalle nostre lotte dei successivi trent’anni. Sulla base di queste esperienze, e dell’analisi critica che ne facciamo, possiamo oggi porci di fronte ai problemi nuovi della crisi mondiale e, all’interno di questa, della crisi italiana. La terza via è già in atto, a partire da quelle lotte per l’unita e l’indipendenza nazionale, per la riconquista di libere istituzioni democratiche, per giungere a recidere le radici stesse del fascismo attraverso le necessarie trasformazioni economiche e sociali.

Trasformazioni in quale direzione? Non faremo come il professor Bobbio che, nel criticare le nostre Tesi, distingue sempre puntigliosamente la via dalla meta, i metodi dai contenuti, e si preclude la comprensione non dico della nostra concezione del socialismo ma della concretezza storica della nostra linea. Diciamo: trasformazioni economiche e sociali che tendano a rimuovere quelle condizioni di base su cui si è formata l’unità nazionale determinando l’estraneazione delle masse operaie, del mondo contadino, dei lavoratori dalla direzione della società dello Stato, condizioni che in ultima analisi – nonostante gli sviluppi del movimento operaio e la sua parziale convergenza con la politica giolittiana – furono la causa del fascismo. Si trattava e si tratta di sciogliere questi nodi attraverso uno sviluppo più profondo e conseguente della democrazia politica, dell’attività democratica delle masse, con gli obiettivi di un miglioramento delle condizioni di vita e lavoro della classe, operaia (non si dimentichi che fino agli anni sessanta il sottosalario e lo strapotere padronale in fabbrica hanno determinato il tipo di sviluppo della nostra economia), di una profonda riforma agraria fondata sul principio della terra a chi la lavora, e così via.

Sorge qui l’obiezione che ci muove Lucio Colletti. Le Tesi ribadiscono, non solo per le condizioni concrete dell’Italia e dell’Europa occidentale ma come questione di principio più generale, l’inseparabilità del socialismo e della democrazia politica, Ora, osserva Colletti, se poi si dice che nei paesi dove il socialismo si è realizzato non c’è o non si è sviluppata la democrazia politica, non si capisce come per essi poi si continui a parlare di socialismo. Mi pare che sia un esempio tipico di logica puramente formale, di sillogismo…

 

Asor Rosa Da aristotelico classico, come egli si definisce…

 

Bufalini E da quel punto di vista è corretta. Ma il fatto e che la storia è molto più complicata. So di espormi all’accusa di storicismo di giustificazionismo, ma non mi faccio impressionare; e ripeto – con le Tesi – che l’Ottobre è stato un grande fatto rivoluzionario, una rottura storica della catena dell’imperialismo, ed e avvenuto anche in termini in parte anomali rispetto alla previsione marxiana – non all’analisi leniniana. Ci sono stati poi sviluppi condizionati da dati oggettivi e da scelte soggettive, errori e colpe che noi non esitiamo a indicare alla luce di un giudizio storico e critico. Ma – questo e il punto – noi diciamo che allora si è iniziato un processo di trasformazione mondiale nel senso del socialismo. E mentre non ci rifiutiamo affatto a un giudizio autonomo sulle contraddizioni e i limiti di quelle esperienze, oggi mettiamo l’accento su quelli che sono i compiti del movimento operaio in Italia e in Europa occidentale, e nel resto del mondo.

Dobbiamo oggi affrontare i problemi della crisi attuale: crisi economica, crisi di parti essenziali della società, crisi dello Stato in alcuni campi decisivi fino alle soglie del collasso (scuole, università, ma non solo: criminalità, terrorismo). E affrontiamo tutte queste questioni nell’ambito di una strategia che si definisce appunto come approfondimento ed espansione della vita democratica, in campo sociale e in campo politico, per trasformazioni in direzione del socialismo. Non abbiamo modelli – e mi pare del tutto corretto e conforme alla tradizione del marxismo – ma, sulla base della nostra tradizione, indichiamo alcuni punti fondamentali. Vorrei sottolineare, come già è stato fatto, la programmazione democratica e il ruolo che in tale visione dello sviluppo viene assegnato al funzionamento delle leggi oggettive dell’economia, e quindi al mercato. In un paese dove già parte notevole della produzione è nella mano pubblica, la definizione dei grandi obiettivi economici e sociali non può, d’altra parte, essere abbandonata alla spontaneità di un mercato (che del resto già adesso è qualcosa di molto ibrido), ma deve essere affidata la un potere democratico, forte del consenso della maggioranza, fondato sulla partecipazione dei lavoratori, sull’articolazione dello Stato prevista dalla Costituzione e che va sempre meglio realizzata, capace di usare i mezzi della democrazia per orientare lo sviluppo con il massimo di produttività (a livello nazionale, s’intende), con il minimo di sprechi e il massimo di giustizia sociale. E mi pare importante in questo quadro la sottolineatura della funzione dell’iniziativa privata e l’affermazione che non è oggi necessario estendere il settore pubblico. Non è una questione di principio, d’accordo; ma è un netto rifiuto delle forme di violenza alle leggi oggettive dello sviluppo economico, quale ad esempio sulla pianificazione forzata in URSS prima e dopo la Nep. Perciò la questione non è del quanto di pubblico e quanto di privato, ma se si possa fare, o meno, violenza alle esigenze di un determinato sviluppo, con le inevitabili conseguenze sul blocco sociale e politico chiamato a portarlo avanti.

L’altro elemento nuovo, o almeno dato con nuova evidenza, è nelle Tesi la correzione del modo perentorio in cui in passato si definivano i partiti come pura e semplice nomenclatura delle classi. Vi e certo un profondo rapporto tra le classi, le loro lotte, gli sviluppi sociali e politici, e le espressioni ideali, culturali, giuridiche, politiche, e quindi i partiti; ma non è un rapporto di dipendenza meccanica. Ed è anche su questo che si fonda il pluralismo politico e partitico, che noi consideriamo inseparabile sia dal modo di governare una società in trasformazione verso il socialismo e di gestire poi una società socialista, sia dalla stessa affermazione della funzione dirigente della classe operaia: non più necessariamente attraverso un solo partito, ma anche attraverso la collaborazione di partiti diversi.

 

Luporini La formula «terza via» non va isolata, assolutizzata. Significa terza via al socialismo: qualcosa da cui si parte, una meta lontana a cui ci si dirige. Si parte dal modo di produzione capitalistico, oggi, con la sua crisi che definiamo storica e si cerca la via di fuoruscita dal capitalismo, con la meta del socialismo. Di questa formulazione il partito già discute molto, ed è un fatto assai positivo se messo in relazione con lo stato del partito sullo sfondo dei processi dal 20 giugno in poi. Si è parlato di disagio, di crisi di coscienza della propria identità, e mi pare che il partito si afferri a questo punto, anche problematicamente. Ci sono i pericoli che segnalava Terzi, e li vedrei anche in modo un po’ più complesso: ossia che il dibattito si divarichi fra l’astrattezza («come sarà questo socialismo») e la piattezza delle esigenze immediate, senza cogliere il nesso strettissimo e perdendo così proprio il valore politico per cui, dopo una seria discussione, si è creduto di introdurre la formulazione «terza via».

E guardiamo anche oltre il partito. Oggi veniamo sistematicamente attaccati, penso a Bobbio, persino con qualche pedanteria…

 

Bufalini Pedanteria e paternalismo…

 

Luporini …e si esercita una sorta di terrorismo logico, che non sarebbe difficile confutare nella sua stessa logicità, ma che ha una certa efficacia, penetra nel senso comune al punto che persino il ministro Pandolfi si permette a sproposito di fare della facile ironia sulla terza via; e insomma tende a svalutare in partenza le nostre posizioni. A questo dobbiamo reagire, ma prima di tutto facendo chiarezza in noi.

L’importanza della terza via è nel fatto che essa segna una forte demarcazione da un lato verso il modello o i modelli del «socialismo realizzato», dall’altro verso la socialdemocrazia. In quest’ultimo caso è una nostra tradizione, ma aggiornata e precisata, pur con tutti i riconoscimenti, dall’analisi critica di ciò che le socialdemocrazie hanno fatto nell’ultimo trentennio (e limitandoci a questo, per non tirare fuori troppi scheletri dall’armadio).

C’è un processo che ci ha portato dalla «via italiana al socialismo» alla «terza via»: un processo avveduto, cauto, senza fughe in avanti, collegato alla formulazione dell’eurocomunismo, ma che comunque sfocia in una fase nuova. O si va avanti, o si torna indietro: era una necessità storica superare quegli elementi di isolamento che potevano esserci nella «via italiana». Affrontiamo, cioè, il discorso sui paesi a capitalismo maturo: Europa occidentale, ma anche Giappone e – come escluderli dalla prospettiva storica del socialismo? – Stati Uniti. È una grande idea forza, che finisce col proiettarsi anche sulle altre situazioni mondiali e si collega con quello che noi chiamiamo nuovo impegno internazionalistico, mai forse prima d’ora definito con tanta chiarezza e articolazione. Nella crisi di strategia del movimento rivoluzionario internazionale che stiamo vivendo, il nuovo impegno internazionalistico non riguarda più solo i partiti comunisti, ma tutte le forze di liberazione e di emancipazione antimperialistiche, su scala mondiale; né rimane isolata ai paesi industrialmente sviluppati, di tradizione democratico-borghese e dove le masse hanno avuto ruolo di protagoniste. La terza via si basa sul fatto – più volte sottolineato da Giorgio Amendola – che non vi sono leggi universali di transizione al socialismo, che non vi è un modello…

 

Bufalini Per lo meno non un modello delineato a tavolino; cosa diversa è ciò che si viene delineando dai processi in corso e dalle idee che noi avanziamo.

 

Luporini Io dico che leggi universali potrebbero anche esserci, ma oggi nessuno è in grado di enunciarle. Stanno qui gli elementi di empirismo presenti nella situazione, del resto coerenti con una nostra tradizione che ci ha dato forza di penetrazione in masse molto differenziate.

Ma questo non significa che non ci sia una immagine del socialismo, come finisce per pensare persino Altiero Spinelli nel suo recente bel libro su di noi, e che ad essa finisca col sostituirsi un sostanziale democraticismo. Questa immagine c’è, e si fonda su due elementi: il controllo sociale della produzione, con la partecipazione più larga di tutte le componenti sociali aggregate attorno alle centralità rivoluzionaria della classe operaia; e il massimo di liberazione delle capacità individuali, la libertà di ognuno come condizione della libertà di tutti. È a partire da questa immagine che le Tesi fissano alcuni punti essenziali. Anzitutto, l’affermazione della democrazia politica. Questa avrà senso finché avranno senso la politica e lo Stato (che conterrà sempre un elemento di coercizione), e perciò noi la proiettiamo anche sull’orizzonte della costruzione del socialismo. A ciò si riallaccia la nostra visione, di cui parlava Bufalini, dei Partiti come non soltanto nomenclatura delle classi, ma strumento di organizzazione della democrazia: punto decisivo, che condiziona anche il nostro giudizio sui paesi del socialismo realizzato, dove costatiamo che non c’è autogoverno della società, ma una delega a strutture burocratiche caste, o classi, politiche, tecnologiche e così via, e quindi tutti quegli elementi negativi che si sono venuti evidenziando dopo il XX Congresso e i suoi mancati sviluppi, che denunciamo con energia.

È questo che ha fatto declinare e poi largamente spazzato via quella immagine del socialismo che veniva da quei paesi e che aveva avuto una immensa e non infondata efficacia per tutto un periodo storico, fino a dopo la seconda guerra mondiale per la parte che l’Urss vi aveva avuta: una efficacia non solo sulle masse popolari, ma sullo stesso capitalismo, se si pensa al keynesismo come a una risposta alla sfida del socialismo, a un tentativo di ricreare una diversa immagine del capitalismo non più basato sull’esercito della disoccupazione. E se si riflette al cinismo con cui oggi si parla di disoccupati, di emarginazione giovanile, si comprende quanto sia caduta l’efficacia di quella immagine.

Noi dobbiamo avere la forza di rispondere collegando la nostra immagine di socialismo al travaglio presente nella società, e particolarmente nella società italiana dove la crisi ha assunto una pluridimensionalità che forse non ha ancora altrove. Mi spiego. Abbiamo parlato giustamente di diffusione della politica, di politicizzazione del sociale. Ma non ci troviamo oggi di fronte a fenomeni di riflusso, di depoliticizzazione soprattutto delle giovani generazioni, e quindi di degenerazione e degradazione? C’è una polarizzazione verso due estremi: da una parte – lo dice su Rinascita Biagio de Giovanni a proposito di Napoli – è la politica che ha sempre più a che fare solo con la politica, tutta mediazione, dall’altra il terrorismo diffuso, di cui anche in questi giorni abbiamo avuto i segni. Ecco perché mi appare essenziale una riconquista delle nuove generazioni alla politica: il che si fa con gli ideali – e forse nelle Tesi ve ne sono fin troppi, quasi a riempire dei vuoti – ma si fa soprattutto liberando le forze potenziali che esistono e in questo momento possono essere deviate. Penso al capitolo sesto, che è uno dei migliori, dove parliamo di partecipazione delle masse, di democrazia di base, del coinvolgimento di nuovi soggetti, del sindacato con un ruolo di protagonista, ecc. E questo vale se c’è partecipazione, se c’è movimento, se c’è consenso. Il nostro problema è oggi ricollegare l’immagine del socialismo con le difficoltà e la crisi profonda delle giovani generazioni.

 

Trentin La terza via come tentativo di una prima risposta a quelli che sono i limiti specifici che individuiamo tanto nel socialismo reale quanto nella socialdemocrazia (che è anch’essa del resto un socialismo reale): ecco il terreno arrischiato su cui ci avventuriamo. Queste due esperienze, e le varie ipotesi o ideologie che nel movimento operaio occidentale ne derivano, hanno un limite comune: una carenza di quella che era stata l’elaborazione teorica e politica del marxismo sulla caratteristica del socialismo, ossia l’autogoverno dei produttori come elemento qualificante della stessa democrazia politica. Dicendo terza via noi non individuiamo soltanto un campo di ricerca rifiutando ogni modello, ma ci assumiamo l’onere di indicare quelli che possono essere gli elementi comuni del movimento socialista nella fase di transizione, e ciò proprio in un momento di difficoltà e di crisi delle precedenti esperienze. In vista di questo compito, credo vi sia una serie di prerequisiti…

 

Bufalini E di proposte concrete che avanziamo per affrontare i problemi della crisi oggi.

 

Trentin Primo: forse è giusto, più che parlare genericamente di libertà di mercato, parlarne come elemento di verifica, come spia delle possibili contraddizioni che determinate scelte di economia programmata possono provocare.

Perciò le Tesi mettono l’accento non sulla quantità e l’estensione del controllo pubblico, ma sulla sua qualificazione sia in relazione agli scopi di programmazione, sia – dico io –  alla gestione e alla partecipazione nel governo delle imprese (giacché statizzazione dei mezzi di produzione non significa affatto loro socializzazione).

Secondo: il rapporto tra partito e classe. Le Tesi non solo vanno oltre la concezione di nomenclatura, ma prefigurano il pluralismo politico all’interno della classe operaia, non come un accidente, una sciagura da colmare rapidamente, ma come un modo di essere con cui la classe realizza la sua egemonia, la sua partecipazione effettiva alla vita dello Stato. Non c’è solo una affermazione di tolleranza nella diversità, c’è una concezione del ruolo della democrazia nella transizione, una visione del partito appunto come «parte» che non si dissolve nella società civile ma non si identifica con lo Stato. Ciò pone, spogliandolo dalle deformazioni metafisiche che ha conosciuto nel passato, il grosso terna della classe operaia come soggetto politico concreto, non ideale, forza egemonica che si realizza come tale non attraverso una delega storica a un partito o a uno Stato, ma attraverso gli strumenti che essa è storicamente in grado di esprimere e di porre in rapporto dialettico tra loro: un partito, più partiti, sindacati, altre forme di partecipazione, transeunte o permanente.

Qui è per me il nodo caratterizzante delle Tesi, e si muove in direzione dell’autogoverno dei produttori, identificato con la democrazia politica, con quanto la democrazia politica contiene di socialismo, ma visto anche come condizione per assicurare alle società socialiste, e alle stesse società postkeynesiane, un effettivo dinamismo. Voglio dire che le principali società industriali o postindustriali non sfuggono alla stagnazione e per una ipotesi socialista sarebbe la condanna mortale se non attraverso forme specifiche di democrazia dei produttori che siano capaci, come al limite non è stato lo stesso keynesismo, di superare ciò che a suo tempo fu il profitto come molla di sviluppo e trasformazione e di porsi come garanzia di salvaguardia per valori essenziali dell’uomo e della società e al tempo stesso per una evoluzione tecnologica, culturale, politica, istituzionale verso il socialismo.

Partendo da qui possiamo fare i conti con i limiti del socialismo reale e della socialdemocrazia e con le impostazioni e ricerche che a queste si collegano nel movimento operaio. Ogni estraneità è assurda: è roba nostra. L’intreccio di tutta la storia del movimento operaio europeo con queste esperienze e troppo stretto per essere scavalcato, con questo deve confrontarsi l’ipotesi di terza via.

Si rifletta al grande dibattito dopo l’Ottobre e a quelli che, accanto alle drastiche divergenze, furono gli elementi ideologici comuni. Kauisky, quando parlava di rivoluzione oggettivamente non matura, teorizzava poi una funzione puramente pedagogica del partito socialdemocratico e dello stesso sindacato? donde la divaricazione storica nelle socialdemocrazie, democrazia economica e democrazia politica, gestione dell’esistente senza alcuna trasformazione, la prima, e pedagogia in vista di un futuro che non arriva mai, la seconda. Ma anche nell’esperienza sovietica, dopo quel primo grande messaggio al mondo che fu il governo dei soviet, abbiamo il ripiegamento di fronte alle tremende difficolta oggettive e si riaffacciò una risposta analoga, che rinvia a un futuro lontano – nonostante gli appelli di Lenin – l’autogoverno dei produttori e affida allo Stato un ruolo pedagogico, di unico centro motore, autonomo rispetto alla società civile, anzi capace di plasmarla: uno Stato necessariamente ideologico.

So di semplificare: ma qui vedo il vuoto che cogliamo nelle due esperienze. E del resto lo avvertirono, al di là di distinzioni anche profonde tra loro, tutti i teorici dell’autogoverno dei produttori, da Lenin a Korsch, dai socialisti delle Guilde a Naphtali, a Gramsci. E tutti collegavano il problema a un sistema complessivo di carattere più generale, con soluzioni probabilmente tra le più discutibili (i consigli, le strutture piramidali per settori industriali o addirittura per trust, ecc. rischiavano di configurare un governo parallelo e corporativo dell’economia, soffocando le tensioni che si esprimono fuori del mondo del lavoro, nella società civile), ma con l’assillo di superare quella divaricazione, quella scissione, che a un certo punto divenne invece scelta obbligata.

La terza via deve affrontare questo nodo che assillò teorici socialisti, socialdemocratici, comunisti, laburisti: l’autogoverno dei produttori come forma della società socialista e quindi, nella democrazia rappresentativa che è un patrimonio universale ormai acquisito, l’esigenza della trasformazione. Le Tesi non si limitano a riaffermare il principio della democrazia, ma sottolineano l’unicità, l’inscindibilità delle sue forme. Ruoli e responsabilità debbono naturalmente essere diversi, la sintesi e le decisioni finali non possono spettare a più organismi; ma vi è la coscienza del collegamento tra i processi molecolari di democrazia e del loro impatto sulla democrazia politica.

 

Luporini È un dover essere…

 

Trentin Ma un dover essere che già si schiera rispetto ad altre soluzioni, non solo su scala internazionale, ma anche nel dibattito politico italiano: rispetto alle divisioni schematiche tra democrazia economica e democrazia politica, o per altro verso, rispetto alla teoria del compagno e amico Tronti sull’autonomia del politico, il quale si assume in definitiva lo spazio decisionale e si fa creatore della società civile più che essere plasmato dalle sue trasformazioni.

Qui tocchiamo uno dei nodi delle società industriali mature, oggi, e il dibattito precongressuale dovrebbe dare maggiore concretezza analitica alla importante parte propositiva delle Tesi. Sono in crisi contemporaneamente il keynesismo come tentativo di risposta alla crisi del socialismo e del capitalismo, e il taylorismo come mito (circolato a lungo anche nelle società socialiste) del produttivismo quale fase preliminare necessaria all’autogoverno. In questa crisi giocano due elementi: il peso delle lotte operaie e dei loro nuovi contenuti a partire dal ‘68, che investono l’organizzazione del lavoro e la libertà dell’impresa e delineano una risposta egemonica del movimento operaio; e in secondo luogo, il peso di quella sorta di rivoluzione passiva, fortemente condizionata da ideologie conservatrici, che si esprime, entro la cornice dello Stato assistenziale in crisi, nell’assenteismo, nel rifiuto del lavoro, nelle varie teorizzazioni estremistiche, nella fuga dei giovani verso il terziario o il pubblico impiego, fuori comunque dal lavoro produttivo.

È questo un fenomeno di dimensioni mondiali. E allora, quando parliamo di riconversione produttiva, di mutamento dei consumi e dei costumi, di austerità come momento di una strategia di transizione che salvaguardi il consenso e la partecipazione attiva di grandi masse, la qualità del lavoro diventa un obiettivo non del dopo, ma di oggi, per affrontare e risolvere già in questa fase il gigantesco problema della produttività e insieme quello del rapporto attivo tra le grandi masse e lo Stato. È la questione centrale dell’economia moderna, con le condizioni date di disponibilità di mano d’opera e di fonti di energia e quindi con la necessità di risparmi e insieme di allargamento della capacità produttiva esistente. Un mutamento della qualità del lavoro e quindi del modo di governare l’impresa e la società è la faccia politica di un processo di riconversione produttiva e di trasformazione della società.

I punti di riferimento per approfondire la nostra risposta, dunque, nelle Tesi ci sono. Esistono i rischi, che diceva Luporini, di una involuzione. Ma sembra a me che anche nelle forme di rifiuto della politica, di disaggregazione, si debba leggere l’altra faccia, passiva e per così dire segmentante, cooperativizzante, di quella che abbiamo chiamato socializzazione della politica; l’accentramento statale si realizza attraverso la mediazione tra gruppi di interessi e resistendo ai tentativi di unificazione che soprattutto la classe operaia porta avanti. Ed è qui il grande ruolo della nostra battaglia per la democrazia come momento inseparabile dall’autogoverno della società e dalla trasformazione dello Stato, come risposta anche al terrorismo e alla violenza, ma prima di tutto a quei pericoli di corporativizzazione che sono il vero germe di un possibile autoritarismo di domani.

 

Rinascita La discussione fin qui ha ruotato essenzialmente intorno a due assi: 1) il terna delle condizioni oggettive (che Bufalini ha introdotto come combinazione degli «elementi storici» e della «situazione reale»); 2) il tema affrontato direttamente da Asor Rosa del blocco delle forze.

Tra le condizioni oggettive le Tesi indicano, criticamente, il risultato cui ha portato la direzione socialdemocratica di molti paesi a capitalismo sviluppato, il risultato storico delle esperienze del «socialismo reale» e, con grande evidenza, la situazione di grave crisi del sistema capitalistico, nel contesto di una più generale crisi del mondo. Dal giudizio di questa crisi facciamo dunque derivare in primo luogo l’indicazione dei problemi comuni, a dimensione internazionale e continentale, europea.

Sull’analisi si registra qui un largo accordo. Ma il partire dalle condizioni oggettive, come valutare la possibilità concreta di nuovi blocchi di forze? Le tesi affrontano due livelli politici: l’eurocomunismo, come ricerca di una visione comune del nesso democrazia-comunismo tra partiti comunisti europei, e l’idea di una collaborazione tra comunisti, socialisti, movimenti democratici e progressisti.

 

Bufalini Non ritorno su molti argomenti. Un tema posto mi pare centrale: quale blocco di forze sociali e politiche può essere in grado di avviare e dirigere il processo di trasformazione? Asor Rosa ha parlato di un «disegno ardito, difficile››, contenuto nelle Tesi.

Per quanto riguarda l’Italia, le Tesi mi pare siano abbastanza chiare. Parlano di una funzione centrale della classe operaia e della necessità unità tra la classe operaia e tutte le masse lavoratrici, e mettono in rilievo la questione delle «masse emarginate» nel loro complesso. Anche tra queste masse evidentemente ci sono delle avanguardie, forze schierate su un terreno democratico più avanzato. Ma ne va comunque affrontato il problema nel complesso: i giovani, i disoccupati, il Mezzogiorno, gli studenti (il cui fenomeno è esploso nel ‘68).

Si tratta di punti chiave dello schieramento sociale. Io vorrei però sottolineare anche il rilievo che viene dato (e non vedo contraddizione con le cose ora dette) al collegamento con i ceti medi contadini e produttivi urbani. Questi ceti esercitano una funzione di grande rilievo nell’economia nazionale. Se è vero che i problemi imponenti delle masse emarginate possono cominciare a risolversi attraverso l’accrescimento delle risorse e una loro razionale utilizzazione nazionale, nessuna politica nuova è possibile senza i ceti medi. (Tra l’altro si è qui discusso della produttività: a me pare chiaro che parliamo di produttività nazionale complessiva.)

In tutto questo ci soccorre il concetto gramsciano di blocco storico, che si collega a quello, leniniano, di egemonia, così come venne formulato nel 1905: cioè la capacità di una classe di avere la funzione prevalente nella direzione di un determinato processo di rinnovamento e sviluppo, sociale e politico, nazionale, acquisendo il consenso di altre classi e della maggioranza del popolo: non solo attraverso la convergenza di interessi, ma dimostrando una generale capacità di governo e di direzione. Qui siamo d’accordo con quanto diceva Trentin: si tratta di prevedere la necessità di sacrifici. Si devono superare corporativismi, egoismi di categoria, di gruppo, individuali, ecc. Per questo la prospettiva deve essere chiara e ci vuole un potere democratico capace di governare. Allora sì che si può suscitare il consenso della maggioranza.

L’ancoraggio più forte della nostra linea, così come è esposta nelle Tesi, è alla Costituzione, alla sua linea ispiratrice, al suo programma, all’impianto delle istituzioni, alla funzione dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni di massa, così come la Costituzione li delinea. Bisogna dire – se si vuole essere realisti – che neppure tutta la normativa concreta e specifica della stessa Costituzione può essere considerata intangibile. Capisco che aprire il discorso sulle modifiche costituzionali è difficile, e rischioso. Ma prendiamo un punto chiave: il funzionamento del Parlamento, anche in rapporto a un istituto come il referendum abrogativo. Non si può andare avanti così come oggi. Inutile parlare in astratto di tante cose, se un deputato radicale e uno fascista bloccano tutto ciò che vogliono. E così il modo di concepire il referendum abrogativo: io sono per mantenere l’istituto, ma l’abuso introduce un elemento eversivo. Potremmo continuare a lungo. Potremmo parlare delle Regioni, dei problemi nuovi creatisi, con la loro istituzione, nel rapporto col Parlamento, coi Comuni, con l’insieme dei pubblici poteri. Dico questo per sottolineare la fondamentale importanza del funzionamento delle istituzioni democratiche. Se queste si inceppano, è inutile fare ragionamenti ulteriori: sarebbe astratto.

Quanto al «blocco di forze» su cui Rinascita ci interroga, io do per scontato l’accordo per una politica di larga unita, dei lavoratori, popolare e democratica. Una politica che va oltre l’unità delle sinistre e si rivolge alla Democrazia cristiana. Quanto poi la DC possa accettare, o distanziarsi, o contraddire questa proposta, dipende dalla lotta politica, dal rapporto di forze interno alla stessa DC (e all’insieme della società italiana, e al mondo cattolico, ecc.). Sono dunque d’accordo con l’indicazione delle Tesi, che non vedono una alternativa di sinistra: nel tempo stesso, mi pare giusto il rilievo dato dall’unità delle sinistre, in particolare tra PCI e PSI. È un momento necessario. Se manca, se c’è conflittualità nella sinistra, ciò incoraggia le forze conservatrici, retrive, anticomuniste della DC. Ben vengano, tra noi e i compagni socialisti, le discussioni ideologiche. E non è detto che siano solo «tra»: la dialettica scientifica e filosofica non ha gli stessi confini che separano i due partiti, passa anche al loro interno. Ma tali discussioni non devono essere pretestuose, o tali da portare ad un contrasto esasperato.

 

Rinascita Ma, come vedi la proiezione su scala europea del problema di cui ora parli?

 

Bufalini La terza via – l’abbiamo detto – indica l’originalità della via nostra, e al tempo stesso una visione dei problemi generali dei paesi a capitalismo sviluppato, particolarmente in questo continente. Essa tiene conto delle esperienze dei paesi di socialismo cosiddetto reale e delle esperienze della socialdemocrazia. Uso questa formula («tiene conto») perché penso che questa ricerca originale deve essere formulata in modo da non comportare una schematica contrapposizione con le altre esperienze storiche del socialismo, e con quelle socialdemocratiche (dalle quali pure si distinguono), e non ostacolare il collegamento con tutte le forze socialiste e progressiste del mondo. Non può suonare ostilità nei confronti dell’Urss. Lo dico apertamente: a chi gioverebbe una politica di isolamento internazionale dell’Urss? Non credo che gioverebbe alla causa della pace, della pacifica coesistenza, della cooperazione, né alla causa della democrazia e del socialismo. E così non ci può essere contrapposizione frontale dei partiti socialisti e socialdemocratici d’Europa, alle forze cristiane che hanno obiettivi puramente democratici.

Vorrei sottolineare ancora un punto: la via nostra al socialismo è in atto, è quella tracciata dalla Costituzione repubblicana, terreno su cui lottiamo da trent’anni. Questa ‘politica è diventata organica all’VIII Congresso. Negli ultimi anni, e con queste Tesi abbiamo introdotto elementi di maggiore coerenza e di novità. Soprattutto in due campi: 1) il rapporto tra sviluppo economico e pluralismo politico (che comporta un ruolo dell’iniziativa privata, del mercato); 2) la democrazia politica fondata su istituzioni democratiche le quali poggiano su partiti organizzati. Organizzati, e organizzatori, e non chiusi in funzioni di pura mediazione politica. In particolare il nostro partito, la cui attività fondamentale consiste nel chiamare i lavoratori, i cittadini a discutere e decidere e a lottare.

I Soviet, nella Russia sovietica, entrarono ben presto in crisi nella loro funzione politica. Le alleanze di classe si erano già nel ‘18 fortemente ristrette, non si riuscì a fissare le garanzie istituzionali delle libertà civili e delle libertà politiche, cosa invece necessaria anche in un regime socialista. Tutte queste affermazioni le facciamo da gran tempo. Basti solo pensare ai discorsi di Berlinguer a Mosca, Berlino. Parigi, Madrid. Non sono una furberia, un’escogitazione contraddittoria con l’ispirazione marxista del nostro orientamento teorico. Può pensarlo solo qualche professore.

 

Asor Rosa Qual è l’entità e la natura della crisi con cui ci misuriamo? È una crisi profonda, economico-sociale, e di valori. Su questo ci siamo diffusi lungamente, si diffondono le Tesi. Se posso privilegiare un aspetto, non solo italiano, ma – se non è esagerato porre le questioni in questo modo – mondiale, direi che è una crisi della politica, intesa precisamente come capacità, di direzione, dello Stato o delle organizzazioni politiche (per esempio i partiti), sulla società e sull’economia.

Prendiamo la situazione italiana: al limite, io credo che persino i fenomeni di corporativizzazione possano essere ricondotti a questo elemento, e non ad una spiegazione puramente economica. La capacità di sintesi generale è in crisi. Molti movimenti sono spinti su posizioni particolaristiche e corporative. La parola d’ordine dei sacrifici – come dire della ripresa di un diverso modello di sviluppo e di una diversa produttività – è da mettere in relazione non tanto ai costi o ai benefici economici, di gruppo e individuali, quanto al progetto politico, alla capacità di dare indicazioni di prospettiva sulla forme politiche di trasformazione della società e dello Stato. In Italia e in Europa. Ma il discorso vale a livello capitalistico occidentale: l’esperienza degli Usa mi pare eloquente. Non mi pare che all’ordine del giorno ci sia la parola d’ordine: «autogoverno dei produttori», sollevata da Trentin nel suo intervento, ma piuttosto: «governo da parte del movimento operaio».

 

Bufalini Luporini ha usato un’espressione felice: «controllo sociale del processo produttivo da parte dell’insieme della società», naturalmente con l’affermazione della funzione centrale della classe operaia.

 

Trentin Ma il povero Marx dice invece: «autogoverno dei produttori» …

 

Luporini Ero cosciente di fare uno spostamento.

 

Asor Rosa No, io insisterei sulla funzione di governo del partito, se con «partito» come Trentin giustamente richiamava, si parla oggi di una rappresentazione pluralistica della classe operaia. La zona di problemi che si apre è grandissima, la questione dell’esistente deve misurarsi con un processo di trasformazione politica in atto, vale a dire con una trasformazione dei rapporti di forza tra le classi.

In Europa dobbiamo mettere in nuovo rapporto politica ed economia, cioè l’ipotesi di trasformazione della democrazia politica con l’ipotesi di governo dell’economia da parte di governi nei quali siano associate le forze politiche del movimento operaio, o da esse diretti. Per questo la questione decisiva non mi pare tanto quella della qualità del lavoro, quanto quella della qualità del potere. Allora incontriamo anche le difficoltà delle Tesi che vorrei francamente esporre. Terza via e compromesso storico: problemi di comprensione e applicazione della duplice indicazione esistono. Si può dire che «terza via» è la prospettiva strategica e «compromesso storico» la sua pratica applicazione nazionale? In tal caso l’aggettivo «storico» sarebbe sovrabbondante. Parlo di difficoltà da risolvere.

Al centro della terza via – già lo accennava Bufalini – io vedo l’esigenza di identificazione di un campo socialista europeo, e quindi anche italiano, con strutture, caratteri, orientamenti, progettualità diverse. È all’interno di questo campo socialista europeo che si pone (dicevo «audacemente») il problema della funzione dei comunisti italiani. Infatti uno dei momenti più appariscenti della crisi della politica, su scala europea, è la difficolta di questo campo socialista di diventare forza politica egemone. Che rapporto esiste tra questa ipotesi e la nostra politica di unità democratica e popolare italiana, che comprende un rapporto importante con una forza non socialista come la DC? Ho l’impressione che l’immagine fornita all’Italia, in questi ultimi due anni, del nostro rapporto con la DC (indipendentemente dai problemi dell’emergenza), abbia giocato come un elemento di offuscamento del nostro discorso più generale. Le due cose non sono incommensurabili, ma divaricate sì. Bisogna ristabilire una serie di passaggi concreti, per dare più forza all’idea di trasformazione.

 

Trentin Rapporto fra l’eurocomunismo e le forze socialiste, democratiche, cristiane d’Europa: siamo di fronte alla parte più generica delle Tesi, che meriterebbe un approfondimento, Bisogna arrischiarsi ad individuare alcuni campi, e cimentarsi in un «programma comune delle sinistre», intorno a cui verificare la disponibilità delle varie forze. Siamo sul piano di una ricerca dei nodi comuni: abbiamo di fronte il problema gigantesco di una strategia della riconversione su scala plurinazionale. È possibile che le forze dell’eurocomunismo (che accusano dissensi al loro interno), che le forze socialiste, che alcune delle stesse forze cattoliche e cristiane, si ritrovino intorno ad alcuni punti comuni di riconversione coordinata su scala europea?

C’è bisogno di una strategia unificata dell’impresa pubblica in Europa che superi le dimensioni schiaccianti (almeno per quanto ci riguarda) del singolo paese. Una riconversione produttiva, in paesi ad alta tecnologia ed alto livello della ricerca, se non assume subito una dimensione internazionale, mi pare velleitaria.

Di fronte ai problemi di questa portata, sento che bisogna lavorare ad un programma delle sinistre: sennò la loro unità, proclamata per un fine futuro, rischia di naufragare, o sulla politica agraria o sull’entrata della Grecia e della Spagna nel Mec o chissà su cosa ancora. L’episodio Sme è illuminante.

 

Bufalini Ma l’esigenza e di un programma (se così vogliamo chiamarlo) di forze democratiche non solo della sinistra.

 

Trentin D’accordo. Ma io parto dalla constatazione che oggi già le forze di sinistra in Europa, intese nel senso più lato, sono, rispetto a questi problemi, molto lontane. Vedo difficile un programma che coinvolga l’insieme delle forze democratiche europee, e che non abbia come suo nucleo l’intesa tra le forze del mondo socialista e comunista.

 

Bufalini Ci sono dei punti sui quali addirittura le divergenze tra comunisti sono maggiori che tra comunisti e socialisti. L’importante è la ricerca dell’unità, e innanzitutto tra le forze socialiste, però non vedo la necessità e la giustezza di un «programma comune›› delle sinistre.

 

Trentin Veniamo però al punto chiave. Ci troviamo a fare i conti con i problemi aperti della crisi mondiale, in particolare della società industriale capitalistica. Modo di lavorare e diversa articolazione del potere: non condivido l’osservazione di Asor Rosa. Qui c’è un dissenso. Cosa c’è oggi all’ordine del giorno in Europa? Sul piano oggettivo c’è una crisi del lavoro produttivo che si traduce in una proliferazione dei secondi e terzi mercati del lavoro, in una crisi vera e propria di produttività dei sistemi di organizzazione del lavoro, in un fallimento delle esperienze di partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori (in Germania, in Svezia, in Francia, ecc.). Questo fallimento della partecipazione operaia è uno degli aspetti centrali della crisi della democrazia. Il limite di queste forme è stato nel fatto di essere state concepite come altra cosa dallo sviluppo della democrazia politica. Ciò mi pare fondamentale. E produce effetti violenti: la disaffezione dal lavoro, l’assenteismo, la crisi delle giovani generazioni rispetto al lavoro, il rischio di frattura tra classe operaia organizzata e giovani, ecc. Non c’è un prima e un poi: prima un governo efficiente, e poi, un giorno, la possibilità di essere direttamente protagonisti e partecipi della ricostruzione, della riconversione.

Per questi motivi io non mi perderei in guerre di religione, contro forze socialiste e socialdemocratiche, sull’autogestione. La quale mi pare vada criticata per due ragioni: primo, quando la si concepisce come metodo pacificamente sviluppabile nell’ambito di una società che non muta le sue strutture capitalistiche; secondo, quando la si isola completamente dal problema dello Stato e della sua trasformazione. Chiarito questo, il resto mi pare un falso problema.

L’idea di una «democrazia economica›› che vive dando per scontata la natura repressiva dello Stato: ecco un modo per teorizzare la scissione tra due forme di democrazia. Anche questo Stato non lo concepiamo né come «stanza dei bottoni» (per usare la candida espressione di Nenni) e neanche come fortezza assediata. Ma come quella serie di casematte che si intrecciano con la società civile, quindi la combinazione dall’esterno e dall’interno, senza cadere nella logica dei contropoteri propria di molte teorizzazioni di compagni socialisti. Io credo che il problema sia quello di utilizzare il grosso patrimonio della Costituzione per lavorare in direzione di uno Stato diverso, che comporta tra l’altro la diffusione di forme di autogoverno in alcuni grandi servizi collettivi e sociali, se vogliamo dare anche alla riforma della pubblica amministrazione una sua concretezza.

Lo stesso tema, sollevato da Bufalini, del funzionamento del Parlamento, comporta la soluzione in termini più sistematici, e se possibile istituzionali, dei suoi rapporti con tutte le forme di democrazia decentrata. E la riflessione molto attenta su come può funzionare effettivamente un organismo di programmazione dell’economia. Per questo il Parlamento deve disporre degli strumenti di analisi, di conoscenza della realtà…

 

Bufalini Attenzione a fughe in avanti. Che intanto il Parlamento funzioni!

 

Trentin Ma questi sono problemi che alcune democrazie parlamentari hanno affrontato prima di noi, dotando il Parlamento di strumenti e poteri. Le risposte non possono essere solo regolamentari.

 

Bufalini Esiste il rischio di un’espropriazione delle funzioni delle istituzioni democratiche da parte di organismi autoritari. Stiamo continuando a fare leggi che richiedono la costituzione di sempre nuovi comitati, commissioni, ecc. Va a finire che non si riesce neppure più a spendere i soldi già investiti. Lo sai benissimo.

 

Trentin Io pongo semplicemente il problema di un Parlamento che sappia leggere un bilancio.

 

Bufalini Passi avanti sono stati fatti.

 

Trentin Non abbastanza. Il Congresso americano, per esempio, ha ben altre attrezzature per la gestione dello Stato fiscale. Comunque siamo di fronte ad uno dei più grossi problemi della democrazia moderna.

Qual è il blocco di forze sociali che può reggere, nelle sue nuove forme, questa democrazia – ci interroga Rinascita. L’esistenza di un blocco storico nuovo che sostenga una transizione al socialismo, presuppone una analisi più attenta e disaggregata delle grandi categorie. Per esempio quella delle «forze marginali». Tra di esse vi sono strati sociali di più diversa natura. Per alcune si pone un problema di riunificazione della classe lavoratrice vera e propria intorno ad un progetto, per impedire quella segmentazione e quella corporativizzazione violenta che deriva, ripeto, non solo da una crisi morale ma dal funzionamento concreto del vecchio Stato. E tra gli emarginati esistono strati di ceto medio.

Ciò che mi preme è sottolineare che, in una crisi di questa portata, la partita della politica di alleanze si giocherà su un terreno non economicistico e corporativo, non di compromesso tra corporativismi, ma dando risposta generale alle grandi questioni: al rapporto riforma sviluppo, sviluppo- sacrifici- poteri. Cioè affrontando direttamente il problema di una partecipazione attiva e non subalterna alla programmazione democratica dell’economia.

 

Terzi Vorrei riprendere la questione posta da Luporini, dell’identità del partito e della difficoltà avvertita in questa ultima fase. Non ci sono solo ragioni politiche contingenti, legate alla collocazione di questi ultimi anni: ci sono anche ragioni più generali. Sono entrate in crisi, non hanno retto alla prova, molte ipotesi e suggestioni che in qualche modo hanno alimentato la cultura della sinistra italiana e nostra, dunque a partire da gli anni ‘60. Di fronte ai nuovi elementi di corporativizzazione di cui si parlava, per esempio, non mi pare sufficiente un rilancio dello sviluppo della democrazia di base, come riunificante le diverse spinte. Questo è stato un aspetto importante, e fecondo, della nostra storia, che ha consentito una grande crescita democratica, fino al risultato del ‘74 ’75, ma non ci aiuta a vincere le difficoltà del momento.

Piuttosto abbiamo di fronte il problema sottolineato da Asor Rosa: quello del ruolo di governo del partito. Nella società ci sono elementi di riflusso, e comunque l’esigenza di un certo riordino dell’esperienza democratica, proprio perché non tutto e stato positivo, ci sono state forme di partecipazione che hanno dimostrato una certa fragilità, le quali oggi devono essere ricondotte ad una visione unitaria dei problemi della società nazionale. La linea dev’essere corretta. Cosa vuol dire l’obiettivo, oggi, dell’«autogoverno dei produttori»? Il rischio è di restare prigionieri di una mitologia democraticistica.

Tra l’altro, dobbiamo equilibrare bene il giudizio sui fenomeni in atto. Parliamo tanto di «riflusso nel privato», indistintamente. In certi casi si tratta anche di una correzione alle esasperazioni della politicizzazione integrale di tutti gli aspetti della vita sociale, culturale, morale. Che la politica si avverta in termini diversi da quelli del ‘68, che ritrovino corposità momenti più specifici di autonomia, non è un fatto negativo, tutto ascrivibile al moderatismo. La controffensiva moderata si innesta su tali elementi. Da parte nostra si tratta di vedere come ricomporre, nelle condizioni attuali un blocco di forze sociali e politiche che mandi avanti un processo di trasformazione.

Intanto bisogna precisare che, quando parliamo di uno schieramento di forze sociali e politiche, della necessità di un pluralismo politico ed economico, non stabiliamo un nesso diretto tra i due elementi. Sarebbe come far nostra la concezione borghese, che fonda la democrazia sulla proprietà privata, e per questa via identifica democrazia e mercato. Le Tesi riaffermano che i partiti non sono espressione di interessi economici immediati, ma portatori di una visione generale dello sviluppo della società.

Mi pare che nella nostra elaborazione persista però qualche ambiguità. Il problema – che è di fondo – del rapporto con le forze sociali nelle Tesi viene enunciato, ma si tratta di vedere meglio, nella concretezza, come si salda un rapporto di alleanza. Diciamo che ci vuole uno schieramento assai ampio, che va dagli strati emarginati al ceto medio urbano, al ceto medio produttivo. Ma quali sono le contraddizioni, come si fa arrivare la nostra linea a certe forze?

Prendiamo la realtà urbana dell’area milanese. Una lettura un po’ superficiale della linea ci porterebbe a scollamenti gravissimi con essenziali settori della vita economica e produttiva. Penso a come affrontiamo la questione meridionale: se la «priorità meridionalista» diventa, per Milano, proposta di blocco dello sviluppo, abbiamo chiuso la comunicazione con settori vitali della società. O il tema dell’austerità, che non può significare rallentamento dello sviluppo, distacco della realtà italiana dalle esperienze europee…

 

Bufalini E tutto questo non avrebbe un riflesso politico? Lo dico come obiezione alle affermazioni precedenti.

 

Terzi Dunque, la questione delle alleanze e del «blocco» va vista nella sua complessità. Anche per quanto riguarda lo schieramento politico c’è qualche approfondimento da compiere. Le Tesi già consentono un’interpretazione più attenta della politica di unità democratica. Abbiamo sofferto di visioni riduttive. Nel partito è passata una concezione unanimistica, nella quale venivano meno gli elementi di conflitto: l’idea che il quadro unitario e definitivo, inamovibile, mentre mi pare che i processi politici, sia per l’immediato sia per il prossimo futuro, non possono essere ingabbiati in una formula. Le Tesi operano delle correzioni, definiscono più rigorosamente il compromesso storico, come quadro di riferimento generale, entro il quale possono valere formule politiche diverse. Può valere anche un’alternanza tra diverse forze. Entro questo discorso bisogna mettere l’accento sul nostro rapporto col PSI. Non possiamo non considerare la qualità diversa del problema del rapporto unitario col PSI, che riguarda l’unità del movimento operaio, rispetto a quello con la DC. Questo punto si e un po’ offuscato, fino ad una visibile insofferenza, un fastidio crescente nei confronti del partito socialista, senza cogliere il fatto, lapalissiano, che nello stesso momento in cui il rapporto col PSI si incrina, prevalgono nella DC le forze moderate, che hanno maggiore possibilità di manovra.

Ultima considerazione sulla dimensione europea del nostro discorso. È una delle parti più importanti e originali delle Tesi. Non appiccicata: dopo l’Italia c’è poi l’Europa, ecc. La terza via è una ricerca, si e detto, che vale per l’Europa. Nel partito non c’è ancora l’abitudine a ragionare in questa dimensione. Spesso si è legati all’illusione che, siccome, l’Italia è il paese più avanzato sul piano democratico e della partecipazione delle masse, sia possibile prescindere dalla situazione europea. E invece non e pensabile avanzare da soli, come se l’Italia possa essere una specie di Cuba dell’Europa. Il rapporto nuovo con le forze socialdemocratiche, con tutta la sinistra, per un generale spostamento degli equilibri politici e di classe in Europa, è il cimento a cui dobbiamo attrezzarci. Si è discusso qui se si debba pensare o no ad un «programma comune» delle sinistre. A me pare che l’essenziale sia di avviare le condizioni minime per una ricerca comune tra le forze di sinistra e del movimento operaio, su scala continentale. Questa è la con dizione per risolvere i problemi dello sviluppo politico e democratico in Italia.

 

Luporini La domanda che ora ci rivolge Rinascita, a proposito della dimensione europea, mi pare centrale. Non mi pare che stiamo nascondendo l’elemento nazionale: stiamo allargando la visione. Del resto parliamo di «vocazione internazionalista» della classe operaia, che è qualcosa di più di una vocazione, è un pezzo essenziale della sua storia reale. Questa proiezione europea, come si vede, si scontra con delle difficoltà evidenti. Bufalini ricordava le divisioni, anche profonde, tra gli stessi partiti comunisti. E infatti io credo che, a tutt’oggi, l’eurocomunismo sia un punto ancora troppo debole. Bisogna sviluppare molto il confronto su come si muovono le grandi forze del capitalismo europeo, e su come si deve muovere, di fronte agli sviluppi del capitalismo, la classe operaia. Non ci si può fermare a certe analogie, benché importanti, sul terreno politico, e lasciare il resto in un limbo più o meno diplomatico. È su una base analitica adeguata ai problemi reali che poi il discorso può svilupparsi in direzione di altre forze, in particolar modo le socialdemocrazie.

Per questo è essenziale che superiamo le nostre debolezze analitiche, a partire dalla situazione  interna. Io sento che un punto ancora poco elaborato riguarda i rapporti di quella complessa formazione politica che è la democrazia cristiana con le tendenze del capitalismo italiano. Complessa», perché è evidente che nella DC si sta svolgendo una lotta fortemente polarizzata sul tema del rapporto con noi. Ora, il compromesso storico, È un fatto italiano, però non escluderei che l’idea legata a questa proposizione strategica non possa avere valenze diverse sul piano europeo. Non so se «terza via» e «compromesso storico» sono cose diverse…

 

Asor Rosa Non volevo dire diverse, punto e basta: volevo dire che il loro rapporto pone problemi.

 

Luporini Non ho una risposta pronta. Non mi convincerebbe, ecco, la spiegazione: una cosa riguarda l’Italia, il terreno nazionale, l’altra l’Europa. E anche una proposizione del tipo «programma comune» delle sinistre mi impressiona un po’. Ora, che si debba cercare una unità delle sinistre sul piano europeo, non ho dubbi, e che questo abbia il suo immediato riflesso italiano nel rapporto col PSI (nonostante certi atteggiamenti recenti del gruppo dirigente socialista). E sono d’accordo con Bufalini che questo resta un nodo centrale per una visione più larga dell’unita democratica.

Ciò riguarda lo schieramento politico. Ma bisogna curare di non separare questa dinamica degli schieramenti politici dal blocco storico inteso nel suo insieme, la cui costruzione oggi presenta esigenze diverse che nel passato. C’è una autocritica da fare (rispetto al ‘68, come diceva Terzi, e rispetto ad anni più recenti) perché il partito riacquisisca pienamente una visione articolata del processo, ed una nuova capacità di contatto con la società. Bufalini ha detto che non c’è contrasto tra una politica verso gli emarginati e una politica verso i ceti medi.

 

Bufalini Dicevo che non deve esserci.

 

Luporini Appunto. Perché contrasto non ci sia bisogna scoprirne le condizioni concrete. C’è un rischio nel vedere «l’emarginazione» come separazione di ceti sociali.

 

Trentin L’emarginazione non è «un ceto» sociale, intanto.

 

Luporini È decisivo allora vederne la compenetrazione con molti degli stessi strati tradizionalmente coinvolti nelle alleanze. Questo concetto di emarginazione oggi si dispone su più livelli. Quello più evidente riguarda i giovani: l’incertezza, la questione del lavoro, il buio dell’avvenire. Ma ci sono elementi di emarginazione che toccano profondamente diverse parti della società, e mi chiedo se in parte non tocchino la stessa classe operaia. Per esempio, nel rapporto con la cultura, vista come cosa che riguarda l’«altra classe». Mi è capitato di sentire operai argomentare che in fondo, in paesi a più alti livelli culturali, scientifici, tecnologici, la classe operaia è più subalterna che nel nostro, costretta in condizioni di passività politica. È una domanda su come si connettono i processi conoscitivi e anche tecnologici, alla coscienza politica e sociale.

Ciò ha direttamente a che fare con il discorso sull’egemonia. Asor Rosa ha parlato di una crisi della politica». Specificando: «politica» come capacità di direzione dell’economia e della società civile. Il tema e suggestivo. Bisogna problematizzarlo attentamente, per vedere se in questa crisi della politica non ci sia una politica, cioè una rinuncia transitoria alla presa larga sulla società, attraverso la quale non passi una ristrutturazione capitalistica.

 

Bufalini Però è da respingere la visione globale indifferenziata della politica. Io vedo un disegno politico chiaro. C’è stato alla Camera questo ostruzionismo che sappiamo. La Stampa riporta un articolo di Gorresio («Al posto dell’assenteismo, l’ostruzionismo››) che fa diventare l’ostruzionismo di tutto il Parlamento. C’è il disegno, la malizia.

 

Asor Rosa Ma non è escluso che di questa crisi siamo investiti anche noi.

 

Bufalini Certamente, anche perché la discriminazione anticomunista, non del tutto caduta, ha dato un colpo al funzionamento delle istituzioni democratiche, alla loro capacità di corrispondere ai bisogni reali della gente.

 

Luporini Questo serve ad alimentare la sfiducia, quindi a respingere la politica: è una politica di classe, nella quale bisognerebbe stare più attenti a non essere coinvolti.

Ma veniamo al punto decisivo, che sta sotto la crisi della politica: la crisi diceva Trentin del lavoro produttivo. E con esso delle forme e dell’organizzazione del lavoro. È la questione cruciale che riguarda i lavoratori occupati, e tutti gli altri, soprattutto le giovani generazioni. Per questo non vedo secondario neppure il tema della qualità, del senso del lavoro, del suo significato rispetto ad ogni altra componente della vita e della convivenza umana. Nelle Tesi ci sono cose nuove; il dibattito congressuale dovrebbe approfondirle.

Secondo me è possibile ricreare elementi di credibilità e di fiducia, nella crisi attuale, se si dà al partito, a tutta la società, una grande prospettiva. Le difficoltà non si debbono ignorare. Però abbiamo questa vitalità della società italiana, che ci permette di discutere con gli altri partiti, con le forze politiche e con le masse, con le organizzazioni sociali, della prospettiva di trasformazione dello Stato e di superamento della situazione data.



Numero progressivo: G33
Busta: 7
Estremi cronologici: 1979, 5 gennaio
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 1, 5 gennaio 1979, pp. 7-12