LA PRATICA DEL “NON AGIRE”

di Riccardo Terzi

Quelli che un tempo sono stati elementi di forza del partito di massa divengono oggi punti di debolezza. I termini di un rapporto nuovo con una realtà sociale in movimento. Occorre partire dal riconoscimento di uno stato di crisi. Un problema che non può essere risolto con interventi dall’alto

 

Nell’intervista a Massimo D’Alema, interessante in quanto prima ufficiale dichiarazione di intenti del nuovo responsabile dell’organizzazione, si combinano due elementi contraddittori: da un lato una visione lucida dei problemi politici del partito, l’esigenza di dare un respiro più ampio al tema dell’alternativa, uscendo dalle secche di un “iperpoliticismo” che riduce tutto alla manovra tattica, e dall’altro lato la riproposizione di una concezione del tutto tradizionale e statica del ruolo del partito e del suo modello organizzativo. La politica dell’alternativa, se non vuole ridursi ad un’operazione trasformista, di inserimento subalterno nel gioco politico, se vuole avere il senso di un progetto forte di trasformazione del sistema politico, mette necessariamente in discussione anche la nostra cultura, la nostra tradizione, il nostro modo di essere. Per questo, io ritengo che la ridefinizione del tema del partito, come grande nodo teorico e strategico, sia oggi un passaggio ineludibile per superare quel senso di malessere e di impotenza che rischia di avviluppare e di bloccare le nostre energie potenziali.

Dopo l’alluvione dei risultati elettorato di giugno, nel mezzo di una crisi politica che ha investito il partito a tutti i livelli, ci si può legittimamente attendere dal gruppo dirigente l’indicazione di qualche proposta innovativa, di un’ipotesi di riforma della struttura organizzativa, l’indicazione, almeno, di un terreno nuovo di ricerca su cui impegnare la nostra riflessione collettiva. Se c’è disagio, frustrazione, se c’è il rischio di un senso fatalistico di declino, ciò non è dovuto ad un’improvvisa crisi depressiva, a un’irrazionale ondata paranoica, ma all’insufficienza delle risposte politiche, all’arretratezza della nostra elaborazione, al fatto che la realtà attuale del partito non riesce a fronteggiare con efficacia i problemi che ci stanno di fronte.

In una tale situazione, la scelta sicuramente errata è quella della conservazione, della riproduzione di formule che ormai sono logore e non più significanti. Da questo punto di vista, l’intervista di D’Alema mi sembra essere il segnale allarmante di una sordità del gruppo dirigente, in quanto essa si limita a riaffermare la validità metastorica del modello del partito di massa. «Questo è il problema: rimettere in campo, in modo unitario, il partito di massa, che deve essere la grande forza moderna capace di misurarsi con la complessità sociale, l’articolarsi dei bisogni e delle culture, per ricomporre un disegno unitario di cambiamento». Non sono concetti falsi, ma sono ormai concetti vuoti, collocati fuori dal tempo, che non rispondono agli interrogativi di oggi, ai dilemmi reali del partito. Siamo nel campo del dover-essere: dobbiamo restituire al partito certezza nella propria funzione, siamo e dobbiamo essere una grande forza, il partito deve avere una grande e creativa capacità di iniziativa di massa e di iniziativa politica, e cosi via auspicando.

Ma non stiamo forse discutendo di una sconfitta, di un pericolo di declino? Che rapporto c’è tra la crisi in atto e queste affermazioni consolatorie? È evidente che in questo modo il tema della “crisi” viene rimosso, e si dà al partito l’illusione pericolosissima che la sconfitta elettorale sia solo un incidente di percorso, e che sia possibile ricostruire la nostra forza senza sottoporre a nessun riesame critico la cultura politica del partito e le sue forme organizzative. Ne deriva una linea impraticabile e velleitaria di restaurazione. Restaurazione delle regole, delle gerarchie, dell’unità ideale del partito, dell’autorevolezza dei gruppi dirigenti.

Ma tutto questo perché non ha funzionato, perché si è inceppato? «I gruppi dirigenti devono essere legittimati a decidere». Bene, e chi glielo ha impedito? È forse colpa del compagno Luca Romano e della sua tendenza riprovevole alla politica – spettacolo? Il rischio, insomma, è di ricadere in una concezione tutta soggettivistica e moralistica, che non analizza le contraddizioni reali, la materialità dei processi, e ritiene che ci sia solo un problema di “orientamento”, di comprensione e assimilazione della giusta linea politica. Torna a galla una tipica eredità terzinternazionalista, ovvero quella sorta di “feticismo” di partito secondo il quale nella contraddizione tra la realtà e la ragione di partito è la realtà a doversi adattare agli schemi precostituiti. Mi si può forse dire che vedo fantasmi. Ma allora venga avanti un’analisi critica, una discussione aperta, una disponibilità vera a rimettere in discussione tutte le certezze acquisite.

È così, oggi, nel partito? Il gruppo dirigente è davvero disposto a mettersi in discussione? Se il partito stenta a reagire, a riprendersi, ad uscire dallo stato di frustrazione, ciò dipende anzitutto dal fatto che esso non è stimolato, non è chiamato ad un confronto, ad una battaglia politica chiara, ma è chiamato piuttosto a riconfermare una delega di fiducia a un gruppo dirigente le cui opzioni politiche sono quotidianamente il frutto di mediazioni incerte, di equilibri interni instabili, e di ardua decifrazione. Non sono fantasmi, dunque, ma è il peso materiale di una tradizione, di una concezione del partito e della sua unità, per cui oggi chi vuol guardare alla realtà con occhi aperti sente di dover fare i conti con una forza d’inerzia, con un insieme gelatinoso di resistenze e di opportunismi.

E allora, se occorre nel partito aprire con chiarezza una battaglia politica, come anche D’Alema sollecita, io credo che in primo luogo, come preliminare condizione, si tratta di contrastare la tendenza alla restaurazione che è in atto, e che di fatto è stata avallata nell’ultima riunione del Comitato centrale. Nessuna svolta nella linea politica, nessuna discussione che vada alle radici della crisi, nessuna rottura dell’unità e della continuità del partito, nulla insomma che abbia il senso di un’innovazione e che rimetta in discussione il rapporto tra il gruppo dirigente e il corpo del partito. La discussione è finita, e ora si tratta di rimettere in riga i riluttanti, i velleitari, tutti coloro che non hanno sufficiente “spirito di partito”. Occorre invece partire dal riconoscimento di uno stato di crisi, che il risultato elettorale evidenzia ma ha radici più lontane, e di cui non abbiamo ancora misurato tutte le potenzialità distruttive. Crisi non significa declino, ma punto di svolta, passaggio critico che può avere esiti opposti. L’esito è distruttivo se la crisi non viene analizzata, compresa, governata, mentre può essere l’avvio di una nuova fioritura, di una nuova fase di sviluppo, quando si colga il senso dei processi. Con una parola abusata, possiamo dire che ci troviamo in una situazione tipicamente dialettica, e che dunque sarà alla fine vincente quella forza che ha in sé la capacità della negazione, del superamento, del rovesciamento.

Se mi è consentito un riferimento culturale assai più lontano dalle nostre tradizioni, potrei ricordare l’antico principio taoista del “non agire”, che non è passività ed inerzia, ma capacità di agire in armonia con il movimento reale, mentre all’opposto la pretesa di fissare dall’alto, con spirito burocratico, le regole sovrastoriche del bene e del male è destinata al fallimento. Questa pratica del “non agire” può essere oggi proficuamente applicata nella vita del partito: tenersi lontani dagli schematismi burocratici, non pretendere di dettare legge, ma cercare di capire quello che accade, non soffocare i fermenti di novità, ma aiutarli a crescere e a svilupparsi. Dobbiamo guidare l’evoluzione del partito verso una sua nuova forma storica, al di là della crisi. Ha titoli per dirigere chi assolve questo compito. Tra gli elementi di crisi del modello “classico” di partito c’è l’accentuarsi del pluralismo interno, sotto il profilo sociale, politico, culturale, per cui si sfalda la compattezza ideologica del passato, e non è mai data una sintesi se non come processo aperto, come movimento ininterrotto e sempre provvisorio e parziale di unificazione.

Di fronte a questa tendenza, che è oggettiva in quanto riflette la crescente complessità sociale, non valgono decreti d’autorità. La soluzione autoritaria, che in varie forme è in atto in tutti i partiti, è una prova della loro fragilità, del loro essere sempre più una sovrastruttura che non ha radici nella società reale. Ora, questa situazione potrà avere un esito catastrofico se non si tiene conto dei mutamenti reali che stanno avvenendo e si pensa di poterli forzare dentro una logica di centralizzazione; e potrà all’inverso avere un esito liberatorio se il partito riesce ad essere una forza che organizza e promuove il pluralismo. Uso formule inevitabilmente ambigue, che possono però indicare una possibile direzione di marcia verso un modello di partito che affida il suo prestigio non ai meccanismi tradizionali del potere ma ad una capacità diffusa ed articolata di rappresentanza sociale e culturale. In altri termini, quelli che nel passato sono stati elementi di forza del partito di massa (la sua macchina organizzativa compatta e disciplinata, la sua coesione ideologica, il suo riferimento sociale privilegiato alla figura dell’operaio di fabbrica, la sua collocazione in un determinato campo di forze internazionali), divengono oggi elementi di debolezza, in quanto determinano uno stato di separazione, di distacco, nei confronti di una realtà sociale in movimento, multiforme, non disponibile a lasciarsi inquadrare dentro strutture organizzative rigide e dentro blocchi culturali di tipo ideologico. Per questo il tema del partito ha il senso di un passaggio strategico decisivo.

È possibile sperimentare nuovi modelli? Può essere tentata, io credo, la progettazione pratica di un modello di partito che sia radicalmente democratico, che si proponga cioè di rovesciare il rapporto gerarchico tra rappresentanti e rappresentati e di essere lo strumento flessibile attraverso il quale si riorganizza il conflitto sociale per una redistribuzione democratica del potere. Ciò rimette in discussione la forma storica che il partito ha assunto, le sue regole, la sua costituzione materiale. In questa ottica, ha un senso solo relativo la vicenda del gruppo dirigente, dei suoi equilibri interni. Ha senso vedere l’insieme della realtà del partito, delle sue tensioni, delle sue energie potenziali, rompendo con la concezione “pedagogica” per la quale ogni innovazione è possibile ed è legittima solo se viene dall’alto. Occorrono tentativi molteplici, anche tra loro diversi e contradditori, in un rapporto nuovo con la società, in uno sforzo di analisi, di conoscenza, di cultura, di progetto.

Questa ipotesi di riforma può apparire come un’operazione di svuotamento del partito: il partito come contenitore vuoto, che si limita a recepire, senza alcun criterio di selezione, i più diversi stimoli della società. Rischieremmo cosi di dar vita ad un partito di mera rappresentazione della realtà, senza un progetto politico alternativo.

Per non cadere in una concezione di questo tipo, deve essere ben saldo il collegamento tra riforma del partito e politica di alternativa, deve essere chiaro cioè che la democratizzazione del partito non è un’operazione neutra, ma il tentativo di costruire spazi nuovi di democrazia e di partecipazione politica per l’insieme delle forze che costituiscono tutta la vasta costellazione delle sinistra sociale , potenziale e diffusa, è la costruzione di un ponte che colleghi conflitto sociale e azione politica.

Se l’alternativa non è, come ripetiamo da tempo, un’operazione tutta politica, tutta giocata nei rapporti di partito e nelle istituzioni, essa deve allora poter camminare con strumenti nuovi. L’alternativa è destinata a restare, come qualcuno pensa, una astrattezza velleitaria, una forzatura dannosa da rimpiazzare con un più solido realismo politico, se ad essa non facciamo corrispondere un’idea adeguata del partito. I nostri obiettivi di trasformazione sociale e democratica hanno senso e credibilità solo in quanto dimostriamo che sappiamo applicare anche a noi stessi il metodo di una critica rigorosa, se diamo vita ad una prassi conseguente di democratizzazione della politica.

Io credo che se al partito indichiamo uno scenario di questo tipo, se al partito chiediamo di alzare il livello delle sue ambizioni politiche, possiamo allora ritrovare le energie e le forze necessarie per schiodarci dall’attuale stato di paralisi.



Numero progressivo: H92
Busta: 8
Estremi cronologici: 1987, 28 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Confronta anche lo scritto del 1997 La pratica del “non agire”. Dieci anni dopo
Pubblicazione: “Rinascita”, 28 novembre 1987. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 73-78