LA PARTECIPAZIONE POLITICA E SOCIALE TRA CRISI E INNOVAZIONE

Il caso della Toscana

Presentazione di Riccardo Terzi, pp. 9-19

Con questa introduzione non intendo commentare la ricerca, che parla con l’evidenza dei suoi contenuti, e con l’approfondito lavoro di interpretazione che la accompagna. Mi sembra più utile risalire alle origini, alle motivazioni e agli interrogativi da cui è nata l’idea di questo lavoro, nel gruppo dirigente dello SPI e nel confronto, che per noi è sempre essenziale, con la cultura scientifica. La prima cosa che vorrei sottolineare è la necessità di questo scambio, di questa relazione tra il sindacato e le varie competenze specialistiche, in un processo bilaterale, in cui si intrecciano i due momenti della riflessione teorica e dell’esperienza pratica, senza che vi sia nessuna gerarchia tra questi due piani, ma un loro intreccio del tutto aperto, nella convinzione che è proprio nella relazione, nella verifica di coerenza tra la teoria e la pratica, che possiamo pervenire ad una più penetrante comprensione della realtà. Così abbiamo lavorato, con l’IRES Toscana e con l’Università di Firenze, in un rapporto che si è fatto via via sempre più coinvolgente e impegnativo, e la ricerca è il risultato di questo lavoro collettivo, in cui ciascuno ha messo la sua competenza e la sua passione. Non c’è bisogno, quindi, dei rituali ringraziamenti, ma c’è il senso di un impegno comune, che sicuramente dovrà continuare anche nel prossimo futuro, nelle forme che insieme decideremo.

Da dove siamo partiti? Dall’idea che siamo entrati in una condizione di crisi e di sofferenza dell’intero sistema democratico. Si tratta allora di mettere a fuoco questo tema, di vederlo concretamente nelle sue varie articolazioni, e anche di scandagliare le possibili risposte, le risorse che possono essere attivate per un rilancio del progetto democratico. Il tema, come è evidente, è di estrema ampiezza, e proprio per questo, per non restare al livello di affermazioni del tutto generali ed astratte, abbiamo deciso di verificarlo in un territorio determinato, scegliendo la Toscana, per le sue tradizioni democratiche, per la ricchezza del suo tessuto civile, e anche per le innovazioni legislative che sono state recentemente introdotte. Si è così costruito un rapporto positivo di collaborazione con l’istituzione regionale, che ha fattivamente contribuito alla realizzazione del lavoro di ricerca.

Ma deve essere chiaro che il nostro intento trascende la dimensione locale, che parliamo della Toscana per capire quali sono i processi in atto, quali le tendenze, sulla scala nazionale e su quella europea, che insomma la Toscana è solo un test, un singolo caso territoriale che ci può aiutare, nella sua determinata concretezza, ad illuminare il senso complessivo dei processi politici che sono in corso. È fondata l’impressione che vi sia una crisi della democrazia? Per alcuni osservatori, si tratta solo di un mutamento delle forme della politica, e l’idea della crisi è solo il riflesso nostalgico di chi non ha saputo adattarsi ai cambiamenti, e resta perciò aggrappato ad un modello che si è ormai esaurito. La democrazia non può essere identificata con nessuna delle forme storiche concrete, ma di volta in volta reagisce alle variazioni del contesto politico e reinventa, con grande flessibilità, le sue strutture istituzionali e le sue procedure. E fin qui possiamo concordare, ma occorre cogliere il senso dei mutamenti che sono in atto, e capire se c’è una evoluzione, o un arretramento, un mutamento delle forme, o non piuttosto uno stravolgimento della sostanza.

Se la democrazia viene interpretata in una prospettiva minimalista, essa si riduce in sostanza al solo fatto elettorale. Ciò che conta è solo l’esistenza di una qualche procedura di legittimazione del potere, mentre viene del tutto rimosso il problema di come il potere viene esercitato e di come si configura il rapporto tra governanti e governati. E allora può apparire che il nostro mondo contemporaneo sia destinato ad una progressiva affermazione dei valori democratici, perché via via si restringe il campo dei regimi apertamente dittatoriali. Ma dobbiamo domandarci se si tratta davvero di uno sviluppo, o solo di un’apparenza. Tutto dipende dal significato che attribuiamo all’idea di democrazia, se essa si riduce alla sola cornice istituzionale, o se viceversa ha a che fare con i processi reali di partecipazione. Evidentemente, noi scegliamo questa seconda tesi, ed è con questo metro che misuriamo il livello democratico nelle singole realtà, col metro dell’effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni.

La democrazia si può riassumere nel principio universalistico, nel duplice senso che tutti sono abilitati a concorrere alla decisione, e che questo deve valere per ogni problema che riguardi la nostra vita collettiva, senza che vi siano territori riservati alla competenza esclusiva degli esperti. Tutti e tutto, senza limitazioni, perché ogni limitazione toglie alla democrazia il suo valore di principio. E la storia è assai ricca di esempi di democrazie “sotto tutela”, alle quali è consentito di funzionare solo entro il perimetro fissato da una qualche autorità esterna. Si tratta dunque di una sfida estremamente impegnativa, e siamo ancora assai lontani dall’aver raggiunto, nella realtà effettiva, un livello sufficiente di realizzazione di questo obiettivo. Sono anzi evidenti gli arretramenti, i passi indietro, i condizionamenti. Si fa sempre più strada l’idea che le nostre società complesse, integrate nell’economia globalizzata, impegnate nel difficile sforzo dell’innovazione e della competitività, non possono più permettersi i rituali logoranti della democrazia, troppo lenti, troppo incerti, e troppo esposti all’emotività incompetente delle masse. È il momento del decisionismo, del potere che sa prendere anche le decisioni impopolari, e si rompe così il rapporto tra responsabilità e partecipazione, secondo una visione del tutto aristocratica e oligarchica del sistema politico. Il vero leader è quello che decide in solitudine e che sa imporre una politica di “lacrime e sangue”, e su questa immagine si costruisce tutta una nuova mitologia autoritaria.

L’universalismo viene quindi attaccato sui due fronti: non tutti hanno i titoli per decidere, e soprattutto ci sono materie che, per loro natura, per la loro complessità, devono essere sottratte al processo democratico. È questa la tendenza prevalente oggi in Europa: governi tecnici, tecnostrutture, agenzie specializzate, formazione di una élite economico-finanziaria che si è del tutto emancipata dal controllo politico. La grande ondata dell’innovazione tecnologica ha sconvolto le due fondamentali dimensioni dello spazio e del tempo, le quali regolano tutta la nostra vita. Lo spazio si è infinitamente allargato, sbriciolando tutte le tradizionali identità territoriali, e il tempo si è accorciato, si è fatto incalzante e assillante, per cui ciò che conta non è la qualità della decisione, ma solo la sua velocità. La democrazia ne risulta spiazzata, perché essa consiste nel prendere tutto il tempo necessario per delle decisioni ponderate e consapevoli, ed è, d’altra parte, l’organizzazione di uno spazio, nel quale prende corpo una determinata comunità. L’idea democratica sopravvive come retorica, come cornice ideologica ormai scissa dai processi reali, e in questa retorica il primato della libertà, su cui si fonda la missione dell’Occidente, tende sempre più ad identificarsi con il primato del libero mercato. Il processo viene così rovesciato: non è un processo dal basso verso l’alto, non è la volontà popolare che legittima il potere, ma c’è solo un consenso che viene dato a posteriori, ed è il potere stesso che determina le condizioni di funzionamento del sistema politico. E soprattutto il luogo del potere, la sede delle decisioni, si sposta sempre più dal campo della politica a quello dell’economia, dando luogo ad una inedita gerarchia, e ad una violenta redistribuzione delle ricchezze. Il principio di eguaglianza, che è strettamente correlato all’idea democratica, viene del tutto travolto, e la nuova ideologia liberista si basa sull’assunto che le diseguaglianze sono il motore della crescita. Si afferma così un modello sociale che nega alla radice ogni principio universalistico, e che riproduce, su scala allargata, la logica delle caste, per cui non esistono diritti, ma requisiti di status, con l’ipocrisia di giustificare il privilegio con il merito.

Come democratizzare il sistema, questo è il problema oggi drammaticamente aperto. L’aspetto più problematico è sicuramente quello che riguarda il governo dell’economia. È in questo campo che si è prodotta la più vistosa strozzatura, con la rottura di ogni equilibrio nel rapporto tra capitalismo e democrazia. Tutto il tema della “democrazia economica” dovrebbe essere ripreso, rielaborato, posto su nuove basi, analizzando a fondo tutti i cambiamenti che sono intervenuti nella struttura produttiva, nell’organizzazione del lavoro, nel funzionamento dei mercati. È un tema che non abbiamo affrontato nella nostra ricerca, ma mi sembra indispensabile richiamarlo, e sollecitare il massimo impegno sia degli studiosi, sia dell’organizzazione sindacale, per individuare i possibili obbiettivi, le possibili piste di lavoro. Non possiamo certo rassegnarci all’idea che la democrazia si debba arrendere di fronte alla presunta oggettività delle leggi economiche, proprio perché essa può vivere solo come una forza di universalizzazione, e non può ammettere nessun limite a questa sua forza espansiva.

Sta proprio qui il limite irrisolto di tutta la costruzione politica europea, che ha tenuto separate le istituzioni politiche e la moneta, col risultato di non poter governare l’attuale emergenza finanziaria. La crisi dell’Europa fa quindi tutt’uno con il suo deficit democratico, con la mancanza di un’autorità politica legittimata dal consenso popolare. Il caso dell’Italia ha sicuramente delle sue specificità, delle sue criticità particolari, ma può essere compreso e inquadrato solo all’interno del più generale contesto europeo. L’Europa, che è stata la culla del pensiero democratico, ha ora il compito di restituire alla democrazia un senso, una prospettiva.

Naturalmente, l’orizzonte del nostro lavoro è più limitato e circoscritto. L’oggetto più specifico della nostra ricerca è la partecipazione politica, intesa come l’insieme degli strumenti e delle forme organizzate attraverso le quali si può esercitare un effettivo accesso al processo decisionale. Accanto a questa dimensione politica, c’è un’area assai vasta e variegata di cittadinanza attiva, c’è la rete dell’associazionismo e del volontariato, che costituisce una risorsa molto rilevante, ma che non incide direttamente sui processi politici. Si può forse ipotizzare una certa relazione tra lo sviluppo di questa rete e la crisi della partecipazione politica: l’impegno nel sociale come una soluzione alternativa, nel momento in cui sembrano essere bloccati i canali tradizionali della politica.

Sono stati soprattutto i grandi partiti di massa, nella nostra storia repubblicana, il fondamentale anello di congiunzione tra società e istituzioni, il luogo in cui la partecipazione popolare ha preso forma, dando vita ad una straordinaria mobilitazione dal basso, che ha fatto saltare gli antichi limiti della politica notabilare e aristocratica. Ora, tutta questa configurazione è entrata in crisi, a partire dagli anni ottanta, e questo declino si è via via accelerato, senza che si veda all’orizzonte nessun segno di ripresa. La ricerca non fa che confermare, sotto questo profilo, ciò che era già del tutto evidente, e tutte le testimonianze raccolte parlano di questa rottura, con un senso di perdita e anche di smarrimento. Ciò riguarda soprattutto, date le caratteristiche politiche della Toscana, l’evoluzione del PCI, le sue tortuose trasformazioni, fino all’attuale configurazione di una sinistra incerta nella sua identità e fragile nel suo radicamento sociale.

È chiaro che il movimento della storia non può procedere a ritroso, che dunque c’è qualcosa di irreversibile in questo mutamento. Non può avere nessun fondamento il proposito di ripristinare la forma politica del partito di massa, ma, d’altra parte, restano aperte diverse strade possibili, ed è ancora tutto da definire quale potrà essere nel futuro il ruolo dei partiti politici. Ciò che oggi si può dire è che si tratta di un problema insoluto, e che tutte le forme attuali sembrano avere i caratteri della provvisorietà, dell’incertezza, all’interno di uno sconvolgimento che non ha ancora trovato il suo punto di approdo. Ma il quadro di insieme, quale almeno risulta dalla realtà regionale indagata, non è quello di uno spirito pubblico definitivamente rassegnato e passivo, ma sono in atto diversi tentativi, diversi progetti, per riattivare un canale di comunicazione tra cittadini e istituzioni, spesso anche in contrapposizione e in polemica col sistema tradizionale dei partiti. In sostanza, non si può dire che la vitalità democratica si sia spenta, ma che cerca di sperimentare nuove vie, nuovi strumenti.

Il punto critico è dato dall’assenza, per ora, di un quadro istituzionale unitario che tenga insieme i diversi momenti, con la conseguente tendenza alla frammentazione, alla divaricazione, per cui da un lato il sistema dei partiti si chiude in se stesso, in una logica autoreferenziale, e dall’altro i nuovi movimenti restano ad uno stadio fluido, portatori più di un senso di protesta che di un nuovo progetto politico. È questo dualismo che deve essere superato.

In questo senso è molto interessante l’iniziativa assunta dalla Regione Toscana con la legge di sostegno alla democrazia partecipata, perché è il tentativo, il primo in Italia, di costruire nuovi canali istituzionali di partecipazione politica, con il coinvolgimento dei cittadini e dei loro momenti associativi, in un percorso decisionale strutturato, organizzato, regolato secondo precise norme procedurali. Per questo, abbiamo dedicato un ampio spazio della ricerca all’analisi della legge regionale, della sua applicazione, dei suoi risultati concreti. È una strada ancora perfettibile, ancora sperimentale, ma vale la pena, crediamo, di percorrerla con più forza e determinazione, proprio perché essa interviene esattamente nel punto critico dell’attuale sistema politico, nella frattura che si è aperta tra i cittadini e le istituzioni.

Per i partiti politici si tratta di una sfida che deve essere accettata, ed essi possono, in un nuovo quadro istituzionale, ridefinire il loro ruolo, non più come gli agenti esclusivi del processo democratico, ma come i regolatori di un sistema più articolato e complesso. La critica ai partiti, infatti, riguarda la loro pretesa monopolistica, che si esprime nella formula del “primato della politica”, riguarda cioè il loro essere strutture di potere e non strumenti di promozione democratica. Ma, nel contempo, va apertamente contrastata tutta la violenta campagna antipolitica, che rappresenta i partiti, tutti i partiti senza distinzioni, come una casta di privilegiati, come una sovrastruttura inutile e prepotente, negando alla radice la loro funzione. In realtà questi attacchi, al di là delle intenzioni, sono del tutto funzionali ai nuovi centri di comando, tecnocratici ed economici, che hanno tutto l’interesse a liberarsi definitivamente da ogni possibile intrusione della politica e da ogni possibile controllo democratico. Come spesso avviene, le più accanite forze anti-sistema finiscono per essere al servizio del sistema. L’antipolitica non è un antidoto alla crisi democratica, ma è l’acceleratore che porta questa crisi al suo definitivo compimento.

Ma il discorso sui partiti non può limitarsi alle affermazioni di principio, ma deve investire criticamente il loro modo di funzionare, le loro strutture, i meccanismi interni di selezione. L’unica invenzione innovativa, in questi ultimi anni, è stata quella delle primarie, le quali sono state praticate in un quadro teorico piuttosto confuso, senza distinguere tra incarichi direttivi di partito, per i quali dovrebbe contare solo il giudizio degli iscritti, e incarichi istituzionali, che per loro natura devono rispondere all’intera cittadinanza. Sulle primarie si confrontano diversi approcci, alcuni anche pregiudizialmente ostili. Io penso che possano essere uno strumento utile, ma è chiaro che la qualità democratica dell’azione politica non può ridursi a questo solo elemento. È tutta l’iniziativa politica, è tutto l’insieme delle scelte e delle decisioni che deve trovare le forme di una legittimazione dal basso, e le primarie, se non c’è questo contesto più generale, finiscono per essere solo un paravento, una mossa demagogica che lascia le cose come stanno. Perché non praticare, ad esempio, consultazioni referendarie su alcune fondamentali scelte programmatiche, senza che esse siano lasciate all’infinita e tortuosa mediazione all’interno dei gruppi dirigenti? Insomma, la democrazia non può ridursi alla scelta del leader, ma deve investire i contenuti concreti del progetto politico. Il vero oggetto del processo democratico non è chi decide, ma che cosa si decide.

Un altro essenziale aspetto da considerare è quello che riguarda la dinamica sociale, il rapporto tra i diversi strati della società. I partiti di massa hanno svolto una importantissima funzione di promozione sociale, selezionando una classe dirigente che veniva dalle più svariate esperienze. Per la sinistra, il punto di riferimento teorico era dato dalla classe operaia, in quanto forza motrice di tutto il processo di trasformazione, per il partito cattolico si trattava piuttosto di far valere le risorse popolari in una accezione più larga, ma in ogni caso c’era una visione non elitaria della politica, avendo chiaro che essa deve avere le sue radici ben piantate nella realtà sociale del paese, nella sua complessità, e deve costruire la democrazia come un processo di massa, aperto a tutti gli strati della società. La crisi dei partiti è anche, contestualmente, la crisi di tutti i meccanismi di promozione sociale. È questo il dato più allarmante e inquietante, come emerge anche da questa nostra ricerca. Si sta riproducendo una logica di classe, sia nei partiti sia nei movimenti, con una selezione a senso unico che riguarda solo il campo delle professioni, del “ceto medio riflessivo”, delle persone acculturate, mentre tutti gli strati che stanno alla base della piramide sociale sono spinti in una condizione di passività, di indifferenza verso la politica, e si trovano così esposti alle suggestioni del populismo e alla manipolazione mediatica. È impressionante, da questo punto di vista, come sia cambiata radicalmente la composizione sociale nel rapporto tra destra e sinistra. La linea di demarcazione non è più quella degli interessi, del conflitto sociale, ma è quella dei valori, dei principi etici, sganciati ormai da ogni concreta analisi sociale. E c’è quindi un vasto universo sociale che resta senza voce e senza rappresentanza.

Viene così intaccato il principio universalistico della democrazia, così come è definito dalla nostra Costituzione, che affida alla repubblica il compito di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della cittadinanza e della partecipazione politica. La sinistra dovrebbe ripartire da qui, perché qui è in gioco la sua stessa ragion d’essere. Su questo tema, invece, è caduta una cappa di silenzio, e quei pochi che intendono sollevare il problema vengono visti con sospetto, come i reduci di una vecchia ideologia classista e operaista. Mentre si sono fatti molti passi in avanti, almeno nelle dichiarazioni se non nei fatti, per riconoscere i diritti politici delle donne, delle minoranze, dei sessualmente diversi, e anche degli immigrati, la questione sociale continua a non essere nominata. La nostra ipotesi, al contrario, si basa proprio su una netta compenetrazione tra questione sociale e questione democratica, nella convinzione che esse necessariamente progrediscono o regrediscono insieme. La partecipazione va quindi declinata nella concretezza delle relazioni sociali, va inquadrata nel suo rapporto con la struttura di classe della società.

Abbiamo detto: partecipazione politica come partecipazione alle decisioni. Ma su quale scala, in quale spazio? Qui sta la difficoltà maggiore, perché il livello delle decisioni strategiche si è sempre più allargato ed esteso, fino a comprendere la stessa dimensione globale in cui sono immerse le nostre società, mentre i processi democratici, là dove riescono ancora ad essere attivati, si riferiscono ad uno spazio più ristretto, alla vita di una comunità, di un territorio, o di una singola nazione. Resta del tutto aperto e irrisolto il problema della democrazia nei grandi spazi del mondo globalizzato, di come riorganizzare tutto l’insieme delle istituzioni internazionali, di come dar vita, sulla scala mondiale, ad una cittadinanza consapevole e informata. Ci sono movimenti che hanno cominciato ad agire in questa prospettiva, ma c’è ancora un ritardo drammatico, e tutta la struttura dei soggetti politici e sociali continua ad essere ritagliata nella dimensione nazionale, con qualche debole momento di coordinazione, che non riesce però a produrre effetti politici concreti. Anche il sindacato si trova in questo passaggio critico e non è riuscito a compiere il salto necessario, non si è organizzato come una forza globale, in grado di incidere sui nuovi assetti di potere.

È un tema che esula dal nostro campo di ricerca. Ma, in ogni caso, il problema del livello della decisone deve essere affrontato, perché tutte le varie esperienze partecipative potranno avere un impatto più incisivo solo se hanno la forza di intervenire su una scala sufficientemente ampia, sui grandi nodi della riorganizzazione del territorio, sulle scelte che hanno una portata strategica, ed è proprio qui, a questo livello, che si incontrano le maggiori resistenze. Insomma, il rischio è che la democrazia partecipativa sia relegata nello spazio angusto delle scelte locali, dando vita così ad una micro-democrazia, che non va oltre i confini della piccola comunità territoriale. La stessa esperienza toscana evidenzia questo pericolo, questo limite, perché non è stata mai attivata la procedura del dibattito pubblico sulle grandi scelte urbanistiche e sui più rilevanti progetti di sviluppo. Con ciò, non intendiamo affatto sottovalutare la dimensione locale, nella quale si snoda la vita concreta di una determinata comunità, ma occorre ricordare che il locale non è un mondo chiuso, ma è attraversato dai grandi flussi della globalizzazione, dalle grandi scelte sull’uso del territorio, ed è a questo livello che deve poter funzionare un efficace processo di partecipazione democratica. Occorre quindi allargare il più possibile il metodo partecipativo, e fare di esso il cardine di un nuovo modo di governare. Questo chiediamo al governo regionale della Toscana, che ha avuto il merito di avviare un nuovo processo, e che può essere un punto di riferimento essenziale per tutta l’esperienza delle autonomie locali, se ha il coraggio di non fermarsi a metà strada, ma di sviluppare in modo coerente le premesse politiche e teoriche del nuovo modello.

Infine, quando si parla di democrazia, di partecipazione, tutti i soggetti sono chiamati in causa e devono chiarire il loro ruolo, il loro possibile contributo al processo democratico. Il sindacato, pensiamo, può essere un importante anello di congiunzione nel funzionamento di una democrazia organizzata. Ma questa non è una condizione data a priori, ma ha bisogno di una continua verifica, e di un lavoro sistematico, metodico, per attivare tutte le forme possibili di partecipazione. Anche il sindacato, senza questa capacità di mettersi continuamente in discussione, nel rapporto democratico con i lavoratori, può fossilizzarsi in una struttura di tipo burocratico, può divenire non una forza espansiva, ma un anello del sistema di potere. Per questo, mi sembra necessario un riesame critico attento di tutte le forme di concertazione, di negoziazione territoriale, per vedere come esse siano davvero capaci di produrre un livello più alto di partecipazione. Il tema è complesso. Di fronte all’esplicita volontà di superare la pratica della concertazione, e di negare il ruolo del sindacato come soggetto “generale”, mi sembra necessaria una proposta innovativa, per ridefinire i soggetti, i contenuti e le regole della concertazione, in una visione allargata, senza nessuna pretesa di monopolio, e in un rapporto attivo con tutta la rete dell’associazionismo democratico. Insomma, non può più funzionare una logica di tipo corporativo, una sorta di patto di potere tra istituzioni e confederazioni sindacali, ma occorre dar vita ad un processo democratico più ampio e più trasparente nei suoi contenuti e nelle sue regole.

Nel passato, il sindacalismo confederale aveva tentato di darsi delle strutture unitarie e rappresentative nel territorio, con i consigli di zona, che avrebbero dovuto integrarsi con i consigli di fabbrica. L’esperienza funzionò solo molto parzialmente, e alla fine fu lasciata cadere. Ma il problema acquista oggi un’attualità ancora maggiore, proprio perché, data la nuova struttura produttiva e dati i cambiamenti del mercato del lavoro, è sempre più il territorio il luogo delle decisioni strategiche, e anche il luogo del conflitto tra i diversi modelli sociali. Come diamo a questo conflitto legittimità democratica, trasparenza, capacità di rappresentanza? Il Sindacato dei pensionati può fare la sua parte, ma è chiaro che si tratta di un tema più generale, di un nodo che sta davanti all’intero movimento sindacale, il quale può reggere l’urto con la politica liberista solo se riesce ad essere il punto di riferimento organizzato che si mette al servizio di un domanda sociale diffusa, allargata, e se riesce a costruire un reale processo democratico.

È questo il tema che ci viene consegnato da questa ricerca, e sta a noi cercare le risposte, le soluzioni che siano coerenti con l’obiettivo di una matura democrazia partecipativa. A questo lavoreremo, aprendo un’ampia discussione e riflessione in tutto il corpo vivo della nostra organizzazione, e in un confronto aperto con tutto ciò che c’è di vitale nella società italiana ed europea.



Numero progressivo: V23
Busta: 32
Estremi cronologici: 2012
Autore: F. Bortolotti e C. Corsi (a cura di)
Descrizione fisica: Volume, b/n, 369 pp.
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Con bozza
Pubblicazione: Ediesse, Roma, 2012