LA FORZA CORROSIVA DELL’IDEOLOGIA NORDISTA

di Riccardo Terzi

Il nord è divenuto in questi anni una figura dell’ideologia, un crocevia di rappresentazioni simboliche. Non solo per effetto della mitologia padana, ma per la diffusione di una lettura della questione settentrionale che si focalizza nel disagio esistenziale del post-fordismo, nella rottura delle identità collettive e delle grandi narrazioni ideologiche del novecento, nel processo di individualizzazione e di sradicamento, di competizione sfrenata e di dissoluzione della comunità. Il risultato è una nuova condizione antropologica, di tipo heideggeriano, dell’individuo gettato nel mondo.

L’ideologia, quando è efficace, ha sempre un rapporto di verità con il processo reale, è la rappresentazione di tale processo. Ma ha anche sempre una finalità pratica, politica, è cioè un modo di prendere parte, di affermare come universale un punto di vista parziale. In questo senso, l’ideologia nordista ha funzionato come elemento corrosivo, come forza di destrutturazione delle identità politiche, come sistematica azione di smontaggio di ogni forma di coscienza collettiva.

La moderna “complessità” viene interpretata come una definitiva opacità e indecifrabilità del processo sociale, per cui non è più possibile un progetto politico consapevole in quanto esso non potrà che essere travolto dal particolarismo insormontabile degli interessi, delle posizioni date, dei poteri costituiti. L’unica possibilità che resta è il riconoscimento di questa rete polifunzionale e una politica di accompagnamento, la quale non potrà andare oltre una funzione di lubrificazione dell’intero sistema.

Il nord diviene così il luogo della spoliticizzazione, del particolarismo della società civile che si oppone all’universalismo della politica democratica, della frantumazione della cittadinanza in una pluralità di forme, di status, di corpi sociali, con un movimento di ritorno verso una struttura di tipo feudale. Ciò a cui assistiamo, dunque, non è la fine delle ideologie, ma l’incubazione di una nuova ideologia che ha come filo conduttore il progetto di una società diseguale. Con due varianti: la diseguaglianza del mercato come condizione naturale, come insopprimibile stato di natura rispetto al quale tutti i tentativi di compensazione e di risarcimento sociale messi in atto dalla politica costituiscono sempre una violazione delle libertà fondamentali, un atto di prevaricazione da respingere in via di principio. Oppure, la diseguaglianza dei territori, delle appartenenze, delle etnie, con il corollario mitologico di una nazionalità padana che deve difendersi da un qualche fantomatico nemico esterno (Roma, l’invasione islamica, il sud, la tecnocrazia di Bruxelles, tutto può servire, a seconda dei momenti, ad agitare lo spauracchio del nemico che attenta alle nostre libertà).

Alla fine queste due traiettorie, del mercato e della comunità etnica, si incontrano, perché la prima è la traiettoria reale e la seconda è solo la sua rappresentazione immaginaria. Il mito della Padania funziona infatti solo come proiezione ideologica degli interessi egoistici. Non c’è dunque nulla di innaturale nell’alleanza politica tra Polo e Lega, perché c’è una base comune, un fondamento sociale ed ideologico che ne garantisce la stabilità.

Potranno esserci tensioni e conflitti tattici, legati soprattutto alle esigenze differenziate delle élite politiche, ma non un rovesciamento del processo.

Ed è altrettanto naturale che il cuore strategico del centro-destra sia assunto, con sempre maggiore nettezza, da Forza Italia, che rappresenta le ragioni costitutive e di fondo della società di mercato.

La Lega è solo una variante, una particolare forma di adattamento, la cui funzione si viene progressivamente prosciugando, man mano che risultano nella loro chiarezza di fondo i termini reali del conflitto politico.

La tesi che voglio qui sostenere, sulla base di queste premesse, va esplicitamente in controtendenza rispetto alle analisi politiche correnti. La sinistra perde nell’area del nord non per un deficit di rappresentanza territoriale, ma per un deficit di politica nazionale. Perde non perché non ha capito il nord, ma perché non ha capito l’Italia. Non serve a nulla correre dietro ai miti dell’ideologia nordista e tentare di competere con la destra su questo medesimo terreno.

È un terreno segnato, segnato da quelle operazioni ideologiche di cui prima si è detto, e la sinistra recupera una sua forza politica autonoma non se si appropria di quegli schemi, ma se riesce a rovesciarli e ad indicare una diversa prospettiva. Per un confronto politico chiaro, possiamo fare riferimento alle tesi di Massimo Cacciari, che più di altri ha tentato coerentemente di appropriarsi dell’ideologia nordista e di progettare una sinistra del post-fordismo, una sinistra delle diversità, che parla agli individui sradicati e spaesati di questo nuovo paesaggio sociale ed antropologico.

Il punto critico di tale operazione è che non c’è nessun effettivo oltrepassamento di questa realtà chiusa e delle sue angustie individualistiche e localistiche. Quando si propone la “Costituzione” del Veneto, la cittadinanza veneta, la sostituzione dei partiti nazionali con soggetti di rappresentanza territoriale, entriamo in un orizzonte nel quale non c’è più la dialettica politica di destra e di sinistra, ma c’è solo la competizione dei territori.

E questa è esattamente la tesi della Lega: sinistra e destra sono le vecchie categorie novecentesche del conflitto di classe, mentre ora, con il federalismo, all’appartenenza sociale si sostituisce l’appartenenza· territoriale. In questa prospettiva, la sinistra non ha più nessuna ragion d’essere.

Non metto affatto in discussione la scelta di una riforma federalista dello stato. Ma il federalismo è solo uno strumento istituzionale che può essere usato per diversi fini, per diverse prospettive. Destra e sinistra si confrontano e si contrappongono all’interno della nuova cornice istituzionale federalista. Il federalismo quindi non è per la sinistra una carta d’identità sufficiente. Su questo terreno si sono realizzate alcune misure di riforma importanti, da difendere e da sviluppare ulteriormente, ma tutto ciò riguarda solo le condizioni istituzionali per un’azione politica ed amministrativa più efficace. In sostanza, una sinistra che al nord si muove solo su questo terreno non risolve affatto la sua crisi di identità, ma anzi la fa precipitare. Né bastano coordinamenti del nord, riforme organizzative del partito, autonomie territoriali, tutte cose che possono essere utili, per una politica meglio aderente alla realtà, e quindi più efficace, ma che non toccano il cuore, politico e strategico, della nostra crisi. Il quale riguarda non questo o quel territorio, ma la dimensione nazionale della nostra politica.

Quindi, io aggiro il tema preso in esame, e lo riconduco dentro una visione politica più generale. Penso, in sintesi, che la sinistra del nord avrà una funzione se riesce a costruire una saldatura del nord con la dimensione nazionale, e che sia quindi un errore continuare ad aggirarsi intorno al tema della questione settentrionale vista come questione a sé, separata, di rappresentanza territoriale. Non è una soluzione, ma è un vicolo cieco.

Il problema della sinistra è quello di sottrarsi ad un processo di dissoluzione, che è in atto. È una dissoluzione strutturale, in quanto sono saltati i luoghi sociali, i punti di forza della rappresentanza di classe, e ci troviamo ad agire oggi in un panorama sociale del tutto nuovo e largamente inesplorato. Ed è una dissoluzione ideologica, perché non disponiamo di una teoria politica, di una interpretazione della realtà, e ancora non ci siamo liberati delle macerie del cataclisma politico e storico della fine del novecento. Il punto politico da decidere è il seguente: accettare la dissoluzione e collocarci altrove, oltre i confini della sinistra, nell’Ulivo, in una prospettiva non più socialista ma liberal-democratica, oppure ricostruire le basi per una politica autonoma della sinistra.

Questo sarà il nodo del congresso dei Ds. Nella realtà del nord questo processo dissolutivo è pienamente dispiegato, e assume diverse forme, e dall’insieme di queste forme esce il risultato di una sinistra residuale, che non ha più in se stessa le ragioni della sua esistenza. Crisi di identità, dunque, come più volte si è detto, chiarendo che l’identità non è un requisito astratto, una carta metafisica dei valori, ma è la funzione storica, è il fatto di aver chiara la propria missione nelle condizioni storiche date.

Una forma della dissoluzione è esattamente nel processo prima descritto, nell’inseguimento di una vocazione territoriale sulla base di quell’ideologia nordista che rappresenta costitutivamente una negazione delle ragioni della sinistra. Una seconda forma è l’idea dell’Ulivo come unica risorsa strategica, mentre i partiti sono solo una sopravvivenza del passato. Non c’è bisogno di forzare i tempi, di realizzare ora il partito democratico, basta lasciare libero corso al processo reale che è in atto, il quale agisce, se non ci sono fatti politici nuovi, nel senso di questa prospettiva di svuotamento dell’autonomia della sinistra. Infine, la dissoluzione può assumere anche la forma dell’appiattimento della sinistra sull’immediatezza della rappresentanza sociale. È una suggestione oggi presente nel dibattito politico, e che si traduce nell’idea di una sinistra “di servizio”, braccio politico del sindacato o, secondo un’altra versione, braccio politico dei movimenti antiglobalizzazione. Qui la dissoluzione consiste nel fatto che si dissolve la dimensione autonoma della politica, e anche questo si inscrive, in ultima istanza, in quella configurazione ideologica che vede la modernità come spoliticizzazione, come primato della società civile. Nel processo politico reale queste diverse forme si sono intrecciate: federalismo, più Ulivo, più sindacato. Nessuno di questi pezzi costituisce una politica, una strategia. Sono elementi di un processo complessivo di disarticolazione della cultura politica della sinistra, della sua autonomia, del suo esistere in funzione di un progetto politico generale.

Per questo, io penso che abbiamo davanti a noi un lavoro di vera e propria ricostruzione: ricostruzione di uno spazio pubblico, di una dimensione autonoma della politica, e di un progetto di società. Ricostruzione vuoi dire che non abbiamo già oggi tutti i materiali disponibili, che non sono sufficienti formule politiche generiche, affermazioni di principio, che dunque la stessa scelta dell’autonomia della sinistra viene messa alla prova nel lavoro concreto, nella capacità di riattivare un processo reale, che coinvolge i soggetti sociali, e di riaprire i canali oggi ostruiti della partecipazione democratica.

Il nord è da questo punto di vista un campo decisivo di sperimentazione, e qui è certamente necessario fare i conti politici con le trasformazioni sociali in atto, e misurarsi con tutta la letteratura sociologica che ha studiato questa trasformazione, depurandola degli schemi ideologici che spesso la deformano.

La sinistra deve ripartire da qui, non solo dal lavoro, ma dall’intreccio complesso di lavoro, impresa, territorio, sapere, per declinare politicamente il rapporto tra questi diversi elementi. Non una sinistra che occulta il conflitto sociale e parla d’altro, né una sinistra che si confina in un ruolo angusto, di tipo parasindacale. E questa ricostruzione non può essere realizzata solo localmente, da un partito che sia ormai solo la sommatoria di élite locali, ma essa richiede una politica nazionale, e ancor più una politica sovranazionale ed europea, per costruire un nuovo equilibrio tra le diverse aree del paese e per chiarire il ruolo dell’Italia nella vicenda mondiale.

La destra ha lavorato sul nord, ha introiettato gli umori antistatali ed antipolitici della società post-fordista, ha inglobato la cultura eversiva del leghismo, ma non si è fermata a questo stadio, e vince nel momento in cui riesce a prospettare una politica nazionale. Oggi essa si presenta con un suo progetto, con una sua cultura politica, con un’idea della nazione. La politica lavora sui materiali esistenti, sugli interessi, sugli umori della pubblica opinione, sugli spezzoni ideologici, sui conglomerati di potere che si sono di fatto costituiti, ma deve sempre riassorbire tutti questi elementi in una sintesi più alta.

Il movimento da realizzare è dunque in due direzioni: verso il basso, verso l’articolazione reale e concreta della società, per conoscerla, per rappresentarla, per interagire con i processi reali, e verso l’alto, per riassumere tutto questo lavoro di base in un progetto politico nazionale. Noi siamo oggi deboli su entrambi i fronti. La sinistra ha perso sia il rapporto con la realtà molecolare della società italiana, sia la capacità di produrre una sintesi politica. E questi due processi vanno realizzati insieme, da un partito che vive di un continuo processo di rimando, di comunicazione, dal particolare al generale, dall’immediatezza sociale alla politica. Un partito, appunto, non un comitato elettorale, non uno staff del leader, non una rete di boss locali.

Ricostruire l’autonomia della sinistra significa in primo luogo costruire il partito politico. È questo il primo passo. E sotto questo profilo dovremo valutare le prossime decisioni politiche dei Ds e delle altre forze della sinistra italiana.



Numero progressivo: C34
Busta: 3
Estremi cronologici: 2001, 1 settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Democrazia e diritto”, 1 settembre 2001, pp. 47-51