LA CULTURA DELLA RAPPRESENTANZA DELLE FORZE SOCIALI DI FRONTE AL MUTAMENTO DELLA SOCIETÀ

Seminario CNEL 25 gennaio 1994

Relazione Riccardo Terzi – CGIL Lombardia

Posso integrare quello che ha detto Cofferati – integrare perché condivido pienamente l’impianto e il tipo di analisi che Cofferati ci ha proposto -. Io partirei da un problema che mi pare fosse il punto di partenza di qualche incontro precedente e cioè se l’evoluzione del sistema politico e istituzionale è destinata a determinare la messa in crisi della funzione di rappresentanza, questo passaggio alla seconda repubblica fa saltare una serie di luoghi intermedi, si stabilisce un rapporto diretto tra cittadini da un lato e nuove forme del sistema politico, mettendo in crisi – questa mi pare fosse l’ipotesi – quella funzione del fare rappresentanza.

Vorrei partire da qui perché arriverei a conclusioni un po’ diverse. Intanto cosa c’era prima? Come funzionava il sistema della prima repubblica? Le forme della rappresentanza sociale erano forme deboli, nel senso che vi era una sorta di colonizzazione da parte dei partiti politici. C’era un sistema per cui al centro c’è il partito e poi una serie di organismi collaterali e ogni partito aveva il suo, un sistema di collateralismo attorno alla democrazia cristiana come principale partito di governo, c’era un sistema analogo sul versante dell’opposizione di sinistra. Ma i vari soggetti della rappresentanza sociale erano i soggetti ad autonomia controllata e limitata.

Nel passaggio a un nuovo ordinamento si restringono o si allargano gli spazi possibili della rappresentanza? Io credo che sia possibile tentare di guidare questa evoluzione dalla prima alla seconda repubblica in un senso di allargamento degli spazi della rappresentanza sociale, e non è detto che sia così, ci sono delle controtendenze in atto. Però questa è un’operazione possibile. Nel momento in cui si allenta la presa dei partiti su un sistema istituzionale e sulle forme della rappresentanza, si può prefigurare un disegno di riforma istituzionale che sia un disegno che metta capo a un sistema di autonomie, a un sistema di poteri nel quale ciascuno dei diversi livelli istituzionali ha una sua autonoma sovranità, non il partito che media sempre, che è elemento generale di mediazione; non un sistema per cui il consociativismo è obbligatorio, perché nulla si decide se non sono d’accordo tutti, perché tutti hanno diritto di veto, il consociativismo non era soltanto una tendenza politica, era insito nelle modalità di consolidamento delle istituzioni. Un sistema istituzionale di autonomie, quindi un governo autonomo, con una sua forza decisionale non dipendente dagli umori del Parlamento, una distinzione tra funzioni di rappresentanza politica e funzioni di governo, le autonomie regionali e territoriali, in questo ambito anche una più forte autonomia delle rappresentanze sociali.

L’operazione da fare, rispetto al sistema precedente, mi pare sia quella, da un lato di rendere più forti e autorevoli i singoli poteri istituzionali, avere uno Stato con un suo sistema forte e dall’altro lato irrobustire le rappresentanze della società civile. Possiamo riuscirei o meno, ma non mi pare questa un’operazione persa in partenza.

In questo contesto, la possibilità di ridare fiato alla rappresentanza sociale è una possibilità aperta. Io lego questo a un discorso di autonomia del sindacato, l’evoluzione politica è l’occasione per conquistare davvero un’autonomia, non per cercare nuovi collateralismi, di provare un’altra scelta. Si va verso un sistema bipolare, ci riposizioniamo, stabilendo dei collateralismi con i nuovi soggetti della politica io credo che non sarebbe un’operazione sbagliata, credo ci sia bisogno di conquistare una vera autonomia del sindacato come soggetto sociale e in rapporto a questo l’unità sindacale. Unità e autonomia sono due facce dello stesso processo: l’una è la prova dell’altra.

In questa direzione noi ci siamo mossi. È un’iniziativa di questi giorni in Lombardia delle tre direttive regionali che hanno posto con molta forza questo traguardo dell’unità, motivato cosi: un traguardo di unità e di autonomia da perseguire a tempi brevi. Se va avanti una tendenza di questa natura, si va verso una poliarchia, un sistema di poteri, di funzioni, di istituzioni …

Anche io sono d’accordo che in questo contesto, con questo tipo di sistema vanno poi cercati dei momenti di concertazione e non il consociativismo nel senso che dicevo prima, per cui tutti devono essere d’accordo, tutti si occupano di tutto, col risultato di avere spesso la paralisi, o comunque di avere tempi di decisione lunghi. In molti casi c’è una determinata scelta, c’è bisogno che si sia d’accordo, la regione, la provincia, il comune, la circoscrizione, i partiti, il sindacato, basta che qualcuno metta qualche bastone nell’ingranaggio e il meccanismo si ferma e comunque i tempi della decisione diventano tempi lunghissimi.

Occorre avere dei poteri sovrani, in grado di decidere anche velocemente e cercare momenti di concertazione. Nell’autonomia, tra il ruolo istituzionale e politico e il ruolo delle organizzazioni sociali vanno cercati dei terreni di confronto, dei tavoli di confronto.

Io non direi “il” patto sociale, direi “i” patti, le intese che possono essere fatte su singole questioni. Il patto sociale non capisco bene cosa sia, come categoria dello spirito. Invece capisco bene cosa vuol dire l’utilità e la necessità di singoli momenti in cui si concordano degli obiettivi, si concordano delle procedure per raggiungere determinati obiettivi. Quindi tavoli di concertazione ai vari livelli.

È stata ricordata l’esperienza lombarda, un’esperienza eccessivamente enfatizzata, in realtà siamo molto più indietro di quanto dovremmo, siamo agli inizi, però l’ispirazione è questa, avere una metodologia di confronto, di rapporti con i vari interlocutori, sia istituzionali che imprenditoriali, e ora c’è un tavolo triangolare regionale, che forse può diventare anche qualche cosa di più organico, almeno così noi riterremmo utile, una sorta di CNEL lombardo, perché i problemi di una società, di un sistema territoriale complesso sono dei problemi che richiedono necessariamente una sinergia tra i diversi soggetti, e richiedono che si ragioni in termini di sistema, che si vedano le varie interconnessioni. Se ogni soggetto si muove separatamente, persegue i propri fini legittimi, ma senza vederne le interconnessioni generali, il sistema entra in crisi.

C’è bisogno di avere tavoli di concertazione che possono essere fatti su molti problemi. L’elenco possibile dei temi, delle questioni da affrontare, da risolvere a questi tavoli è molto ampio. Sono problemi che riguardano le politiche territoriali; le politiche della formazione, le politiche ambientali, possiamo mettere molta carne al fuoco, si tratta di vedere se riusciamo a portare il sindacato: vincendo delle remore ideologiche ormai davvero vetuste, a entrare in un’ottica di questa natura.

Il secondo aspetto: la territorializzazione. Una logica conseguenza di quanto prima ho detto e concordo con le osservazioni fatte da Sergio Cofferati. C’è una dimensione duplice: da un lato la dimensione europea, come dimensione da costruire, da esplorare, per quanto riguarda l’iniziativa sindacale, dall’altro c’è una dimensione territoriale, di sistemi territoriali che non coincidono esattamente con quelli che sono oggi i confini delle istituzioni. Per comodità parliamo di regionalismo, poi non so se le regioni devono essere queste venti o probabilmente vanno riorganizzate in modo più sensato, ma sicuramente ci sono dei sistemi territoriali che richiedono una loro autonomia, pretendono giustamente una loro autonomia dal governo centrale e potranno funzionare sempre meglio e in modo più efficace quanto più riescono ad autogestirsi, autogovernarsi, trovare al proprio interno i meccanismi di regolazione.

E per il sindacato c’è una riforma organizzativa, ma prima ancora che organizzativa di impostazione mentale, non ancora fatta. Abbiamo ancora una organizzazione fondamentalmente centralistica. C’è da lavorare perché si creino, si aprano questi spazi di autonomia, la possibilità, nei territori di fare iniziativa sindacale, nel senso di rappresentare peculiarità e caratteristiche territoriali e di tentare delle forme di accordo, di concertazione con nostri interlocutori.

L’ultima osservazione che vorrei fare è questa: io credo che il problema della rappresentanza oggi si presenta più complicato perché alla domanda che cosa si rappresenta, chi rappresentiamo e che cosa rappresentiamo non è più molto agevole dare una risposta.

In che senso le cose si presentano oggi più complicate? La risposta è meno evidente. Fino a qualche tempo fa, quale fosse la funzione di rappresentanza del sindacato era una cosa visibile, che non richiedeva particolari ragionamenti. Oggi abbiamo una serie di cambiamenti che mettono in crisi o comunque rendono problematica questa funzione e richiedono un aggiornamento dell’azione del sindacato. Non tanto il fatto che, come si dice spesso c’è un mondo del lavoro più differenziato, perché il mondo del lavoro è sempre stato molto differenziato, non è una novità di oggi; mettere assieme i diversi segmenti del mondo del lavoro è sembrata un’operazione complicata, fin dagli inizi del movimento operaio. Oggi c’è quello che ricordava anche Sergio, che viene meno una centralità, fino a poco fa, al di là delle differenze c’era una figura centrale, che in qualche modo era il punto di riferimento per tutti, era la figura centrale dell’operaio di fabbrica, la centralità della grande fabbrica, della grande impresa industriale e su quel modello, con gli adattamenti possibili si organizzava il resto del mondo del lavoro. Oggi è proprio quella figura che è sconvolta dai processi che stanno avvenendo, che cambia e non c’è più. Viene meno la funzione della grande fabbrica, cambiano i sistemi produttivi, cambiano le figure professionali, c’è un punto per cui oggi la complessità sociale si presenta in modo più evidente che non in passato e dire, come giustamente diciamo, che noi vogliamo salvare il carattere di confederalità, non seguire la strada della frantumazione corporativa, che cosa possa essere nel concreto la confederalità è un problema aperto.

Io sono convinto che dobbiamo trovare modelli organizzativi molto più flessibili, non soltanto nel senso delle autonomie regionali e territoriali, ma anche nel senso di avere una struttura organizzativa capace di organizzare, di fare emergere le differenze. Non vedere sempre come corporativo ciò che legittimamente afferma una sua diversità. C’è bisogno di avere una capacità di rappresentanza che tenga conto di un mondo del lavoro articolato.

Oltre a questo c’è un punto più di fondo, che cambia il peso che ha il lavoro nella identità individuale e collettiva, quindi noi, quando organizziamo i lavoratori, li organizziamo esclusivamente nella loro dimensione lavorativa? Come figura sociale che lavora o affrontiamo una gamma di bisogni e di esigenze che va oltre la dimensione del lavoro? C’è un cambiamento in questo senso, mentre prima c’era una coscienza di etica del lavoro, di coscienza di classe per dirla con connotazioni ideologiche diverse, che era un elemento forte di coesione, oggi il lavoratore è anche lavoratore, ma è anche tante altre cose, è cittadino, è consumatore; si presenta con una gamma di bisogni e questi bisogni vengono scaricati anche sulle organizzazioni rappresentative che non sempre riescono poi a selezionare, a rappresentare queste diverse esigenze.

Io credo che il sindacato, per un verso è costretto ad andare oltre le proprie funzioni classiche: se vuole rappresentare lavoratori non può occuparsi soltanto di quello che succede nel luogo di lavoro. Il problema del lavoratore è certo quello della sua condizione di lavoro, ma anche della sua condizione sociale complessiva, quindi temi come quelli del sistema fiscale, dei servizi sociali, della sua condizione di fronte al funzionamento complessivo della società sono questi che non possiamo eludere, anche se su questi temi agiscono altri soggetti. Non può essere il sindacato a fare tutto. Io credo molto a una cooperazione, a una collaborazione stretta tra il sindacato e altri soggetti della società civile, che si occupano di altri aspetti: dalle organizzazioni dei consumatori alle organizzazioni che si occupano dei problemi dei servizi sociali e così via. C’è bisogno di una rete di collaborazione, di un reticolo di collaborazione con i vari soggetti della società civile.

Io credo che se queste sono le tendenze possibili, io penso che il CNEL possa avere, nel prossimo futuro una funzione rilevante, continuando sulle linee che ha cercato di seguire in questa ultima fase; se riesce a muoversi in queste direzioni, da un lato avere un’articolazione territoriale – e qui i patti territoriali, non essere tutto concentrato in questo palazzo romano -, un’apertura a nuovi soggetti, quindi non soltanto alle forme classiche della rappresentanza, ma le varie forme dell’associazionismo che rappresentano questa ricchezza e articolazione dei bisogni e poi tentare di avere un ruolo attivo di concertazione, di autoregolazione sociale, non tutto dipende dalla politica, c’è uno spazio molto grande di intesa possibile tra diversi soggetti della società civile e il CNEL può essere il punto di coordinamento e di sollecitazione in questa direzione.


Numero progressivo: C6
Busta: 3
Estremi cronologici: 1994, 25 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CNEL -