LA CRITICA DELLA RETORICA PROGRESSISTA

Leopardi, gli italiani, l’Italia - Convegno della Fondazione G. Di Vittorio
Recanati 7 ottobre 2011

Intervento di Riccardo Terzi

È questa, a mia conoscenza, l’unica iniziativa dedicata al ruolo di Leopardi nella storia d’Italia, ed essa quindi è particolarmente meritevole, perché copre una grave lacuna del tutto ingiustificata, e attraverso la lettura e l’interpretazione di Leopardi riusciamo ad illuminare di nuova luce tutta la nostra storia nazionale.

Leopardi e l’Italia: come si configura questo rapporto? È un rapporto conflittuale e controverso. Nello stesso atteggiamento spirituale di Leopardi convivono due movimenti divergenti, da un lato un autentico e vivissimo slancio patriottico, dall’altro la cruda percezione delle arretratezze, delle angustie e dei particolarismi che impediscono la formazione di una matura coscienza nazionale. Leopardi ci rappresenta una storia di decadenza e di corruzione dello spirito pubblico, e il suo patriottismo è la domanda, ansiosa e radicale, di un riscatto, di un rinnovamento generale. Come in Machiavelli, l’ideale politico è quello della grande tradizione repubblicana, e si avverte drammaticamente lo scarto tra un passato glorioso e un presente dominato dagli opportunismi e dal calcolo egoistico delle convenienze. Ma, mentre Machiavelli affida la rinascita all’iniziativa politica, all’audacia di un “principe”, per Leopardi non è la politica la forza risolutiva, ma c’è piuttosto la necessità di un lavoro di ricostruzione culturale, operando sul linguaggio, sul recupero di una tradizione, sul senso di appartenenza ad una comune storia di civiltà.

Per questo suo approccio critico, per la sua insofferenza verso le retoriche ufficiali, verso l’ottuso ottimismo progressista, Leopardi non rientra nella ricostruzione della nostra storia patria, non è riconosciuto come uno dei padri fondatori, perché in effetti la storia ha seguito una diversa traiettoria, e l’Italia che si è realizzata non è l’Italia sognata da Leopardi. Non è quindi affatto casuale che di Leopardi non si sia parlato nelle celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale. Se l’obiettivo è l’esaltazione retorica dell’italianità, delle sue virtù, del suo orgoglio, se l’idea è quella di una storia tutta ascendente, progressiva, che c’entra il pessimismo leopardiano, il suo sguardo disperato sulla nostra condizione moderna?

La figura di Leopardi è una presenza scomoda nella nostra cultura nazionale, una presenza che non si lascia inquadrare nelle rappresentazioni ufficiali, nell’immagine che l’Italia vuol dare di se stessa. Egli è nello stesso tempo troppo e troppo poco italiano. Troppo, perché ha un’idea altissima della missione culturale dell’Italia, in un rapporto di netta contrapposizione sia al sentimentalismo enfatico e artificioso che contraddistingue la moda romantica, sia alla freddezza illuministica e razionalistica della cultura francese. Il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, nel quale si sviluppa una violenta polemica contro le nuove correnti letterarie, si chiude con una ardente dichiarazione patriottica. È all’Italia che spetta la missione esclusiva di impedire l’imbarbarimento culturale della modernità e di salvare la grande tradizione classica. Nello stesso tempo, si può dire che l’Italia di Leopardi ha poco a che fare con la sua realtà effettiva, perché si tratta di un modello ideale, di una sublimazione della grande cultura classica, di quell’equilibrio ormai spezzato in cui potevano convivere saggezza e forza vitale, adesione alla natura e impulso creativo delle illusioni. Il patriottismo di Leopardi trascende la contemporaneità, e si colloca in una diversa dimensione, culturale e antropologica, con una fortissima carica critica verso tutto il processo della modernizzazione e verso i suoi esiti dissolutivi. L’Italia non è affatto messa al riparo da questa involuzione, non è un’eccezione virtuosa, ma sta tutta immersa nel generale processo di decadenza della modernità. Per Leopardi, dunque, l’Italia è un passato da riscoprire, ed è un futuro possibile, tutto da costruire e da reinventare, ma non ha nessuna consistenza nel presente, perché il presente è solo il regno della mediocrità e del servilismo.

Ecco perché l’italianità di Leopardi resta inattuale, incompresa, e il suo pensiero viene sostanzialmente rimosso o travisato. Leopardi viene ricordato solo come il grande poeta infelice, secondo una interpretazione tipicamente romantica, riconoscendo in lui solo quella sovrabbondanza del sentimento, che in realtà era l’oggetto della sua furiosa polemica contro la nuova moda letteraria. Viene messa del tutto in ombra la sua statura di pensatore, di filosofo, di analista politico e sociale. Leopardi è così accolto nella misura in cui viene depotenziato, circoscrivendo tutta la complessità della sua opera alla sola dimensione poetica. Il suo pensiero è allora solo la proiezione di un esacerbato senso lirico, e non va considerato per il suo contenuto, per la sua ricerca di verità, ma solo come il materiale esistenziale di cui si nutre lo slancio creativo del poeta.

Questo è stato il tratto dominante, il modo in cui Leopardi è stato percepito dalla nostra coscienza collettiva. Ma non mancano alcune eccezioni. La più rilevante è rappresentata da Emanuele Severino, che ha dedicato uno studio ponderoso all’opera filosofica di Giacomo Leopardi, vedendo in lui il più acuto e profondo pensatore dell’epoca moderna, non solo dell’Italia, ma dell’intera cultura occidentale. Per Severino, la grandezza di Leopardi sta nel fatto che egli porta alle ultime ed estreme conseguenze tutto il corso del moderno pensiero filosofico, rendendo esplicito il nichilismo come suo unico e coerente punto di approdo. È una lettura parziale, che aderisce in modo funzionale a tutta l’architettura del pensiero filosofico di Severino, ed essa, nonostante le sue forzature, ha finalmente il merito di parlare di Leopardi come di una figura eminente della storia del pensiero, prendendo sul serio la sua complessa e travagliata riflessione teorica. Si capovolge così il giudizio corrente: in Leopardi il pensiero non è un materiale informe che prende il suo senso nella poesia, ma è la stessa poesia che è messa al servizio di una ricerca di verità, e non la si può comprendere senza uno sguardo di carattere filosofico.

Un’altra lettura contro corrente era stata proposta da Cesare Luporini nel suo famoso “Leopardi progressivo”, la cui prima stesura risale al lontano 1947. Qui è ancora più evidente la forzatura interpretativa, perché l’idea di “progresso” è del tutto estranea al pensiero di Leopardi, è anzi apertamente criticata e rifiutata, perché non c’è nella storia un movimento ascendente, rettilineo, e modernità non significa progresso, ma piuttosto decadenza e dissoluzione di quell’equilibrio su cui si era fondata la civiltà degli antichi. Il “progressismo” di Leopardi consiste solo nel fatto che egli non considera più possibile una restaurazione delle passate illusioni, ma sceglie di misurarsi con la moderna razionalità filosofica, non essendoci ormai aperta nessuna altra via se non quella di affrontare con fermezza le verità scomode e terribili che sono il frutto della ragione. In questo, Leopardi non è un passatista, un reazionario, ma sta tutto all’interno del pensiero moderno, ma nel contempo di questa modernità vede per tempo, e lucidamente, tutte le contraddizioni e le criticità, senza nutrire nessuna illusione sul nostro destino futuro. Nella lettura di Luporini non si coglie tutta la complessità di questa posizione e viene sostanzialmente negato il valore “filosofico” del pensiero di Leopardi, che viene infatti definito come un grande “moralista”, riproponendo così una delimitazione molto parziale della sua opera e della sua personalità, e privilegiando una curvatura “morale” che poco si attaglia al crudo realismo delle analisi leopardiane.

Leopardi, dunque, resta una figura isolata, senza eredi. La cultura ufficiale lo ha confinato in uno spazio ristretto, vedendo in lui solo il caso estremo di una disperata angoscia esistenziale. Una “vita strozzata”, dice Benedetto Croce, il che equivale a dire una vita che non ha mai raggiunto la sua pienezza e la sua maturità. Se dovessi individuare un possibile erede, l’unico nome che mi viene alla mente è quello di Carlo Michelstaedter, altra figura rimossa dalla nostra storia ufficiale, e non penso, a sostegno di questa affinità, alla tragicità dell’esistenza, al suicidio precoce di questo giovane intellettuale goriziano, ma al suo rapporto così forte e intenso con la cultura classica, al suo pensare in greco antico, come un contemporaneo di Platone e di Aristotele.

“Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d’esser vita.” (“La persuasione e la rettorica”). È un pensiero tipicamente leopardiano, in cui si vede la vita come un perenne tendere verso qualcosa che non può mai essere raggiunto.

Ci avviciniamo così a capire meglio le ragioni dell’incomprensione che ha circondato la figura di Leopardi. Leopardi è un pensatore radicale, in un paese che ama le mezze misure e le mezze verità. Ed è un pensatore non accademico, per il quale la filosofia non è erudizione, ma è una ricerca che mette in gioco la nostra vita. Non c’è in lui nessuna scissione tra vita e pensiero. Ma è proprio questa la condizione propria dei grandi pensatori, ciò che li differenzia dall’infinita schiera degli interpreti e dei commentatori di pensieri altrui. E nella recente storia italiana c’è solo Gramsci che abbia la sua stessa forza morale. Leopardi è radicale nel senso letterale del termine, perché va al fondo, alla radice delle questioni, e ne tira tutte le possibili conseguenze. Mentre lo spirito pubblico nazionale si rispecchia nel buon senso e nella religiosità tollerante di Manzoni, e la sua opera è divenuta come un compendio della saggezza popolare, dei luoghi comuni, delle frasi fatte, Leopardi, all’inverso, non concede nulla al senso comune, e ci spinge sempre ad andare oltre, oltre l’apparenza, oltre le convenienze, oltre le false sicurezze di una tradizione ossificata. Manzoni e Leopardi: sono due mondi culturali, due diversi modi di guardare la realtà della vita e la realtà dell’Italia. Nella nostra identità nazionale c’è, dall’inizio, questa frattura, questa alternativa di pensiero radicale e di pensiero moderato, ed è una frattura che ancora non si è ricomposta.

Ho già chiarito in che senso si può parlare del “radicalismo” di Leopardi, non dal punto di vista politico, ma dal punto di vista del pensiero e del suo rigore. Il tentativo di “politicizzare” l’eredità di Leopardi, di piegarla a destra o a sinistra, è del tutto privo di senso. Come è per tutti i grandi pensatori, egli è sempre un passo avanti rispetto alle nostre domande. Non si lascia rinchiudere in una definizione, in una formula, ma oltrepassa tutte le nostre correnti classificazioni. Abbiamo citato le interpretazioni di Luporini e di Severino, le quali vedono solo un lato, ma non l’insieme. Concordo invece con Franco Cassano, che significativamente titola il suo studio su Giacomo Leopardi “Oltre il nulla”, per dire che il nulla non è la sua ultima parola, ma restano sempre aperti dei varchi. Cassano riassume la posizione di Leopardi in questa formula: “non mentire né rassegnarsi”, ovvero vedere lucidamente la nullità del mondo, ma a questa nullità reagire, per ritrovare il senso di un comune destino. In realtà, in Leopardi non c’è un’ultima parola, ma c’è una continua e irrisolta tensione tra natura e ragione, tra verità e illusione.

Il suo razionalismo vede con lucida radicalità il precipizio in cui può affondare la razionalità umana: la fine delle illusioni trascina con sé la fine di ogni fondamento etico e il trionfo del freddo calcolo individuale. L’età della ragione non è un’età di liberazione umana, ma di dissoluzione del tessuto sociale, e tutte le promesse del “secolo dei lumi” si sono capovolte, dando luogo ad un mondo di egoismi e di crescente violenza. Ma Leopardi non passa nell’altro campo, non partecipa all’ondata irrazionalistica e romantica, ma resta ben saldo sul terreno del rigore razionale, resta un illuminista, un illuminista tragico, ma non disposto a cedere alle lusinghe di un pensiero misticheggiante. È importante, in questo senso, tutta la sua polemica con i romantici, la sua critica del patetico e del sentimentale come fondamento della poesia, a cui contrappone la semplicità e l’adesione alla natura. Il movimento romantico, nei suoi aspetti sia letterari che filosofici, è una fuga dalla realtà, un rifugiarsi nell’immaginario, nel mistico, nell’irrazionale, ma per questa via non si possono rinnovare le antiche illusioni, ma si produce solo una finzione, che non ha più nessun rapporto con la vita reale. Noi siamo uomini della modernità, della razionalità dispiegata, e non possiamo fingere di stare in un mondo diverso da quello in cui ci troviamo ad abitare. Il nostro compito, questo mi sembra essere il messaggio di Leopardi, è quello di portare alle sue ultime conseguenze l’analisi critica di questa nostra razionalità moderna, per ritrovare infine, toccato il fondo di questa critica, le ragioni possibili di una nuova solidarietà umana.

La critica della modernità fa tutt’uno, in Leopardi, con la critica dell’individualismo, che viene visto come il frutto avvelenato di tutto il moderno processo storico e come il segno più evidente della generale decadenza delle virtù civiche, le quali si reggono su un rapporto di identificazione del singolo con la comunità. Il suo modello politico resta quello delle antiche repubbliche, da Atene a Roma, dove è forte il vincolo collettivo, dove esistono grandi personalità proprio perché è forte il tessuto sociale e ciascuno si riconosce in un’impresa comune. In questo, l’idea repubblicana si distingue da quella democratica, perché la democrazia può convivere con l’individualismo, e spesso appare solo come la sommatoria degli interessi individuali. Si può dire che per Leopardi la democrazia non è una ragione sufficiente, una garanzia di vitalità e di coesione, e in questo egli coglie per tempo tutta la fragilità delle democrazie moderne, proprio perché esse mancano di una interna connessione e si sfrangiano nell’infinito particolarismo degli interessi individuali o di gruppo.

Qui si inserisce un punto critico, perché questa idea di comunità solidale è, per Leopardi, del tutto incompatibile con l’universalismo cosmopolitico, da lui ferocemente avversato. L’amore universale tra gli uomini è solo una favola, che serve come copertura ideologica dell’egoismo, della guerra di tutti contro tutti. C’è comunità solo se c’è separazione, se c’è un noi che si contrappone agli altri, se c’è un legame concreto, e non l’astrattezza di una solidarietà infinitamente allargata. Oggi facciamo fatica a condividere questa impostazione, perché è ormai matura e consolidata l’idea di un diritto universale. Ma della diffidenza di Leopardi occorre tenere conto, perché vediamo ancora oggi come l’universalismo venga spesso usato strumentalmente, per legittimare operazioni di dominio e di potenza, per giustificare quelle che non si chiamano più guerre, ma “missioni di pace”. È questo un tema del nostro tempo, e non serve cercare in Leopardi delle anticipazioni. È il tema del rapporto tra globalizzazione e identità territoriale, tra ciò che unisce e ciò che separa, tra ciò che è comune e ciò che deve restare nell’ambito dell’autonomia delle singole comunità. Oggi viviamo in uno spazio che si è dilatato, in un rapporto di interdipendenza che lega tra loro le diverse parti del mondo, ma resta pur vero che le forme dell’identità politica restano ancorate al territorio, all’eredità culturale, alla storia vissuta, e non possono essere riassorbite e vanificate dentro un unico e astratto contenitore universale.

Il discorso di Leopardi parte dall’Italia, dalla sua arretratezza politica, dalla mancanza di una dimensione nazionale unitaria, ma si allarga ben oltre i nostri confini, perché la forza corrosiva del processo di individualizzazione è una tendenza generale, che investe tutto il mondo civilizzato. Sono rilevanti tutte le sue riflessioni sul rapporto dell’individuale e del collettivo. In una pagina dello Zibaldone, parlando dell’uso del coro nella tragedia greca, egli scrive: “tutto quello che viene dalla moltitudine è rispettabile, bench’ella sia composta di individui tutti disprezzabili.”

E più avanti: “le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d’amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata.” È una delle più radicali affermazioni del primato del noi sull’io. E l’immagine non è quella amorfa della massa, ma è quella del coro, nel quale l’individuo non si dissolve, ma è parte attiva e consapevole di un’azione collettiva.

È un totale rovesciamento rispetto alle tesi che si affermeranno più tardi nella cultura europea, da Kierkegaard, per cui solo il Singolo ha valore, e la Folla è il principio del male, a Nietzsche che elabora la teoria del superuomo. In questa evoluzione del pensiero filosofico si rispecchia la definitiva affermazione dell’individualismo nella società moderna. Ma è proprio l’individualismo estremo, assunto come unico criterio regolatore della vita sociale, che produce infine lo svuotamento della vita individuale, il suo essere in balia delle potenze anonime, le quali fissano a priori i rigidi confini del possibile e del desiderabile. Come spiega lucidamente Adorno nei “Minima moralia”, l’individualismo dispiegato ha come effetto la perdita dell’autonomia della persona, perché la persona si realizza solo nel rapporto con l’altro. È questo oggi un tema cruciale, su cui occorrerà una più approfondita discussione. In una società sempre più percorsa da processi di individualizzazione, ha ancora un senso la critica di Leopardi, e c’è ancora uno spazio per una esperienza di tipo “corale”? Io credo che Leopardi abbia visto per tempo il destino di fallimento a cui va inevitabilmente incontro il modello della società individualista. Se l’unica logica operante è quella dell’interesse individuale, la società si avvia verso il suo disfacimento, verso il suo crollo. E noi ci troviamo oggi esattamente in questo punto, nel passaggio storico in cui non regge più il sistema di vita che è stato fin qui dominante. Torna la necessità di un’appartenenza comune, di una meta collettiva, anche se può trattarsi ancora una volta solo di una illusione.

Ora, tutto il discorso di Leopardi sulla “strage delle illusioni” può essere efficacemente attualizzato, e ci aiuta ad illuminare il nostro presente, dopo il crollo delle grandi costruzioni ideologiche del Novecento. Anche in questo caso non c’è un esito di liberazione, ma ci troviamo in una condizione di impotenza, presi nella morsa di una necessità che non lascia più nessuno spazio all’immaginazione, all’ideazione di un futuro possibile. Il mondo post-ideologico ci lascia nel vuoto di un’esistenza priva di senso.

Illusioni o ideologie, si tratta in fondo dello stesso fenomeno, dello slancio verso una meta ideale, e dello svuotamento che si produce nel momento in cui quello slancio si dimostra del tutto vano, privo di fondamento. Una volta svelata la fallacia delle illusioni, non è possibile nessun ritorno all’indietro, perché le illusioni funzionano solo se resta nascosto il loro carattere illusorio. Ma è nella natura dell’uomo continuare a cercare, e non rassegnarsi al vuoto, al nulla dell’esistenza. Perché, “oltre il nulla”, si può sempre trovare una ragione di vita, si possono ricercare nuovi significati e nuove mete. L’importante è essere in cammino, anche se non è chiaro verso dove. In questo cammino abbiamo bisogno di una razionalità critica, per non prendere degli abbagli, per vedere fino in fondo il punto di crisi a cui siamo giunti, e per non lasciarci trascinare dalla corrente del senso comune, che ci inchioda in una adesione passiva alla realtà. Leopardi può essere una guida in questa ricerca, non perché ci offra una risposta, ma perché ci costringe a dubitare di tutte le risposte, non per la sua attualità, ma proprio per il suo essere inattuale, per il suo sforzo di guardare oltre i confini del tempo. È la guida ideale per chi sa che non c’è più nessuna guida possibile.


Numero progressivo: L21
Busta: 9
Estremi cronologici: 2011, 7 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Gli argomenti umani” marzo 2012. Pubblicato in “Leopardi, gli italiani, l'Italia”, a cura di E. Montali, pp. 99-107, Ediesse, Roma, 2012. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Leopardi, gli italiani, l’Italia”, pp. 297-306