LA CGIL VERSO IL 12° CONGRESSO

Milano – Camera del Lavoro 2 maggio 1991
Confronto pubblico tra:
Federico Butera – Presidente RSO
Gianprimo Cella -Vice Presidente Fondazione Seveso, Ordinario Sociologia Università di Brescia
Alberto Martinelli – Preside della Facoltà di Scienze Politiche Università di Milano
Michele Salvati – Ordinario di Economia Politecnico di Milano
Carlo Smuraglia – Ordinario di Diritto Università di Milano
Riccardo Terzi – Segretario generale CGIL Lombardia
Coordinatore
Sergio Veneziani – Segretario generale aggiunto CGIL Lombardia

PREMESSA DI SERGIO VENEZIANI

Il Congresso della CGIL non può essere vissuto solo come un avvenimento interno, che pur coinvolgendo dirigenti, iscritti, attivisti non trova modo di rapportarsi con la società, con il mondo democratico.

Per questo attribuiamo grande valore alla prima di queste occasioni che abbiamo voluto realizzare qui a Milano per confrontarci, senza remore, con studiosi e ricercatori di varie discipline, così come sono interdisciplinari i documenti che la CGIL, tutta la CGIL, ha predisposto per il proprio 12o Congresso.

È questo solo l’avvio del confronto con la società civile e con il mondo accademico; solo perché siamo al debutto, risulta meno problematica l’assenza di Bruno Trentin, impegnato da una non rinviabile convocazione da parte del Governo sul difficile tema della politica economica.

Altre occasioni seguiranno; possiamo già annunciare quella con l’Università di Pavia del 21 maggio p.v., e riteniamo di poter programmare un momento di sintesi e di confronto diretto che coinvolga la segreteria generale della CGIL.

I testi che riportiamo, rappresentano una sintesi degli interventi, che per ragioni di tempo, non sono state riviste dagli autori.

Sesto San Giovanni, 15/5/1991

 

RICCARDO TERZI

Mi sembrano due le ragioni fondamentali che giustificano il confronto odierno: la prima è che per un sindacato che vuole essere non corporativo ma sindacato generale è essenziale la più larga comunicazione con la società, con le forze della cultura.

La definizione della linea politica della CGIL non vuole soltanto difendere gli interessi di un determinato segmento sociale, ma invece interviene nel processo sociale complessivo. In secondo luogo, perché le tesi per il nostro congresso le intendiamo come un documento aperto, come la base per una discussione e per un lavoro successivo che dovrà essere completato entro il congresso nazionale: per cui abbiamo interesse a raccogliere contributi, suggerimenti, critiche per poter lavorare alla stesura definitiva.

Mi limito ad indicare una traccia per la discussione.

Una prima questione riguarda la natura del sindacato e le sue prospettive. Con i documenti del congresso, in particolare con il primo documento, con il programma fondamentale, noi cerchiamo di affrontare il problema dell’identità della CGIL, di ridefinirne l’identità stessa.

A me sembra che ci siano tre ragioni di fondo che ci costringono a ripensare al ruolo del sindacato. La prima sta nelle cose: in questi anni si è operata una destrutturazione delle tradizionali identità collettive. Non esiste più, come nel passato, un tessuto sociale omogeneo a cui corrispondeva anche un cemento ideologico unitario, una identità di classe così come l’abbiamo conosciuta negli anni passati; si passa da questa unità di classe alla differenziazione crescente dei bisogni soggettivi, al riconoscimento delle diversità. Da qui la scelta, che nel nostro documento programmatico è centrale, di caratterizzare la CGIL come il sindacato dei diritti, cioè un sindacato che si rivolge non a una massa indifferenziata ma alle persone concrete.

Il secondo aspetto: una nuova dislocazione dei poteri.

I processi di internazionalizzazione dell’economia per un verso, il nuovo ruolo non soltanto economico ma sociale e politico della grande impresa, tutto ciò sposta le sedi della decisione e quindi anche l’azione del sindacato deve collocarsi in una nuova ottica, in una scala più ampia. In questo senso a me pare molto centrale nella nostra linea di ricerca la caratterizzazione del sindacato come sindacato europeo, nel senso che questo è il livello obbligato per affrontare i problemi dell’iniziativa sindacale.

Il terzo aspetto mi pare possa essere così rappresentato: vi è un processo vario e tumultuoso di crescita della società civile; si presentano sulla scena nuovi bisogni di partecipazione, di democrazia, con caratteristiche anche molto variegate. Tutto ciò è evidente sul terreno politico dove c’è un problema di crisi del sistema politico tradizionale ed un marcato bisogno di riforma, nella direzione di una più diretta partecipazione dei cittadini alle scelte politiche.

Nell’impresa abbiamo una crisi del vecchio modello gerarchico autoritario della fabbrica fordista, ed emerge il tema della democratizzazione dell’impresa, di nuove forme di partecipazione dei lavoratori. Infine lo stesso problema si presenta nel sindacato stesso; da qui la crisi del sindacalismo confederale così come si è storicamente espresso negli anni passati, l’esigenza di sbloccare i meccanismi democratici nel sindacato e di superare elementi di burocratizzazione che si sono determinati, sostituendoli con un più diretto rapporto tra sindacato e lavoratori. Quindi il tema della democrazia appare un tema centrale sia per quanto riguarda il rapporto tra sindacato e iscritti, sindacato e lavoratori, che per quanto riguarda l’esigenza di un’azione più ampia di democratizzazione della società nei suoi vari aspetti.

Sono le soluzioni ipotizzate le risposte giuste, i punti centrali sui quali lavorare.

Aggiungerei molto rapidamente alcune questioni più specifiche sulle quali mi pare abbiamo ancora bisogno di un approfondimento. La prima riguarda il rapporto con l’impresa; quell’insieme di questioni che attengono al tema della democrazia economica, della democrazia industriale, delle relazioni sindacali.

Abbiamo tentato con questo congresso di innovare almeno in parte la nostra impostazione culturale, di andare oltre una concezione, una pratica che si affida soltanto ai rapporti di forza, per definire le regole del conflitto, per costruire un processo di riforma democratica delle imprese. Emerge qui la possibilità di una nuova dimensione dell’iniziativa sindacale, anche perché il vecchio modello autoritario gerarchico non funziona più, entra in crisi, si pongono nuovi bisogni di partecipazione e di consenso del lavoratore.

Un secondo problema, anche legato all’attualità, è quello della politica dei redditi. Noi abbiamo valutato criticamente una certa esperienza che c’è stata in Italia e in altri paesi, che affidava la politica dei redditi e il controllo sulla distribuzione del reddito a meccanismi di regolazione centralizzata.

Ci sembra che questi meccanismi non abbiano funzionato e che anche tendenzialmente negli altri paesi europei si ridiscutono queste esperienze.

Io indico soltanto dei punti che eventualmente il dibattito arricchirà: le questioni della politica fiscale, che resta un punto chiave per un controllo sulla dinamica dei redditi, per avere una redistribuzione del carico fiscale e il problema della contrattualizzazione del rapporto di lavoro nel settore pubblico.

Per ultimo la scelta per l’unità sindacale, considerando necessario -non solo possibile -per essere all’altezza dei nuovi compiti un rilancio dell’unità come problema dell’oggi, non solo come prospettiva per il secolo futuro.

Ma questa è una valutazione realistica? Davvero è possibile?

Credo possibile rimettere in discussione le vecchie divisioni, aprire una nuova stagione dell’unità sindacale.

Questa traccia molto generica non pretende di fissare una griglia stretta per gli interventi, ma è solo qualche spunto di stimolo al loro contributo.

 

GIANPRIMO CELLA

Ho analizzato la copiosa elaborazione per il Congresso della CGIL, utilizzando le mie conoscenze storiche nella CGIL, per ricercare gli elementi di rottura e quelli di continuità.

È presente sia nel programma che nelle tesi il tema dell’identità.

Una prima osservazione rispetto ai termini utilizzati a partire dall’elemento distintivo che è il nome di ogni organizzazione: Confederazione Generale del Lavoro.

È sul termine generale, che nei documenti è associato a sindacato, che bisogna soffermarsi. Questa definizione storica si è sempre accompagnata, nella vita della CGIL, con due contrastanti preoccupazioni.

Da un lato il timore di una linea politica caratterizzata da particolarismi, intendendo richiamare il pericolo di corporativismi.

Per far fronte a ciò è elemento di continuità nella politica della CGIL un grande sforzo di proposizione generale.

L’altro aspetto costante delle preoccupazioni della CGIL riguarda il timore del distacco dalla base, la preoccupazione per la democraticità della vita nell’organizzazione.

Su questo tema le risposte esprimono la grande preoccupazione del gruppo dirigente ma non riescono ancora ad identificare un percorso proceduralizzato.

Ho apprezzato l’uso del termine “sindacato grande”, anche se dietro ad esso possono nascondersi più significati.

Non può riproporsi l’idea di una classe generale capace di interpretare l’interesse generale.

La classe generale non esiste più e senza la classe generale è un po’ difficile parlare di interesse generale.

Accanto a un sindacato generale si articola l’idea di sindacato dei diritti.

Qui il timore riguarda la forte enfatizzazione dei diritti e non, invece, la coniugazione con i doveri.

In Italia è presente particolarmente il problema della gestione dei diritti, non la necessità di affermazione degli stessi.

La mia analisi è poi proseguita per verificare come le due preoccupazioni iniziali, lotta ai particolarismi e al pericolo di distacco dalla base, fossero tradotte in politica rivendicativa.

Su questi aspetti va espressa condivisione ed apprezzamento per le proposte avanzate.

Resta il rammarico di una maturazione della CGIL tardiva ed il dubbio in merito all’evitabilità delle divisioni politiche e sindacali della metà degli anni 80.

L’opzione della politica dei redditi, appare con evidenza quale elemento di divisione all’interno della CGIL.

Ma anche tra i sostenitori della politica dei redditi gli elementi condizionanti indicati come vincolanti sono tanti e tali da renderla impraticabile.

Una politica di regolazione salariale deve essere centrale per la sua natura; può essere realizzata più o meno bene, con maggiore o minore consenso, ma per realizzarla occorre seguire questo schema.

Appare quindi incoerente richiamare la necessità e al tempo stesso pretendere che il sistema contrattuale debba essere decisamente incentrato attorno alla contrattazione sui luoghi di lavoro. Questo sarà interessantissimo, nobilissimo, ma le due cose non vanno d’accordo. Se si sceglie una strada non è necessario abbandonare la contrattazione sui luoghi di lavoro, ma un’affermazione rigida come quella presente nei documenti della CGIL non può accompagnarsi con una ristrutturazione decisa della contrattazione che favorisca la contrattazione sui luoghi di lavoro.

Ad un certo punto si usa addirittura anche questo termine metaforico, si dice: spostare il baricentro contrattuale verso i luoghi di lavoro. Questo, lo ripeto, è contraddittorio con l’affermazione, con la scelta della politica dei redditi.

La mia impressione è che la seconda preoccupazione, quella del distacco dalla base, abbia avuto più peso della prima.

Il timore del distacco dalla base impedisce una coerenza eccessiva, necessaria sulle scelte politiche, sulle scelte in politica sindacale.

Debbo dire che il documento della minoranza sviluppa un quadro di analisi che secondo me è inaccettabile e forzato anche se lineare.

Le tesi della maggioranza invece sono frutto di un’analisi molto bella. Su alcuni punti c’è un quadro sul quale non ci si può che riconoscere; però mi sembra di rilevare notevoli tortuosità e qualche incertezza.

Un’osservazione finale sul tema dell’unità. Su questo tema nel documento della maggioranza ci sono affermazioni importanti, è la parte del documento forse più calibrata, mentre nel documento della minoranza, addirittura su questo punto si registra una chiusura totale. La minoranza sostiene che oggi il pluralismo nel movimento sindacale si propone come un fatto ineliminabile; è sbagliato ritenere ineliminabili le divisioni tra le confederazioni.

Innanzitutto non condivisibile, ma anche sbagliato, perché il sindacalismo generale o il sindacalismo confederale per sua natura sarà un sindacalismo unitario. Il che non vorrà dire che non ci saranno altri tipi di sindacato, ma non più divisi sulla base delle tradizioni politiche, sindacali, ecc., ma sulla base del fatto che gli uni saranno generali e confederali e gli altri saranno particolaristi, di destra e di sinistra, ma sindacati particolaristi.

Il pluralismo sopravvivrà, ma il sindacalismo generale, per sua natura il sindacalismo confederale una volta cadute le vecchie divisioni politiche non può che essere unitario.

Questa affermazione nelle tesi della minoranza è una forzatura ideologica pesante.

 

CARLO SMURAGLIA

Sia pure molto rapidamente, io vorrei formulare all’indirizzo di questi documenti una puntualizzazione, un interrogativo e una critica. La puntualizzazione riguarda una parte di cui si è già occupato anche Cella e che mi pare veramente importante, che è quella dell’indicazione della CGIL come sindacato dei diritti. Ma qui forse bisogna andare un po’ più in profondità e chiarire ancora di più qualche concetto, posto che l’intuizione e l’affermazione mi sembra assolutamente corretta.

Ha ragione Cella quando dice che l’elenco dei diritti ormai non serve più, e non serve più perché è stato già fatto, anche come ordine di priorità. Nel tempo la catalogazione dei veri e propri diritti si è arricchito, oggi abbiamo idee abbastanza precise al riguardo, e queste sono presenti nel documento. Oggi è utile porre il problema di come garantire, più che l’esistenza di certi diritti, la loro effettività. Una delle indicazioni del documento che trovo positiva sta nel fatto che una garanzia di effettività la CGIL la trova nel fatto stesso che questi diritti vengano collegati, cioè che i diritti tipici collegati al fenomeno lavoro non siano isolati ma siano inseriti in un contesto più vasto di carattere più generale. Per cui allora il tradizionale diritto al lavoro, alla remunerazione giusta, alle condizioni di lavoro genericamente intese si saldano al diritto, alle condizioni complessive, alla qualità complessiva della vita, al diritto all’informazione, al diritto all’ambiente, al diritto alla salute, e così via. In una parola: diritti di cittadinanza.

Non esistono diritti neutrali, l’affermazione e la garanzia di effettività di qualunque diritto è sempre uno scontro di assetti di potere. Faccio un esempio concreto: all’ Alfa Romeo di Arese è sorto un problema negli ultimi anni relativamente alle condizioni di lavoro nel reparto verniciatura dal quale escono fumi che si spargono nel territorio.

Le istituzioni e gli organismi preposti hanno svolto un’attività, peraltro abbastanza modesta, per costruire una soluzione e per evitare il rischio di immissioni moleste pregiudiziali per l’ambiente e per il diritto alla salute dei cittadini. L’Alfa Romeo ha presentato un progetto totalmente inadeguato per tutelare adeguatamente l’una e per l’altra cosa, cioè la salute, lavoratori e l’ambiente di vita. Ecco un esempio tipico in cui la battaglia per l’effettività del diritto dei lavoratori a determinate condizioni di lavoro e dei cittadini a non essere inquinati, se riesce a saldarsi, come è stato nel caso Alfa riesce a dare dei risultati, mentre se si determina contrapposizione probabilmente non ne otterrebbe nessuno. Ecco dove comincio ad intravvedere una garanzia nel solo fatto di collegare il complesso dei diritti di cittadinanza in un contesto sostanzialmente unitario.

Ma si pone accanto a questo anche un altro problema, questa volta anche di cultura giuridica. C’è un dibattito in corso da anni sulla stessa funzione del diritto del lavoro, si dice da non poche parti che il diritto del lavoro tradizionale, protettivo della cosiddetta parte più debole, ha fatto il suo tempo perché ormai il livello minimo di garanzie è stato raggiunto, d’ora in avanti bisogna lavorare in altre direzioni anche perché l’epoca delle rigidità è superata e si va sostituendo con l’epoca dell’elasticità e delle flessibilità.

Su questo occorre una parola chiara: che cosa pensa la CGIL su questa tematica, che vuol dire difendere ancora lo statuto dei lavoratori, sviluppare lo spirito dello statuto dei lavoratori piuttosto che ipotizzare altre soluzioni? Pensare ancora ad una tutela rigida o pensare -come dicono alcuni giuristi non certo della CGIL -che certe rigidità sono di troppo e finiscono per affondare l’impresa? Sono temi sui quali bisogna prendere posizione, e credo che la posizione corretta oggi sia quella che il livello di garanzia che è stato raggiunto fino a questo momento, anche sul piano giuridico, non può e non deve essere né abbandonato né diminuito. Non c’è problema di compatibilità a mio parere che possa eliminare le garanzie, che son tutte frutto di lotte intense e di reiterate conquiste dei lavoratori. Semmai bisogna andare più in là, anche qui su un terreno di effettività; rendendosi conto del fatto che -questo sì -la sola protezione del lavoro garantita con norme giuridiche di carattere rigido può non bastare in una società nella quale ormai conta non soltanto la disciplina del lavoro ma la disciplina dei servizi, del sistema economico.

Abbiamo infatti realizzato un’esperienza ormai clamorosa: acquisire una serie di norme protettive del lavoro femminile, che pur in sé avevano una validità, non sono bastate se accanto a queste non si realizzano interventi che incidano sui servizi, quindi che creino opportunità diverse per le donne, perché altrimenti con la semplice garanzia protettiva non riusciamo a salvaguardarle.

Nuove forme di lavoro più elastiche, meno rigide di quanto avvenisse nel passato possono richiedere un intervento protettivo ancora più forte proprio perché espongono maggiormente il lavoratore a diverse conseguenze nella sua attività.

Non ho sviluppato una critica ma una puntualizzazione, appunto perché bisogna assumere un orientamento chiaro in questa direzione anche sul grande tema che sta affrontando da anni la cultura giuridica.

Accanto al concetto di effettività, accanto al concetto di tutela anche rigida di alcune garanzie, bisogna introdurre quel concetto che peraltro nel documento c’è e che va sviluppato -delle azioni positive, non soltanto nella direzione della specificità del lavoro femminile ma per tutti i nuovi tipi di lavoro che si vanno affermando e che vanno sostenuti, appoggiati e garantiti non solo sul piano dell’attività repressiva e puramente garantista in senso stretto, ma anche con una serie di interventi di carattere positivo affinché essi siano in ogni momento tutelati e garantiti nelle forme più ampie e più complesse.

Il secondo rilievo corrisponde ad un interrogativo. Ho trovato diverse volte in questi documenti una parola che in genere, almeno per me, richiede sempre una precisazione, una puntualizzazione molto chiara, per questo parlo di interrogativo. Cioè ho trovato qua e là il concetto di codeterminazione: desidero capire che cosa intende la CGIL quando parla di codeterminazione.

Abbiamo consolidato una certa tradizione ed abbiamo usato una terminologia varia negli anni, inventando, anni addietro, certi termini che parevano contraddittori: la partecipazione conflittuale o la conflittualità partecipativa.

Codeterminazione significa una svolta rispetto a certi atteggiamenti tradizionali? Significa una scelta di fondo o significa una delle soluzioni possibili?

Perché anche qui il problema dell’assetto dei poteri in azienda, in fabbrica, negli uffici e nel territorio è un problema ancora una volta non neutrale. Crediamo che ci siano le condizioni per arrivare a chiedere forme partecipative senza contropartite? Crediamo cioè che sia possibile realizzare un sistema in Italia che assomigli a certi sistemi tedeschi, dove la contropartita peraltro c’è? E allora scegliamo chiaramente questa strada sapendo anche che essa ha dei costi. Oppure riteniamo ancora che vi sia da battersi sul terreno prima di tutto del controllo, della richiesta, dell’intervento delle scelte?

La codeterminazione potrebbe essere rivendicata, per esempio, solo per alcune materie, le ristrutturazioni o le innovazioni tecnologiche. Nell’uno e nell’altro caso certe forme di codeterminazione possono essere utili e importanti. Se si intende questo bisogna precisare bene che il primo atto è il controllo, che il secondo in certi casi può essere la scelta di partecipare a forme più intense, anche di scelte congiunte o di codeterminazioni, però indicando chiaramente da un lato che il sindacato oggi come oggi non è disposto a contropartite, o indicando quali eventualmente è disposto a pagare.

Su questa ipotesi è indispensabile che contemporaneamente il sindacato indichi la strada che intende seguire per attrezzarsi. Partecipare alle scelte in materia di innovazione vuol dire avere una consapevolezza anche di ordine tecnico e culturale enorme, perché altrimenti tra chi detiene elementi per compiere delle scelte, sorretto anche da analisi tecniche, e chi invece questi elementi li deve basare sulle intuizioni, evidentemente non ci potrà essere codeterminazione alla pari ma si rischia sempre, in qualche modo, l’involontaria subordinazione.

Il punto da chiarire gira intorno a questi tre concetti: controllo, codeterminazione limitata ad alcuni aspetti, eventuali ristrutturazioni e innovazioni tecnologiche, attrezzatura tecnica del sindacato accelerata condotta su un piano molto forte e avanzato, senza di che converrebbe attenersi soltanto al terreno puramente rivendicativo.

La terza considerazione è critica. Trovo il documento fortemente squilibrato sul piano delle condizioni di lavoro. Cioè mi sorprende che su questo terreno più che qualche indicazione relativa alla sicurezza del lavoro o alle condizioni di lavoro, nel documento non si riesca ad espiare altro. Faccio un paragone addirittura banale, c’è una tesi dedicata al problema delle molestie sessuali in fabbrica: due pagine. Non voglio ridurre quelle due pagine, ma mi allarma il fatto che evidentemente ci sono delle compagne che hanno posto con forza questo tema, e hanno fatto bene, ma mi colpisce che non ci sono state altrettante compagne/i che hanno posto con tanta forza il problema della sicurezza del lavoro in modo che almeno le due pagine se le guadagnasse anche questa tematica che è vastissima.

Il sindacato non può permettersi di commuoversi quando c’è la tragedia di Ravenna e poi scrivere un generico riferimento nel suo programma o nelle sue tesi al fatto che le condizioni di lavoro vanno garantite, in momenti in cui ci sono delle scadenze legislative importanti.

La CGIL deve ricordare che è dal 1979, cioè da 11 anni che si sta aspettando un testo unico della sicurezza del lavoro. C’è un progetto -buono o cattivo, di ciò si può discutere redatto al termine dei lavori della commissione Lama, e il sindacato deve porre questo come una questione di priorità nel confronto con il Governo.

La tematica sul delegato alla sicurezza, ormai avanzata a livello di Parlamento, e il sindacato deve assumere questo tema per attrezzarsi rapidamente.

Il governo italiano è impegnato da una legge ad attuare entro il 31 dicembre cinque indicazioni della Comunità economica europea in materia di sicurezza di lavoro, e che non è irrilevante sia il modo con il quale questi impegni vengano assunti, colmando un immenso ritardo, ma anche come vengono assunti. Si possono recepire le direttive della Comunità europea tout court, e per noi su qualche punto questo rappresenterebbe un passo indietro … avvalendoci del fatto che le norme comunitarie rappresentano sempre un minimo rispetto al quale ogni stato conserva e sceglie le strade più avanzate che ha già raggiunto? Questo il sindacato non può fare a meno di darlo come indicazione molto precisa e puntuale.

Bisogna dire con chiarezza che noi ci troviamo in un paese nel quale in questo momento i vecchi e tradizionali rischi del lavoro -cioè il difetto di ottemperanza a norme elementari, cioè le operaie che si tagliano le mani in certe stampatrici oppure quelli che muoiono in una nave a Ravenna in cui mancano tutte le norme di sicurezza -si stanno saldando da tempo coi nuovi rischi.

Dobbiamo dire con chiarezza che l’innovazione tecnologica non può svolgersi a danno della salute e sicurezza dei lavoratori e dobbiamo mettere in campo tutta la forza del sindacato perché su questo terreno anche un lavoro di acquisizione culturale sia fatto al più presto per individuare le strade di questa iniziativa e di questa azione così diversa. Perché nel momento in cui sappiamo che tristemente sta riprendendo a crescere la curva degli infortuni sul lavoro, e sta crescendo enormemente la curva delle malattie da lavoro -non quelle tabellate, quelle che sono collegate comunque al lavoro -è chiaro che a questo dobbiamo dedicare un impegno prioritario e una parola anche tecnicamente e culturalmente valida.

Che l’Italia non abbia una legge sui videoterminali è una cosa stravagante, che un bravo pretore di Torino debba indicare lui che cosa si deve fare con una sua sentenza in questo campo, e il primo documento serio che c’è in Italia è la sentenza del pretore Guariniello di Torino.

Il sindacato deve dire che i video-terminali non giovano alla salute, ma deve dire che non giova alla salute lavorare in certi uffici con l’aria condizionata, deve dire che le malattie da stress per inadeguamento del lavoro di fronte alle innovazioni tecnologiche stanno crescendo in maniera spaventosa, e deve dire che tutto questo è tematica prioritaria del sindacato.

E qui ritorna il tema iniziale; in una delle sue idee basi, la legge di riforma sanitaria parlava sempre di tutela delle condizioni negli ambienti di lavoro e di vita. E una indicazione preziosa perché ripropone la saldatura fra gli interessi di quelli che stanno dentro la fabbrica e quelli che stanno fuori, e di quelli che stanno nella fabbrica e poi escono e corrono gli stessi rischi degli altri cittadini. Soprattutto noi che abbiamo sperimentato come questo avviene perché siamo vicini a Seveso, di cui quasi tutti si sono dimenticati, sappiamo che questa è una tematica importante perché può accadere che gli stessi rischi colpiscano indifferentemente gli uni e gli altri. Credo che questa parte debba essere estesa, ampliata, irrobustita, con indicazioni e impegni molto precisi.

 

MICHELE SALVATI

Anch’io, leggendo questo documento, ho avuto impressioni simili a quelle che ha avuto – almeno inizialmente – Gianprimo Cella, nel senso che è un documento amplissimo, di lettura non facile.

Seconda osservazione che mi è venuta da fare è che fino a un certo punto mi sono domandato: ma questo è un programma fondamentale o sono delle mozioni congressuali di un sindacato o di un partito politico? Nel senso che qui ci si occupa proprio di tutto, dai Curdi fino al Mezzogiorno, alla politica estera.

So di dire una cosa che a molti di voi forse non fa piacere, ma ho un’idea pur restrittiva di sindacato generale, anzi di confederazione generale del sindacato: di un sindacato che tutela i diritti dei lavoratori e di coloro che si trovano involontariamente disoccupati.

È abbastanza chiaro che una piccola estensione dei compiti prevalenti può essere condotta” a tutti i campi dell’azione politica. Credo però che dovrebbe essere preoccupazione e cautela del sindacato, specialmente in un momento in cui insiste sull’autonomia e il distacco rispetto alle appartenenze partitiche, evitare di identificare il suo essere sindacato generale con la struttura, i compiti, le ambizioni di un partito politico.

Poiché in questo momento mi sto occupando di programmi di un partito politico, trovo molte analogie fra le elaborazioni CGIL e un possibile programma di un partito politico.

Credo utile una piccola regolazione, un piccolo riaggiustamento di tono.

Non necessariamente occorre avere una posizione su ciascun avvenimento politico; talvolta gli iscritti e i militanti avranno un orientamento in quanto membri di una collettività politica più grande. Ci sono molte questioni che anche con la nozione più generale di sindacato, più nobile, più alta, meno corporativistica, possono essere lasciate ai partiti politici.

Reputo necessario sviluppare una discussione più dettagliata punto per punto.

Vorrei oggi prendere molto brevemente quattro o cinque temi e dire alcune frasi lapidarie e semmai provocatorie per la discussione, senza approfondire troppo per mancanza di tempo.

Punto primo, il Mezzogiorno. Questo è un tema che è ripetuto moltissime volte nell’ambito del documento, esprimendo un insieme di cose sensate e ovvie che dovrebbe dire un partito politico sul Mezzogiorno.

Ma il sindacato in particolare dovrebbe dire qualcosa circa i criteri di politica salariale che intende perseguire nel Mezzogiorno, del non rispetto che in quella sede esiste del diritto del lavoro in molte fabbriche, in molte situazioni; parlare del costo del lavoro nelle piccole imprese, parlare del lavoro illegale, e che cosa intende fare in concreto su tutti questi temi. Dico subito il punto, è una tesi molto diffusa tra gli economisti oggi, ma non soltanto tra gli economisti, che una delle ragioni di una minor crescita del Mezzogiorno, delle difficoltà che il Mezzogiorno incontra è un costo salariale troppo alto per le grandi imprese.

Nel senso che se una grande impresa va nel Mezzogiorno incontra un costo salariale che, nonostante una parziale fiscalizzazione degli oneri sociali, è ancora troppo alto per superare l’insieme di svantaggi localizzativi che implica l’andare nel Mezzogiorno. Per esempio in saggi recenti una delle cose che si suggerisce è che in qualche modo anche il sindacato, e non solo lo stato, mediante fiscalizzazione completa degli oneri sociali, debba farsi carico di questo. In altri termini, il Mezzogiorno potrà svilupparsi soltanto se il costo salariale anche per le grandi imprese sarà tale da compensare le notevoli diseconomie che implica inefficienze dell’ambiente generale del Mezzogiorno.

Ora il sindacato può obiettare circa l’opportunità di farsi carico di queste diseconomie, pretendendo che lo stato intervenga in maniera tale per cui il sistema dei trasporti, il sistema della giustizia, tutti i sistemi che forniscono input necessari all’impresa siano a livello tale per cui anche le imprese meridionali possono pagare e fare profitti con salari altrettanto alti che nel nord.

Coerentemente con questa posizione, la CGIL sul costo del lavoro, anche se il costo della vita in molte aree del Mezzogiorno è profondamente diverso che non a Milano o in altri posti del settentrione, deve insistere per un unico salario tabellare, e cioè un costo del lavoro identico per tutte le imprese.

Conseguentemente a ciò può avvenire che finché i costi di localizzazione nel Mezzogiorno, le diseconomie esterne rimangono alti, un numero minore di grandi imprese andranno nel Mezzogiorno, ci andranno soltanto se profumatamente pagate dallo stato (come avviene per la Fiat) e sono insediamenti, quelli che si realizzano, così avulsi dal contesto meridionale con rapporti di input e output soltanto con il settentrione, tali da generare una specie di isola nell’ambito del Mezzogiorno.

E occorre valutare che, mentre il costo del lavoro rimane alto nelle grandi imprese dove c’è tutela sindacale, le condizioni di lavoro, il costo di lavoro in una miriade di piccole imprese segna differenze abissali.

Occorre decidere come intendiamo agire con le piccole imprese e con le situazioni di super-sfruttamento del lavoro in alcune aree, e invece di relativo privilegio in altre aree.

Invece su queste cose le lacune sono grandi e si rivendica generando la riforma dello stato o per dire: scegliere che il costo del lavoro debba essere uguale in tutte le zone del paese e in tutti i settori e come possibile. Così hanno fatto i sindacati svedesi, che non hanno mutato posizione di fronte ad una linea di politica economica che diceva: “con salari troppo alti, ed uniformi le imprese meno produttive licenzieranno.

Il sindacato svedese ha preteso di tenere alti i salari ovunque.

Questa scelta, se generalizzata anche da noi, necessita una politica di solidarietà molto dura e decisa, una politica di tipo svedese. Di nuovo sui criteri di crescita salariale nel pubblico impiego, sul diritto comune del lavoro che si afferma di voler instaurare nel pubblico impiego, sulla regolamentazione sul diritto di sciopero nel pubblico impiego, si dicono cose molto generali.

Nel pubblico impiego è la tipica situazione in cui un diritto di alcuni diventa, diciamo, dovere o comunque diventa lesione del diritto di altri, è il tipico caso dove vale la regola dei diritti e dei doveri.

I doveri dei pubblici impiegati a lavorare o a non scioperare troppo o a lavorare bene sono semplicemente i diritti nostri all’assistenza, ad ottenere un documento all’ Anagrafe, ecc. ecc. Se noi facciamo una politica dei diritti sappiamo che gran parte dei diritti sociali, di quelli che chiamiamo diritti sociali o diritti di cittadinanza, sono semplici doveri dei pubblici impiegati. E un tipico caso di contraddizione, e davanti a questa contraddizione non possiamo girarci attorno. Possiamo benissimo dire che la colpa è della pessima organizzazione del lavoro nel pubblico impiego. Suggeriamo però una serie di misure non come sindacato ma come partito politico (perché come sindacato in realtà dobbiamo tutelare fondamentalmente i nostri iscritti e le condizioni di lavoro).

Crescita salariale. Negli ultimi 4-5 anni la dinamica dei salari nel pubblico impiego è stata travolgente e ha riportato le posizioni relative tra stipendi pubblici e salari nell’industria alle condizioni in cui era prima della grande offensiva del ‘69-70. Non solo, il pubblico impiego in questo momento ha infranto completamente qualsiasi idea di politica dei redditi.

Tra i lavoratori dell’industria, l’argomento fondamentale per richiedere quattrini è di carattere corporativo con il pubblico impiego. Lavoro duro, un salario base di 1.200.000-1.300.000 e il rischio di essere licenziati, un padrone che impone ritmi. Tutto ciò viene confrontato ad una situazione dove non vi è nessun padrone, si prendono degli incrementi salariali enormi, ed in più non sono licenziabili.

Occorre controllare la dinamica salariale nel pubblico impiego, per realizzare concretamente l’idea di una politica dei redditi.

Il pubblico impiego dovrebbe essere il punto più semplice per fare la politica dei redditi e, tra l’altro, il punto su cui c’è responsabilità governativa diretta.

Occorre avanzare una proposta: ad esempio il criterio fondamentale della crescita degli stipendi pubblici deve essere grosso modo il tasso di crescita di ‘ quello che si è avuto nell’industria o nei settori privati.

Questo perché è troppo facile farsi crescere lo stipendio in una condizione di debolezza del padrone pubblico come di connivenza tra sindacato e ampie zone dei poteri politici com’è oggi nel pubblico impiego, con un bilancio sfondabile con tutta facilità. Invece tutto ciò non avviene e dopo, naturalmente, i contratti per essere attuati creano recriminazioni fortissime, sono necessari e quindi creano recriminazioni all’interno dello stesso settore pubblico.

Questa proposta è una regola semplice: siccome quelli del settore privato affrontano la concorrenza internazionale, e quindi non possono far crescere tanto i salari del settore se no vanno fuori mercato, allora usiamo il tasso di crescita del settore privato come regola, diciamo, per il tasso di crescita del settore pubblico.

E anche sugli scioperi del settore pubblico, sul diritto di sciopero e sull’autoregolamentazione. Qui bisogna stare attenti, ad introdurre semplificazioni. Quello del settore pubblico è un caso molto speciale. L’idea che il pubblico è un padrone come tutti gli altri e contro il quale vanno adottate le stesse tecniche sindacali che si sono sperimentate nell’industria, non ha senso. I padroni dei lavoratori pubblici siamo indirettamente noi, cioè siamo noi che abbiamo assunto questi lavoratori per fornirci un insieme di servizi.

Insomma, credo sia necessaria più attenzione concreta su questo terreno, adesso non posso entrare nel dettaglio su queste cose perché oltretutto è uno dei temi che mi appassiona di più: voglio dire, se noi possiamo usare le stesse regole e la stessa mentalità sindacale nei confronti del pubblico di quelle che abbiamo usato nel privato.

Democrazia industriale. Effettivamente qui ci sono proposte concrete. È questo un tema – l’ha già sottolineato Smuraglia – molto ma molto delicato, noi non possiamo aggiungere le rivendicazioni di democrazia industriale alle nostre tradizionali rivendicazioni. Si rende necessario un cambio di mentalità molto grosso. Mi limito a questa affermazione apodittica e ad evidenziare che l’unico schema preciso di democrazia industriale che nel documento viene proposto – cioè la formazione di commissioni paritetiche per discutere, per elaborare piani che implicano grossi mutamenti tecnologici o rilocalizzazione dell’impresa o chiusura dell’impresa, ed il modo come si propone di costituire le commissioni paritetiche, non sarà mai accettato dal padronato perché si verrebbe a trovare in minoranza netta.

È un modo, tra l’altro, che by-passa il nodo se debba essere il sindacato, cioè le rappresentanze sindacali unitarie, oppure se debbono essere degli organismi non sindacali, eletti dai lavoratori come ad esempio avviene nel caso tedesco, a coprire i posti nella commissione paritetica. Il sindacato deve avere il monopolio della rappresentanza nei consigli, negli organismi di democrazia industriale?

Formazione professionale e apprendistato: è questa la nuova frontiera del sindacato in tutta Europa. Cioè in tutta Europa ci si rende conto che il sindacato deve ripensarci a questa tematica per avere un futuro e un ruolo nelle relazioni industriali dei prossimi anni.

La cosa che mi ha sorpreso, dato lo stato disastroso della formazione professionale nel nostro paese, è la poca enfasi dei documenti su questo tema.

I sindacati degli altri paesi con cui noi ci confrontiamo sono coinvolti in strutture tripartite di formazione professionale. La formazione professionale tedesca che tutti ammiriamo e al quale è dovuto il fondamentale grande sviluppo tedesco, grazie alla straordinaria qualità dei lavoratori tedeschi, che vede praticamente tre perni fondamentali: il governo del land, cioè della regione, il sindacato e gli imprenditori.

Questo rapporto si realizza in una struttura tipicamente cooperativa, gli imprenditori sono fondamentali per realizzare una concreta formazione professionale, utilizzando le strutture delle imprese; la formazione professionale è formazione nei luoghi di lavoro, attraverso stage, ecc. Nel sindacato inglese, nel sindacato spagnolo, la formazione sta diventando la nuova frontiera sindacale perché la grande scommessa per il futuro è una forza lavoro sempre più qualificata.

Ultima osservazione: politica dei redditi e programmazione salariale, ecc.

Questo soltanto per dire che non sono d’accordo sul modo con cui viene presentato questo problema. Non condivido l’approccio di Cella. Vorrei far presente che ci sono sistemi ad altissimo decentramento contrattuale che ugualmente hanno una politica dei redditi efficace, anzi più efficace di altri che hanno tentato invece vie nazionali che non hanno funzionato. Il Giappone, ad esempio, ha soltanto la contrattazione aziendale.

Non si può affermare apoditticamente che soltanto una programmazione a livello nazionale, che soltanto una politica dei redditi di tipo neo corporativo di tipo tradizionale possa risultare efficace per determinare la dinamica delle retribuzioni.

 

FEDERICO BUTERA

Io vi risparmio i miei commenti sulla fatica nel leggere il documento, che tutti quanti hanno già espresso. Ricordo soltanto che ormai nel campo delle scienze e dell’informazione risulta chiaro che vi sono due modi per non dare informazioni: darne troppo poche o darne troppe.

Allora il problema della leggibilità di un documento è quello della sua reale fruibilità e gestibilità.

Al di là di questa osservazione formale, devo dire che io sono stato colpito (nelle parti che riguardano i temi della democrazia, e della qualità della vita) per il ritorno, in qualche misura, dei temi più ambiziosi, più orgogliosi che dagli anni ‘70 la Cgil ha sviluppato su questi argomenti. Quindi ritorna l’orientamento ad occuparsi in termini propositivi e progettuali di strategie e di organizzazione del lavoro, ad occuparsi non soltanto di difesa delle condizioni di lavoro ma anche, più in generale, di qualità del lavoro; il tema cioè del sindacato come sindacato generale che si propone in qualche misura di occuparsi non soltanto di ciò che avviene entro l’ambito delle singole imprese ma in ambiti più di carattere territoriale. Così facendo si ripropongono temi ambiziosi che erano stati sollevati e poi abbandonati, dalla Cgil e dal sindacato italiano negli anni ‘70-80. Allora la domanda a cui io non sono stato capace di dar risposta nella lettura di questo documento è: che cos’è cambiato? Perché si ripresenta questo menù molto ricco di ambizioni, nel momento in cui, tutto sommato, proprio il documento si apre identificando dei punti autocritici su ritardi interpretativi e operativi. Questo lascia nel lettore la sensazione che una parte di questo documento sia un libro dei sogni, un libro di ambizioni importanti non strumentali.

La seconda osservazione riguarda l’analisi che viene qui compiuta sui cambiamenti economico-sociali. Condivido completamente la valutazione che il documento ne dà: il mutamento internazionale, il mutamento della struttura dell’impresa, il mutamento delle identità collettive, il mutamento tecnologico, l’articolazione delle esigenze dei lavoratori e dei bisogni, costituiscano una diagnosi molto condivisibile. E su questo il documento si apre con un’autocritica.

La domanda è: che cosa c’è dietro questa autocritica, che cosa si può sviluppare a partire da questa autocritica? Allora due punti mi sembrano da segnalare in questo momento al dibattito: il primo che tutti i fenomeni qui indicati come nuovi, sono fenomeni che negli anni ‘80 non avevano visibilità statistica, perché stavano evolvendo, stavano creandosi. Di fronte al mutamento della struttura dell’impresa, il modello culturale dominante è stato: ma quante sono le imprese che si stanno modificando, scegliendo la qualità o occupandosi di nuovi sviluppi tecnologici, e quanti sono invece quelle che stanno adeguando le imprese?

Secondo elemento: mi sembra che rispetto a questo grande cambiamento, questa rivoluzione tecno-economica, la domanda irrisolta sia quali sono le risorse che la CGIL introduce nel processo di mutamento e di sviluppo?

Il documento, soprattutto nella prima parte, è ricco di espressioni del tipo: pericoli, garanzie, diritti.

Ciò che appare meno evidente è quali siano le risorse, indispensabili per realizzare questo sviluppo. Questo mi sembra il problema. Se il sindacato non dispone di risorse tecnologiche, di risorse scientifiche, di risorse finanziarie, quali sono le risorse che mette dentro questo processo condizionandone veramente lo sviluppo?

Paradossalmente analizzano maggiormente questo aspetto i documenti Confindustriali, quelli delle imprese, o i documenti degli studiosi più vicini alle imprese e alla Confindustria. Per esempio propongono le persone come elemento strutturante dell’impresa. Tutta la tematica sui circoli di qualità ripropone il problema che senza le persone, viste non più come soggetti che ricoprono posizioni organizzative predeterminate ma come soggetti che esplicitano completamente la loro capacità creativa, non c’è possibilità di sviluppo economico e non c’è possibilità di sviluppo delle imprese.

Allora la questione che mi sembra utile porre è che le risorse umane, che sono organizzate in maniera diversa dalle imprese e in misura forse meno restrittiva dall’impresa, hanno nei confronti dell’impresa non soltanto un rapporto di lavoro ma hanno anche un rapporto di carattere conflittuale. Allora che ruolo può avere il sindacato, non tanto e non soltanto nel difendere questi soggetti, ma nel liberarne fino in fondo le capacità e quindi in qualche misura rappresentarne la forte potenzialità. Il miracolo giapponese ha come elemento centrale l’enorme capacità creativa, cooperativa, gestionale non soltanto dei grandi personaggi che stanno nelle imprese giapponesi ma di tutti i lavoratori. Chi gestisce questa forza? Nel modello giapponese l’ha gestita l’impresa e l’ha gestita la concertazione diciamo del sistema economico-politico giapponese.

Allora io credo che questo sia uno spazio importante per il sindacato. Terzo punto, è il tema dei diritti che sembra anche a me che sia un tema importante.

Smuraglia si riferiva alle condizioni di lavoro dei lavoratori che lavorano con l’informatica: non solo noi non abbiamo una legislazione che riguarda i pericoli di chi siede di fronte ai video-terminali, mentre esiste ‘una normativa europea su questo, ma il problema fondamentale è che le minacce, i pericoli che arrivano ai lavoratori che lavorano con i video-terminali dallo schermo sono infinitesimi rispetto ad un’altra serie di fenomeni che non sono misurabili allo stesso modo, mi riferisco al problema dello stress, al problema del video cheti manda le informazioni e si interrompe all’improvviso, al problema di quanto controllo sui processi c’è, al problema di che legame c’è tra quello che è il programma sul quale i lavoratori stanno lavorando e la loro capacità professionale, al problema di che legami si creano tra i lavoratori attraverso l’informatica.

C’è il grande rischio di guardare ai problemi di condizioni di lavoro nello stesso modo con cui abbiamo guardato alle condizioni di lavoro nelle acciaierie, cioè dove il problema delle esalazioni, del calore, del rischio di una esplosione del forno era talmente centrale da mettere in secondo piano tutto il resto. Noi oggi abbiamo questi altri tipi di problemi e su questi problemi io temo che la legislazione non sia sufficiente, su questi temi è possibile progettazione, è possibile influenza; è possibile un gioco di condizionamento delle tecnologie, dell’organizzazione, della formazione dei profili professionali, e quindi c’è un ruolo costruttivo e non un ruolo difensivo. Su questo problema abbiamo grandi inquietudini: primo, non sappiamo adeguatamente misurare la qualità della vita di lavoro di cui stiamo parlando. Sulla dimensione fisica sappiamo tutto, e la medicina del lavoro; si è cominciato a lavorare in termini di ergonomia cognitiva ma il rapporto che esiste tra stress e condizioni di lavoro è tuttora scientificamente insufficiente; che cosa vuol dire integrità dei ruoli professionali non è ancora chiaro, dobbiamo andare a vedere se dobbiamo recuperare dimensioni come quelle della difesa dell’identità dei lavoratori. Abbiamo problemi di carattere definitorio molto importanti, su questo credo che uno sforzo del sindacato sia rilevante.

Ultimo punto sul tema della modifica delle strutture organizzative del lavoro, tornano in questo momento formule e soluzioni che erano importanti negli anni ‘70: i gruppi, i ruoli, la professionalità arricchita; ma ci sono anche temi nuovi: i gruppi remoti, le imprese reti, il project management, la qualità sulla quale obiettivamente c’è un livello di iniziativa da parte delle imprese molto spinto, molto avanzato, e c’è un livello di riflessione scientifica, per quanto riguarda per esempio il mondo scientifico, ma anche di riflessione sindacale che invece è meno sviluppato.

Allora qual è la cultura delle soluzioni? Ho i capelli bianchi e mi ricordo che negli anni ‘70 noi abbiamo discusso per 10 anni per decidere se i gruppi autonomi erano a favore dei lavoratori o contro i lavoratori. Ora noi siamo coinvolti in un problema assai più grosso di questo, abbiamo problemi di nuove soluzioni tecnico-organizzative su cui occorre stabilire meccanismi di valutazione, di giudizio, di intervento, di progettazione, e su questo ci sono 10 anni di sostanziale black-out. Su questo credo che un ulteriore approfondimento da parte delle tesi della CGIL sia importante.

La formazione. Non vorrei aggiungere altro rispetto a quello che diceva Salvati e su cui sono d’accordo, ma vorrei soltanto dire qualcosa per quanto riguarda la formazione sindacale. Ci troviamo di fronte ad una massa di fenomeni sostanziali, metodologici, di natura inedita, e sapendo che le imprese per fare fronte a problemi analoghi, hanno mobilitato migliaia di ore di lavoro delle loro strutture, hanno mobilitato tecniche e tecnologie talvolta né sofisticate né perfette.

Mi domando: quante ore di formazione il sindacato, inteso in senso lato e cioè come lo intende questo documento, ha investito per affrontare questi problemi? Quante ore di ricerca ha affrontato per definire una posizione su queste cose?

Allora dico con grande franchezza che noi ci troviamo di fronte a problemi di una tale complessità che senza necessità di un grande lavoro prevalgono. La definizione di obiettivi, di politiche, di strategie è ovviamente essenziale e centrale, ma senza lavoro di ricerca su questo, un ruolo del sindacato non ci può essere. Allora il problema fondamentale è quello relativo a come è organizzato, un sindacato generale moderno, quanto lavoro decide di approntare per affrontare queste questioni. Se c’è ricerca allora c’è speranza, altrimenti io credo che resta sostanzialmente il sindacato che ha operato fino a questo momento, con tutti i limiti che ci sono evidenti.

 

ALBERTO MARTINELLI

Innanzitutto debbo dire che mi sembra che i documenti della CGIL e i dibattiti che li hanno preceduti, i convegni per celebrare il centenario delle prime Camere del Lavoro sono il segnale, il segno tangibile che la CGIL sta vivendo una fase molto importante della sua storia e la sta vivendo con risorse adeguate. La CGIL, come altre organizzazioni della sinistra in modo diverso, vive questa fase storica, questa profonda esigenza di trasformazione, senza abbandonare l’eredità del passato ma trasformandosi in modo robusto per affrontare i problemi del presente. E mi sembra che ci siano segnali incoraggianti tra cui la partecipazione a questo dibattito.

Devo dire che in linea di massima sono d’accordo con l’analisi che questi documenti contengono grandi problemi del presente che sono stati richiamati sinteticamente da Terzi, sono d’accordo sostanzialmente con l’analisi e non entro nel merito. Voglio anch’io osservare che forse un segno del passato che si deve abbandonare è questo spazio eccessivo dedicato alle questioni internazionali non perché le questioni internazionali non siano importanti, ma perché spesso, appunto, non si affrontano delle questioni internazionali quegli aspetti più connessi con la politica rivendicativa.

Per quanto riguarda l’impostazione generale, a me sembra che la funzione fondamentale di un grande sindacato come la CGIL, resti quella di riuscire ad aggregare, trasformare, rendere coerenti una pluralità di rivendicazioni particolari e trasformarle in un programma coerente. Questo compito è reso più difficile oggi, indubbiamente, dalle considerazioni che sono state svolte nel documento, riprese da Terzi nell’introduzione, perché obbiettivamente c’è una crescente eterogeneità del sociale, c’è una crescente rifrazione, proliferazione di diritti delle persone, ma proprio per questo ancora più necessario.

Anche l’unità sindacale va vista in questa ottica, l’obiettivo dovrebbe essere veramente quello di arrivare nel presente -non nel futuro, come è stato detto -ad un’unica grande confederazione che riesca a svolgere quell’opera fondamentale di aggregazione, mediazione e di elaborazione di domande plurime, che diventano sempre più diversificate. Per fare questo, però, bisogna anche compiere delle scelte che a volte sono difficili e dolorose, e questo paradossalmente è più difficile oggi, momento in cui il sindacato si trova di fronte anche a problemi di consenso; perché ovviamente ogni scelta difficile rischia di far perdere consensi: magari a volte li fa perdere nel breve ma poi li fa acquisire nel lungo e medio periodo, quindi può essere un costo necessario da pagare.

D’altronde il sindacato può permettersi di essere un po’ meno timido, un pochino più coraggioso dei partiti politici, che invece in generale non fanno altro che aggiungere una rivendicazione all’altra, e continuare ad aggiungere cose ponendosi molto meno il problema della coerenza fra le diverse rivendicazioni.

Sulle questioni specifiche riprenderò necessariamente temi che sono già stati illustrati qui, e in particolare quelli di Michele Salvati con cui ancora una volta mi trovo molto d’accordo. Primo punto, il pubblico impiego, che è stato giustamente ripreso da tutti negli interventi e ricondotto da Salvati al problema di diritti e doveri: i diritti di cittadinanza che ci stanno tanto cari e che giustamente e opportunamente sono al centro dei documenti sindacali della CGIL sono i doveri, in larga misura, di altri lavoratori, in particolare dei servizi pubblici o privati.

L’azione sindacale nel pubblico impiego dovrebbe comportare strategie, tecniche rivendicative e di lotta differenti da quelle del settore privato; perché dopo tutto lo Stato siamo davvero tutti noi, lo Stato non è soltanto il governo ma è anche in un’altra accezione lo stato di tutti noi. Qui emerge con estrema chiarezza il fatto, oggi, che il problema non è quello di affermare diritti ma è quello di gestirli, di riuscire a trovare le giuste composizioni tra le libertà, i diritti, le solidarietà, le pretese di eguaglianza. Un tema che abbiamo sviluppato nel nostro “Progetto ‘89” in modo molto dettagliato per cui non è il caso di soffermarsi più a lungo.

Sono, in qualche modo, in un ruolo manageriale, come preside di una Facoltà universitaria molto affollata e vi voglio dire con estrema franchezza che spesso è difficile considerare legittime quelle pretese dei lavoratori che sono semplicemente dei comportamenti poco responsabili sul piano sociale. Viene spesso voglia di parlare di responsabilità, di doveri e non solo di diritti.

Il Mezzogiorno: qui è dove c’è forse il mio dissenso più forte, cito il capitolo ottavo introduttivo: “il sistema delle imprese di stato e a partecipazioni statali deve costituire lo strumento fondamentale per la realizzazione di una politica di industrializzazione del Mezzogiorno in aperto contrasto con la tendenza seguita da tale sistema in questi anni a privilegiare le imprese di servizi e di servizio”.

Bisogna essere consapevoli del fatto che le partecipazioni statali devono continuare a svolgere un ruolo molto importante, ma molto diverso dal passato e bisogna creare le condizioni per sviluppare anche iniziative private di varia natura -privato economico, privato sociale, cooperativo, nel Mezzogiorno. Cioè o il Mezzogiorno riesce a sviluppare risorse endogene, oppure questa idea che deve essere continuamente la politica dello stato imprenditore che crea le condizioni con l’impresa pubblica, con questa impresa pubblica perché non possiamo parlare in astratto dell’impresa pubblica come negli scritti di Pasquale Saraceno, non fa altro che alimentare il dissesto finanziario del bilancio statale.

Allora ruolo delle imprese a partecipazione statale, certo diverse, ma anche avere il coraggio di creare le condizioni per una valorizzazione del privato.

Democrazia industriale; anche qui direi che c’è un po’ di timidezza, dovuta al fatto che chiaramente la CGIL non ha scelto. Però mi sembra molto importante questo tema, sia perché è il tema sul quale si può meglio costruire alleanze con i sindacati degli altri paesi europei, sia perché è un tema particolarmente coerente con le trasformazioni in atto nell’organizzazione del lavoro; quelle trasformazioni che, con termine un po’ semplificato, definiamo post-tayloristiche, tanto per intenderci. Qui le ipotesi avanzate, anche a volte in modo un po’ strumentale, da parte imprenditoriale di una sorta di scambio tra miglioramento della qualità dei beni e servizi prodotti in cambio di maggiore partecipazione alle scelte fondamentali, andrebbe ripreso molto seriamente; mi ha un po’ stupito che venga in qualche modo messa da parte.

Comunque su questi temi, per quanto riguarda le proposte specifiche, direi che la posizione che viene oggi sostenuta in sede CEE anche dai sindacati europei è una posizione più articolata di quella che ho ritrovato. Indubbiamente quando si parla di democrazia economica e di democrazia industriale bisogna legare questo alla condizione fondamentale che è il problema della democrazia sindacale: cioè chiarire molto bene quali criteri di rappresentanza si hanno in mente, come si vogliono costruire le rappresentanze dei lavoratori che partecipano a questi eventuali organismi, perché i due termini sono strettamente connessi.

Ultimo punto, la formazione professionale, la scuola, l’università: e qui entro in un settore che mi è più congeniale. Anch’io ritengo che la formazione professionale sia una’ I questione di estrema importanza, in cui il sindacato può svolgere un ruolo fondamentale non solo in futuro. Non solo è un tema, con quello della democrazia economica su cui si può trovare unità d’azione con i sindacati europei che invece è più difficile trovare su politiche retributive -qui è facile il consenso; ci sono interessanti esperienze straniere al riguardo. È un tema di cui si dibatte molto oggi perché sono state approvate delle leggi, ad esempio la riforma degli ordinamenti didattici nel novembre scorso, sono molto importanti per la formazione professionale.

Ecco, qui il sindacato dovrebbe svolgere un ruolo molto rilevante insieme agli organi del governo locale -non dimentichiamo che questo è un tema su cui c’è una forte competenza delle regioni – il sindacato rischia di perdere un’occasione fondamentale. Ed è qui che vedo una possibilità forte di collaborazione con l’università – che è l’ultimo tema ed è un po’ anche un invito che volevo rivolgere.

C’è stata una fase in cui abbiamo lavorato insieme bene, anche con un po’ di giovanile entusiasmo ed è la fase delle 150 ore. Riprendiamo questo rapporto e riprendiamolo adesso sul tema molto concreto della formazione professionale. Siamo anche fisicamente contigui quasi, molto vicini, non dobbiamo neanche perdere tempo quando dobbiamo incontrarci. Questo è un invito diretto alla CGIL, alla Camera del Lavoro e agli altri sindacati milanesi per costituire un gruppo di lavoro con rappresentanti del sindacato, rappresentanti dell’università, rappresentanti della regione, del comune e della provincia, per formulare delle proposte concrete in tema di formazione professionale.

Ripeto, è il momento di farlo, anche perché continuiamo a sentire che il sapere è ormai diventato il fondamentale fattore della produzione, ed è anche il terreno sul quale il sindacato può dare uno dei contributi più innovativi.

 

RICCARDO TERZI

Ho un giudizio molto positivo di questo incontro; credo che sia stato davvero per tutti noi molto utile e produttivo.

Era esattamente quello che ci proponevamo di ottenere, cioè di avere un confronto di merito non formale che ci consenta di vedere anche i punti critici dei documenti congressuali e dell’impostazione politica del congresso della CGIL, per sviluppare un ulteriore approfondimento. Abbiamo sentito da parte di tutti una disponibilità a continuare questo confronto, vedremo in quali forme con i singoli, e con l’Università come ci proponeva Martinelli. Credo che abbiamo bisogno di rendere più sistematico il rapporto con esperti, con intellettuali interessati ad una relazione con il movimento sindacale.

Dò qualche non risposta, dico la mia su alcuni punti. Potrei a questo punto anche cavarmela non facendo nessuna replica, dicendo semplicemente che registriamo le diverse opinioni, le diverse osservazioni, le consideriamo materiale per un ulteriore lavoro e poi una ulteriore riflessione.

Intanto su alcune questioni che riguardano proprio i caratteri costitutivi della CGIL. Ci si è domandato da dove sbuca questa espressione un po’ nuova di sindacato generale: è un termine che si è introdotto soprattutto in quest’ultimo periodo di tempo, era un po’ il centro della conferenza programmatica di Chianciano. Con questo cosa intendiamo dire? Intendiamo dire che il sindacato si propone di rappresentare l’intero universo del mondo del lavoro dipendente, rispetto ai sindacati corporativi, ai sindacati che vedono soltanto un settore, un segmento del mondo del lavoro. Non significa sindacato generale, almeno così io non l’ho mai inteso, un sindacato che ripropone un po’ la vecchia concezione, quella della classe generale: una classe che in quanto tale rappresenta gli interessi generali della società. Noi rappresentiamo un pezzo della società: i lavoratori dipendenti. Questo mondo del lavoro dipendente, però, è un mondo assai differenziato, articolato: ritrovare un filo di unità e di solidarietà dentro questa realtà del mondo del lavoro dipendente non è un’impresa da poco, perché sono molto forti le spinte centrifughe, le spinte di tipo corporativo, la frantumazione degli interessi.

Quindi non un sindacato che si occupa di tutto, e forse Salvati ha ragione quando osserva che c’è una tendenza anche nei nostri documenti a essere non molto diversi da documenti politici generali. Io credo che qualche sforzo dobbiamo farlo per evitare un certo slittamento del terreno sindacale a un terreno che non ci è proprio, e comunque tenere molto bene saldo il terreno sindacale, altrimenti non si riesce a capire che strano animale siamo. Questa è una esigenza corretta, per questo anch’io userei personalmente con molta cautela una espressione ricorrente: quella di sindacato soggetto politico; sindacato politico in quanto esercita la sua funzione di rappresentanza sociale. Certo pesa politicamente, diventa un interlocutore delle forze politiche e dei governi ma in quanto è soggetto sociale essenzialmente, altrimenti perdiamo questo che è il nostro terreno fondativo, rischiamo di avere uno snaturamento dei caratteri costitutivi della organizzazione sindacale.

Diritti e doveri. Io non ho l’impressione che da questo punto di vista ci sia una unilateralità nei documenti congressuali; ho sotto gli occhi quello che è il titolo del documento “Strategia e diritti, etica della solidarietà”. C’è insieme l’affermazione dei diritti e l’esigenza di una coerenza, di una responsabilità etica nell’azione complessiva del movimento sindacale. Mi pare che questi due elementi siano fortemente presenti in tutta l’impostazione del documento.

Ci sono poi alcuni nodi problematici, sicuramente alcuni punti di carenza. Io alcune segnalazioni proprio di carenza dei documenti congressuali le condivido e ritengo che dobbiamo fare un lavoro. Noi già su alcuni temi pensavamo, come CGIL Regionale, di fare un lavoro di approfondimento, di produrre degli emendamenti integrativi.

Sicuramente il tema che poneva Smuraglia delle condizioni di lavoro, della sicurezza del lavoro, è un tema sul quale dobbiamo e possiamo produrre perché su questi temi la CGIL regionale ha svolto un lavoro direttamente attraverso l’Associazione Ambiente e Lavoro, a cui Smuraglia ha sempre dato un contributo assai importante. Quindi abbiamo già una serie di elaborazioni a cui attingere che possono essere utilmente riproposte nei documenti congressuali.

Poi alcuni punti critici sui quali la discussione va un po’ approfondita, anch’io ponevo nella scaletta iniziale politica dei redditi e modello contrattuale. Io sono abbastanza d’accordo con Salvati che non c’è un automatismo per cui è possibile una politica dei redditi’ soltanto attraverso un modello contrattuale accentrato, centralizzato; ci sono esperienze diverse, non soltanto il modello giapponese ma anche quello tedesco. Esistono quindi diverse possibilità, diversi modelli praticabili.

Qui c’è appunto un approfondimento da fare, noi quello che escludiamo non è qualsiasi momento di negoziazione centrale come è evidente, perché se si vuole avere un momento di confronto con il governo su determinati aspetti della politica economica, della politica fiscale, è chiaro che questo avviene a livello centrale: non possiamo decentrare a livello delle aziende anche la politica fiscale. Ci sono quindi alcuni problemi che, per loro natura, non possono che essere affrontati a livello centrale, però pensiamo che una politica dei redditi possa essere il risultato di una serie di strumenti; di momenti di negoziazione anche centrali con il governo per quanto riguarda le competenze di politica economica del governo; politica fiscale in primo luogo, può esserci una parte che riguarda le relazioni tra le parti sociali, e ci possono essere alcune regole più chiare nello sviluppo complessivo dell’azione contrattuale, secondo certi criteri, secondo certe norme, con una più chiara definizione delle competenze dei diversi livelli contrattuali.

Io ad esempio difendo la scelta che nel documento è proposta di uno spostamento del baricentro dell’azione contrattuale verso la contrattazione decentrata nei luoghi di lavoro o a livello territoriale. Questo non vuol dire avere una situazione che renda impossibile un qualunque controllo della dinamica retributiva, anche perché quello che sarà l’elemento fondamentale della contrattazione decentrata e l’intervento di processi di trasformazione della produzione, sulle nuove condizioni di lavoro, quando parliamo appunto di nuova democrazia economica, o c’è anche modello contrattuale che al livello dell’imprese consente anche ai lavoratori di partecipare, di discutere, di costruire un processo nuovo, oppure, se tutto viene centralizzato, il sindacato sarà tagliato fuori dai processi di trasformazione, di innovazione tecnologica.

Bisognerà però vedere tra il livello decentrato e quello nazionale le diverse competenze, come viene affrontata la politica salariale, come interviene il livello decentrato e quello nazionale. Così su altri punti, quali sono le competenze per quanto riguarda l’orario, l’inquadramento professionale. Avere una più chiara distinzione di competenze tra i diversi livelli contrattuali, avere quindi una semplificazione delle norme che diano a tutte le parti una certezza circa le prospettive in cui ci si incammina.

Si aprono qui tutte le questioni della democrazia economica -anche questo un tema sicuramente da approfondire – e qui noi cerchiamo di fare un certo salto rispetto ad una tradizione, non c’è dubbio: cerchiamo di vedere in una nuova dimensione il tema delle imprese, non soltanto come il terreno del conflitto ma come il terreno di una possibile cooperazione. Codeterminazione vuol dire questo, cioè vuol dire tentare di imboccare questa strada chiarendo che pensiamo ad una partecipazione alle decisioni; non una partecipazione subalterna, ma un ruolo attivo dei lavoratori e dei loro rappresentanti che possono concorrere alle decisioni dell’impresa. In quali campi, certo qui bisognerà selezionare, vedere intanto alcune prime sperimentazioni che possono essere fatte in materia di formazione professionale anzitutto, in materia di organizzazione del lavoro e di applicazione delle nuove tecnologie, in materia di sicurezza del lavoro. Si tratta di valutare i campi nei quali è possibile costruire dei processi di vera e propria codeterminazione, di partecipazione attiva dei lavoratori e dei loro rappresentanti alle decisioni che riguardano il funzionamento dell’impresa.

Poi sui comitati vediamo, l’obiezione che io farei è che lì forse non c’è stata ancora una discussione approfondita nel gruppo dirigente della CGIL, può essere quello un punto di riferimento, una ipotesi tutta da verificare ulteriormente. Io sono d’accordo poi con varie osservazioni sulla questione del pubblico impiego, aggiungendo che su questo problema non siamo rimasti fermi -anche nei documenti congressuali ci sono delle parti rilevanti -circa la concezione delle forme di lotta, tant’è vero appunto che c’è stato un accordo sindacale, poi una legge che regola l’esercizio e il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Non siamo rimasti fermi sulle politiche contrattuali indicando una linea impegnativa, quella della delegificazione del rapporto di lavoro, cioè della contrattualizzazione piena del rapporto di lavoro nel settore pubblico.

Il punto forse più carente, che va approfondito maggiormente, è quello delle politiche salariali: di come riusciamo ad avere una coerenza complessiva di politica salariale per tutto il mondo del lavoro. In questi anni c’è stato quello sfondamento, questa forbice tra la dinamica salariale nel settore pubblico e quello privato: qui c’è un problema di riportare a coerenza le nostre politiche rivendicative.

Sui temi internazionali io credo che da un verso può essere vero che alcuni aspetti sono strettamente politici, credo però che nel momento in cui abbiamo processi di integrazione a livello mondiale dell’economia, e tutti i problemi diventano sempre più internazionali; la politica estera, la politica internazionale anche per il sindacato diventa un elemento di politica interna; cioè per affrontare seriamente tutti questi problemi dobbiamo vedere come costruiamo delle politiche a livello europeo quanto meno, ma non soltanto a livello europeo; c’è tutto un problema di relazioni coi paesi dell’area Mediterranea. Quindi credo che il sindacato debba intensificare la propria iniziativa internazionale, la debba intensificare come politica sindacale, certo, non pensando che siamo noi quelli che si sostituiscono alle Nazioni Unite o che possono avere una funzione su un terreno che non ci è proprio, ma intensificare le relazioni internazionali è un’esigenza fondamentale per il sindacato.

Infine c’è un insieme di questioni che ci ha posto Butera, e sono questioni di grande rilievo. Butera in sostanza dice questo, se posso semplificare: che per realizzare gli obiettivi che noi qui indichiamo – quelli appunto della codeterminazione, del controllo sulle nuove tecnologie, e così via -ci vuole un sindacato diverso da quello che è oggi, o comunque bisogna chiarire quali investimenti facciamo, quali risorse mettiamo in campo per essere davvero in grado di svolgere questa funzione. Questo è anche il problema che poneva Smuraglia: per codeterminare bisogna avere un’attrezzatura, e anche cultura e tecnica necessaria, altrimenti noi ci conquistiamo un tavolo di confronto ma a quel tavolo non abbiamo nulla da dire, diventiamo subalterni non perché abbiamo una linea sbagliata ma perché siamo incapaci di intervenire, siamo incapaci di esprimere un progetto autonomo del movimento sindacale. Questo è un punto chiave, credo che questo dovrebbe essere affrontato anche nella parte organizzativa, che forse è la parte meno elaborata del documento.

Però le conseguenze organizzative delle scelte generali di carattere politico non sono sufficientemente esplicitate, questo è un punto: cioè come ci attrezziamo, quali investimenti facciamo perché sia praticabile una politica di codeterminazione. Così sulla formazione sindacale, io credo che anche sulla parte organizzativa abbiamo parti di carenza e vi sia l’esigenza di un approfondimento.

Ora noi terremo conto dei vari suggerimenti, delle critiche. Ci sembra utile trovare altre occasioni di confronto e vedere di definire poi un impegno di lavoro della CGIL per dare delle risposte più compiute e per tentare di dare un contributo al dibattito congressuale e alla stesura definitiva del documento.



Numero progressivo: A18
Busta: 1
Estremi cronologici: 1991, 2 maggio
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota settimanale della CGIL Lombardia”, n. 11, 1991, pp. 13-31