IL SINDACATO NELLA CRISI ITALIANA

Rappresentanza, autonomia, unità

Intervento di Riccardo Terzi, segretario generale SPI Lombardia, al primo convegno promosso dal gruppo dei 49, Roma, 15 settembre 2003.

Una grande organizzazione di massa racchiude in se stessa una pluralità di culture politiche e di esperienze sociali, che devono potersi esprimere in una libera e trasparente dialettica democratica. Una direzione verticistica, monocratica, tutta affidata al prestigio personale del leader, può dare dei vantaggi immediati, ma produce sempre, alla distanza, una caduta di vitalità. Questo tipo di processo l’abbiamo visto dispiegarsi chiaramente nel campo della rappresentanza politica, con una fortissima torsione delle forme politiche in senso oligarchico, a scapito della partecipazione dal basso. Per un sindacato, un tale modello sarebbe ancor più devastante, perché noi dobbiamo rappresentare una base sociale assai larga, un universo sociale che ha al suo interno una grande e crescente complessità. La forza della CGIL è sempre stata nel suo carattere di organizzazione aperta, plurale, luogo di incontro di diverse culture, tutte legittimate, a condizione che siano sempre disponibili ad un lavoro di sintesi e di mediazione unitaria.

La prima ragione che dunque anima l’iniziativa di una parte dei dirigenti della CGIL è una ragione democratica: la necessità di rendere visibile e trasparente il ricco pluralismo interno della nostra organizzazione, per evitare che questo stesso pluralismo, trovando ostruite le vie del confronto alla luce del sole, degeneri nelle manovre di palazzo e nel trasformismo, o produca atteggiamenti di passività, di mero adattamento ad una disciplina vissuta con rassegnazione. Questa operazione di trasparenza non può che far bene alla CGIL, perché riattiva un circuito democratico reale e ci impegna tutti ad approfondire il confronto tra le diverse analisi e le diverse ipotesi di lavoro, a superare, insomma, un finto unanimismo di facciata. Ne è in gioco la vitalità complessiva della CGIL. Aprire un libero confronto è dunque oggi un passaggio necessario, perché tutto lo scenario politico e sociale è fortemente cambiato, negli ultimi anni, e non si può evitare di compiere, con chiarezza, una verifica generale, di carattere strategico. Possiamo rinviare tutto al prossimo congresso? Ci sembra imprudente, perché la vita reale non aspetta i nostri tempi statutari. La realtà ci incalza e ci impone di riflettere, ora, di capire il nuovo contesto in cui siamo, di aggiornare e rendere più penetranti le analisi politiche.

Non è dunque chiaro il motivo per cui questa domanda di discussione debba creare allarme e nervosismo, una volta chiarito che solo di questo si tratta, e che non c’è nessuna manovra di destabilizzazione del gruppo dirigente. Non ci ripetiamo forse, anche troppo spesso, che ciò che decide è solo il merito? Bene, e allora stiamo al merito, confrontando le analisi, le proposte, senza rifiuti pregiudiziali, senza caricature, senza processi alle intenzioni, liberandoci finalmente di quell’idea sacrale per cui c’è un gruppo dirigente depositario della verità, l’unico autorizzato a pensare e a innovare, e il dissenso è sempre eresia, minaccia all’autorità della chiesa. Cerchiamo almeno di ragionare con spirito laico. In questo confronto dobbiamo essere sereni e responsabili, davvero disponibili ad approfondire l’analisi, la ricerca, a costruire convergenze più larghe, anche a correggere qualche unilateralità o forzatura che può essere presente nelle posizioni assunte. La verità – ce l’ha spiegato Socrate molti secoli fa – è solo nel dialogo. E il dialogo è capacità di ascolto, il che è reso impossibile se ogni posizione si irrigidisce e si rappresenta in modo deformato, caricaturale, le posizioni diverse. Evitiamo quindi, tutti, di scadere sul terreno troppo facile della propaganda a buon mercato, perché non c’è nulla di più stupido che finire sepolti sotto la propria propaganda.

Ma veniamo al merito. Io credo che le differenze non stiano tanto nell’analisi, quanto nelle conseguenze politiche che dall’analisi si fanno discendere. La situazione politica presenta un’emergenza, sia sul fronte economico, sia su quello democratico. Io non vedo significative differenziazioni, nella CGIL, circa il giudizio sulla pericolosità dell’attuale governo, sulle potenzialità eversive della sua iniziativa, che mettono a rischio l’equilibrio costituzionale del paese e la sua coesione sociale. A questa emergenza come si deve rispondere? Si può discutere se siamo già in presenza di un incipiente regime autoritario, o se il giudizio debba essere più misurato, considerando tutti gli elementi di complessità e contraddittorietà della situazione. Ma, in ogni caso, proprio perché tutti vediamo il pericolo di un’offensiva di destra, la conclusione politica più logica è che occorre creare, al più presto, il più largo fronte democratico. Io vengo da una scuola politica che ha sempre visto nell’unità democratica l’unica risposta possibile ed efficace alle manovre reazionarie. Per battere il fascismo, si fa il governo anche con Badoglio.

Per questo insistiamo così fortemente sull’unità sindacale, vista come un obiettivo primario, una condizione necessaria per reggere lo scontro. Ci deve essere un impegno straordinario per ricostruire le basi di una convergenza, di un’azione comune. Proprio perché c’è un’emergenza politica, dobbiamo impedire che il fronte sociale venga diviso, che passi anche nel mondo del lavoro una spaccatura politica che ne indebolirebbe ogni forza di resistenza e di mobilitazione. Ciò non può avvenire spontaneamente, ma richiede un lavoro, un’opera paziente di ricostruzione del tessuto unitario, e questo lavoro non sarà fatto se non ci mettiamo noi, noi CGIL, in prima fila. Ora, a noi sembra che questa consapevolezza politica non sia sufficientemente forte, che per troppi nostri quadri l’unità sia solo una variabile secondaria, che può esserci o non esserci, senza che questo incida sulla nostra prospettiva. È quello che abbiamo chiamato il pericolo di un senso di autosufficienza, il quale tende facilmente a degenerare nel settarismo. Che qualche giornale un po’ fazioso rappresenti questa posizione come una pura e semplice resa alle tesi della CISL ci dispiace, ma purtroppo siamo ormai abituati a convivere con un giornalismo scadente, approssimativo, che non cerca di capire ciò che racconta. Da tutta la CGIL ci attendiamo rispetto, attenzione, capacità di discussione reale. E comunque vogliamo qui, ancora una volta, chiarire il nostro pensiero.

Non è stato né detto né pensato che la CGIL abbia sbagliato tutto in questi due anni. È questa una pura sciocchezza, chiunque la dica. La CGIL ha conquistato un grande prestigio con la sua battaglia netta e coerente a difesa dei diritti del lavoro, per contrastare l’esito di una estrema frantumazione e precarizzazione nell’identità e nella vita dei lavoratori. Su questo punto decisivo, non c’è davvero nulla da correggere, nella sostanza, anche se ciò non significa che si debbano condividere tutti i singoli passaggi tattici. Il problema che noi poniamo è il seguente: questa nostra forza acquisita come la utilizziamo, in funzione di quale prospettiva, su quale terreno pensiamo che essa si possa sviluppare? Anche la forza più grande si può disperdere, se non è inquadrata in una strategia efficace. E dopo aver retto l’urto di un duro scontro politico, si tratta ora di sindacalizzare questa nostra iniziativa, di tradurre una grande battaglia di principio sul terreno contrattuale e rivendicativo, per non finire sospinti su un terreno esclusivamente politico, che porterebbe in ultima analisi alla sconfitta. Noi oggi ci troviamo in questo passaggio critico, esposti al rischio di una sovraesposizione politica, e contemporaneamente al rischio di ricadere in una tranquilla routine, che perde di vista la gravità della situazione. Non bisogna dunque invertire la rotta, ma investire tutta la nostra forza sul terreno più propriamente sindacale, con un rilancio e una riqualificazione della contrattazione. È un nodo non facile da affrontare, ma è bene vederlo per tempo e non procedere alla cieca.

Di questo si tratta, non di una liquidazione di ciò che abbiamo fatto, o di un attacco a Cofferati ed Epifani, come avventatamente ha titolato l’Unità. Se vogliamo riflettere, anche con spirito critico, sulla stagione che abbiamo attraversato, è per individuare con più efficacia il terreno della nostra iniziativa, superando i punti di debolezza e di criticità che possono appesantire la nostra azione. Non c’è nessun attacco personale, che sarebbe davvero fuori luogo, perché la storia di questi anni è una storia collettiva alla quale tutti abbiamo partecipato. La riflessione critica non chiede a nessuno sconfessioni e autocritiche, ma è il modo per capire meglio in quale direzione vogliamo andare.

Torno allora al quesito politico centrale: l’attuale emergenza politico-sociale richiede o no il dispiegamento del più largo fronte unitario? C’è un’alternativa a questa necessità? L’alternativa è l’idea di rispondere con un meccanismo di radicalizzazione: l’idea di alzare il tiro, di alzare il livello dello scontro, con una progressiva intensificazione del conflitto. In questa prospettiva, è chiaro che l’unità sindacale è solo un inutile impaccio di cui liberarsi. È una tesi che si ricollega ad un filone di pensiero che è stato minoritario nel movimento operaio. I precursori sono quelli che hanno criticato l’unità antifascista, perché metteva in ombra gli obiettivi della trasformazione socialista e si conteneva entro i limiti della democrazia borghese. Io penso che, sia stato un bene che questa linea di pensiero sia stata, allora, battuta, e che anche nella situazione attuale la radicalizzazione avrebbe solo l’effetto di congelare i rapporti di forza e di ricompattare tutto il blocco moderato. Non a caso Berlusconi, ogni volta che si trova in difficoltà, cerca la radicalizzazione, vedendo in essa la possibilità di rimettere in riga le sue truppe sempre più disperse. La storia offre molti esempi dell’effetto controproducente del radicalismo. Un esempio illuminante è quello del referendum sull’estensione dell’articolo 18. La logica era chiara: se siamo attaccati, rispondiamo ponendoci obiettivi più avanzati. Una logica chiara, ma del tutto inefficace, come hanno dimostrato i risultati. La CGIL ha contrastato questa logica, e in particolare Cofferati ha avuto ben chiari tutti i rischi di tale operazione. Poi, alla fine, abbiamo dovuto decidere in una condizione di difficoltà, presi in un ingranaggio che non abbiamo voluto. Ma il quesito strategico, al di là del referendum, è ancora tutto aperto. È da decidere il ruolo che la CGIL vuole svolgere nell’attuale scena politica. C’è quindi, evidentemente, un risvolto politico nella nostra discussione, che io ho qui semplificato nell’alternativa, forse un po’ sommaria, tra unità democratica o radicalizzazione. Ma, come era già stato chiarito, non ci debbono essere ulteriori interferenze politiche, non si deve stabilire nessuna relazione con le vicende e le discussioni interne ai partiti della sinistra. Che cosa c’entra con la nostra discussione l’ipotesi del partito unico riformista? Personalmente, ho più di una perplessità su una proposta che mi sembra improvvisata e non costruita su una solida base progettuale. Altri, forse, hanno diverse opinioni: ma ne discuteremo in altre sedi. In ogni caso nessuno di noi è disponibile ad essere l’emissario politico nella CGIL. Quando parliamo di autonomia sociale, facciamo una scelta radicale, pensando che ormai non si possa più ricostruire una linea di continuità tra partito e sindacato, tra sfera politica e sfera sociale. La cosa più di sinistra che può fare il sindacato è quella di fare rappresentanza, di dare voce al soggetto sociale. Che si possa scambiare l’autonomia per moderatismo è una stranezza di questi tempi. È l’autonomia che va oltre le divisioni politiche e ideologiche, e dà forza e identità al soggetto sociale. Questa è stata, nei momenti alti, la nostra storia. Quindi, noi stiamo ben saldi nella dimensione sindacale, siamo solidamente ancorati nella CGIL, e con noi bisognerà pur trovare il modo di discutere. Siamo responsabili, ma tenaci e determinati. Siamo solo all’inizio di un lavoro, un lavoro politico e non correntizio, un lavoro aperto, all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Sarebbe davvero curioso che nel momento in cui rifiutiamo l’autosufficienza della CGIL, pensassimo di avere noi già tutte le risposte preconfezionate. Ripeto: il nostro capocorrente è solo Socrate, con la sua tenace volontà di dialogo. Senza essere però disposti a bere la cicuta.


Numero progressivo: E38
Busta: 5
Estremi cronologici: 2003, 15 settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Gli argomenti umani”, ottobre 2003, pp. 55-59. Pubblicato in “Lavoro, unità, autonomia. Atti del primo convegno promosso dal gruppo dei 49”, Ediesse, Roma, 2003, pp. 61-66