IL SINDACATO ATTORE DEL NUOVO PATTO SOCIALE

Forum de “Gli argomenti umani”

a cura di Tiziana Prina. Introduzione di Riccardo Terzi, seguita dagli interventi di Raffaele Minelli, Silvano Andriani, Paolo Pirani, Alfredo Reichlin, Mimmo Carrieri, Achille Passoni

Nel promuovere un forum tra esponenti delle Confederazioni sindacali e della sinistra politica, l’intento de gli argomenti umani era di aprire un confronto sulle possibili linee di azione a fronte dell’aspra congiuntura sociale ed economica che l’Italia vive, con l’aggravante di un confuso indirizzo populista-liberista del governo. Questioni essenziali: ruolo del sindacato confederale nel determinare una strategia di sviluppo e di ridisegno dell’equità sociale; contenuti e prassi di una prospettiva unitaria tra le grandi Confederazioni. Il clamoroso evento del dimissionamento dell’uomo-simbolo dell’indirizzo governativo e la conseguente crisi proprio sulla politica economico-sociale, da un lato confermano pienamente le critiche che, con crescente severità e unitarietà, provengono dai sindacati e, dall’altro, rendono ancora più urgenti e penetranti le idee emerse dal forum. Ne diamo perciò ampio conto dall’introduzione di Riccardo Terzi agli interventi di: Raffaele Minelli, Silvano Andriani, Paolo Pirani, Alfredo Reichlin, Mimmo Carrieri, Achille Passoni. Al forum era prevista la presenza di Giorgio Santini, dirigente CISL. Impossibilitato a partecipare ha assicurato di intervenire nel dibattito con un articolo che sarà pubblicato da gli argomenti umani sul suo prossimo numero.

 

Introduzione di Terzi: quale unità sindacale

Il primo tema di importanza centrale è quello dell’unità sindacale. Dopo una fase di fortissima divaricazione strategica, c’è una ripresa forte dell’unità, che si è concretizzata in atti politici quali la piattaforma sindacale unitaria, la mobilitazione dei lavoratori e dei pensionati, la capacità di gestire situazioni critiche come quella di Melfi. Nella CGIL, già agli inizi del suo mandato, Epifani ha parlato di risindacalizzazione, dopo una fase di sovraesposizione politica, ed anche nella CISL e nella UIL si è avanzata una lettura critica del tentativo di stabilire un rapporto interlocutorio privilegiato con il governo, mentre la CGIL tendeva ad una linea di opposizione frontale. Insomma si è imposta una linea di correzione con varie angolature in tutte e tre le confederazioni. Ma su quale unità si è creata? Ricorrendo alla formula del pluralismo convergente, Savino Pezzotta afferma che meno parliamo di unità, meglio è. Ci sono identità culturali, storiche, strategiche che costituiscono la base del pluralismo sindacale, e su questa base si cercano di volta in volta le intese possibili con un impegno serio a trovare le mediazioni fra le diverse confederazioni. La convergenza è dunque affidata a questo permanente lavoro di mediazione, escludendo qualunque prospettiva di salto in avanti verso la costruzione di un sindacato unitario. Ora la domanda da porsi è questa: ci si accontenta di questo esito? Terzi vede nella posizione di Pezzotta un’interpretazione statica delle identità. In un mondo che cambia molto velocemente, le identità politiche sono in movimento e a maggiore ragione lo sono quelle sindacali. Quindi l’interrogativo che nasce è se ha ancora un senso riproporre un obiettivo più complessivo: la costruzione del sindacato unitario.

Il problema dell’unità presenta due corollari. Il primo, quello dell’autonomia e del rapporto con il sistema politico, che Terzi ritiene irrisolto. Ormai da tempo il sindacato ha conquistato la sua autonomia sostanziale dal potere politico, ma nell’autonomia c’è ancora una dose di diffidenza reciproca fra le confederazioni. Il sistema politico esercita in varie forme una pressione sulle confederazioni sindacali. Il nodo dell’autonomia è una delle condizioni indispensabili per parlare dell’unità sindacale, se dovesse quindi prevalere una logica politica nel sindacato, l’unità non avrebbe alcuna prospettiva seria. L’autonomia c’è quando la rappresentanza sociale riesce ad esprimere un suo rapporto critico, dialettico con il sistema politico in tutte le sue forme. Il secondo corollario è quello delle regole, della democrazia sindacale. L’assenza di regole, come succede oggi, fa sì che qualunque risultato sia revocabile; basta il disaccordo su un punto, per rimettere in discussione il processo unitario. Dopo Chianciano, vi è stato un impegno ad avviare un gruppo di lavoro sul problema delle regole; si è scelto giustamente di non rimanere inchiodati al problema della legge, tanto più che con questo parlamento non ha molto senso sollecitare oggi un intervento legislativo. Nulla impedisce invece di trovare un’intesa intersindacale. Si può pensare alla democrazia rappresentativa, evitando le due posizioni estreme: la democrazia associativa, solo per gli iscritti, o la democrazia referendaria, e valorizzare tutti gli strumenti di democrazia rappresentativa a partire dalle RSU, le rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro, o attraverso apposite assemblee.

 

Concertazione: politica economica e diritti

Il secondo blocco problematico riguarda concertazione. Dopo il protocollo Ciampi del 1993, si tratta di rinegoziare quell’accordo, correggendo quel che c’è da correggere, o si tratta imboccare una strada alternativa? La concertazione per il sindacato è una cornice strategica indispensabile oppure è una sorta di gabbia, da cui prima si esce, meglio è? Non ci sono in realtà alternative serie ad una politica di concertazione. Una linea che punta tutte le carte sul conflitto di fabbrica, è riduttiva; il sindacato deve necessariamente porsi i problemi che riguardano la politica economica nei suoi termini generali, per intervenire con gli strumenti adeguati di interlocuzione con il sistema politico. A tale proposito vanno sottolineati due aspetti: la politica dei redditi. Essa va ancora vista soltanto nella sua dimensione nazionale, come modello centralizzato? Se la scelta è fra centralizzazione o valorizzazione delle varie autonomie locali, gli elementi dinamici, la soluzione è quella di trovare un punto di equilibrio fra le due istanze; la rappresentanza del lavoro che cambia, la forza reale del sindacato.

C’è un deficit di presenza che richiede il massimo di impegno, per porvi riparo. Guardando a tutte le nuove forme di lavoro che hanno scompaginato le vecchie regole del mercato del lavoro e che sono caratterizzate da flessibilità estrema e da precarizzazione, si evidenzia il fatto che il sindacato a qualunque tavolo si presenti sarà forte, se avrà dietro di sé una rappresentanza reale. Nella prospettiva di un rilancio dell’unità sindacale serve un investimento strategico robusto per affrontare la questione dei nuovi lavori, del lavoro precario. C’è poi da ripensare il modello di concertazione, correggendone gli aspetti negativi: la scarsa capacità di intraprendere una difesa reale del potere di acquisto dei lavoratori, lo smottamento dal lavoro dipendente ai profitti, il sistema contrattuale.

 

Minelli: autonomia e sistema politico

Minelli registra un elemento di cambiamento positivo nei rapporti fra le confederazioni. L’atteggiamento dell’esecutivo ha facilitato involontariamente questo recupero dei rapporti unitari con la sua scelta di indebolire i corpi intermedi. Ciò è verificabile non soltanto nel rapporto con le organizzazioni sindacali e con la messa in mora della vecchia concertazione, ma anche tutto il terzo settore lamenta ormai da tempo l’assenza di un rapporto serio con l’esecutivo.

Si è recuperato dunque quel filo, che è il minimo indispensabile per poter intraprendere un eventuale percorso positivo nei rapporti unitari, qualsiasi sia poi la forma che voglia prendere. Il sindacalismo italiano è condannato ad aumentare il proprio tasso di autonomia in tutte e tre le confederazioni; è destinato a crescere nell’ambito dei possibili sbocchi del quadro politico di riferimento, anche se permane un bipolarismo anomalo. Ma il tasso di autonomia è destinato a crescere anche nel caso di una normalizzazione del sistema, in cui il centro-destra diventa più simile a quello delle realtà conservatrici europee ed eventualmente, in parallelo, anche il centro-sinistra si normalizza, creando le condizioni per un’alternanza di governo.

Per quanto riguarda la concertazione, si è tutti d’accordo sulla necessità di una correzione del 1993. Se dovesse prevalere uno schema in cui il modello di riferimento non è un federalismo di tipo cooperativo, ma un federalismo competitivo, sarebbe inevitabile guardare con particolare preoccupazione un intervento che indebolisce il punto di riferimento nazionale tendente a dare risposte di uguaglianza alle condizioni di lavoro in tutto il paese. Non va poi dimenticato che le stesse materie, che si intende consegnare ad esclusiva competenza delle regioni, hanno a che fare con diritti sociali non secondari. Non è indifferente il regno della riforma istituzionale. Perciò si dia un’attenzione particolare alla contrattazione sul territorio. Minelli ritiene che il livello di autonomia, è legato alla capacità di partecipazione dei lavoratori e dei pensionati alla vita sociale, il cui tasso attuale si rivela inadeguato. Il sindacato non riesce ancora ad intercettare la nuova realtà né a proporre un modello organizzativo in grado di rappresentare efficacemente le nuove forme del lavoro dipendente specie nelle piccole aziende. Andrebbe rivitalizzato il ruolo del sindacato nel territorio, vista la prevalenza nello stesso interesse del lavoratore della parte di retribuzione sociale, quindi: funzionamento delle grandi strutture di servizi, funzionamento del rapporto con l’ente locale, interesse al rapporto fra soggetto e territorio.

 

Andriani: con questo governo non è possibile

Silvano Andriani si concentra essenzialmente sulla concertazione. Non è concertazione un qualsiasi tipo di rapporto fra governo e sindacati, ma un rapporto sistematico che mette in campo l’intera politica economica del governo. La prima domanda è con chi si può fare la concertazione. In Europa, la concertazione è stata possibile solo con i governi pro labor, e l’idea che il sindacato possa attraverso le lotte imporre a qualsiasi governo una politica economica di sinistra, idea lungamente coltivata dal sindacato italiano, è sistematicamente fallita.

Ne abbiamo la prova evidente negli anni novanta, quando con la concertazione fatta per la prima volta con i governi in qualche modo pro labor si sono ottenuti dei risultati, che hanno comportato dei sacrifici per i lavoratori, ma che hanno fatto parte dello scambio per permettere l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Questo naturalmente non vuol dire che non si debba dialogare con i governi di destra, sapendo però che si dialoga per mettere delle toppe. Non pare dunque che con questo governo sia possibile una concertazione, nel senso appena descritto. Va detto che il modello del sindacalismo europeo è un modello che si rapporta ai partiti di sinistra. Un sindacalismo diviso e che fa riferimento non a sinistra ma sparpagliatamene è frutto dell’anomalia politica italiana. Ma anche il sindacalismo italiano dovrebbe intraprendere un processo di normalizzazione, il che non significa il venir meno della sua autonomia; i fatti ci dicono del resto che quando il sindacato, che ai partiti di sinistra si riferisce, non è più in sintonia con la sua politica, si arriva allo scontro, come è il caso della Germania, come è stato in passato quello dell’Inghilterra.

La seconda domanda: concertazione per che cosa? Si prenda come riferimento la concertazione degli anni novanta, l’unica nella storia della Repubblica che sia effettivamente stata realizzata e che ha dato i suoi frutti. È però una concertazione fatta in una determinata situazione, con un retaggio di politica economica che proveniva ancora dalla crisi degli anni settanta e con l’obiettivo di risanare i conti, di consentire all’Italia di entrare in Europa. Tuttavia essa non ha evitato che la quota dei redditi da lavoro sia diminuita e sia aumentata la disuguaglianza. Il contenuto della concertazione deve cambiare, rimettere in discussione il modello distributivo del reddito, della ricchezza, anche con lo scopo di riattivare un processo di generazione della domanda e determinare quindi un tasso di crescita adeguato. Con l’attuale governo questo tipo di discorso non è possibile, ma forse fra non molto questo sarà il tema su cui i sindacati dovranno confrontarsi con un nuovo esecutivo. Fin da ora si pone la questione di un riposizionamento verso la controparte confindustriale: su temi come l’economia della conoscenza, i modelli distributivi legati ad essa. Infine non si può ignorare che questo rapporto è oggi necessariamente decentrato, perché la politica economica è in una certa misura spostata a livello di regioni nelle sue componenti microeconomiche e anche nelle politiche fiscali. Sorge dunque un problema di decentramento dei processi di concertazione che chiama a sperimentare contenuti nuovi.

 

Pirani: concepire una nuova strategia

Pirani teme che il sindacato confederale rischi una crisi, data dall’inefficacia delle strategie perseguite in questa fase sia dalla CGIL con Cofferati che dalle dialoganti CISL e UIL. Non si sono ottenuti risultati stabili, ed è per questo motivo che si è realizzata una ripresa del confronto; che così, tuttavia, non può avere un grande futuro. Infatti il sindacato è in grado di formulare delle proposte efficaci, che sappiano rappresentare le dinamiche della società e dei propri associati o altrimenti rischia di diventare uno strumento inutile. È sotto gli occhi di tutti l’esempio della lotta dei pensionati in questi mesi, i cui risultati sono pressoché nulli e ciò vale anche per tanti altri settori. Sul piano della proposta egli nota gravi carenze, a cui non può certo sopperire il documento di Roma, collage di documenti preesistenti delle tre confederazioni sindacali, senza particolare sforzo di elaborazione o di innovazione. Insomma manca proprio l’idea di mettersi in discussione, di costruire percorsi comuni. Sulla contrattazione il massimo del risultato è una commissione impegnata a studiare le differenze fra le tre confederazioni, con la rinuncia ad affrontare la riforma della contrattazione e una politica salariale e contrattuale adeguata ai bisogni delle persone che si vogliono rappresentare. In quanto all’assenza di regole nel problema della rappresentanza, le regole ci sono tutte, non c’è la legge, tranne che per il pubblico impiego, ma i rapporti fra le categorie, se si esclude il caso politico dei metalmeccanici, sono stati tutti regolati da accordi tra le tre organizzazioni di categoria. La stessa capacità di eleggere le rappresentanze sindacali unitarie avviene sulla base di regole condivise. Quando ci si pone il problema delle regole, si sta in realtà parlando dell’idea di affidare a un terzo, in questo caso alla legge, la regolamentazione dei rapporti sindacali: tentativo velleitario, fallito con i governi di centro-sinistra, improponibile oggi.

Dire rappresentanza vuol dire ritrovare un rapporto con le persone, occorre tornare a parlare, creare dei luoghi di confronto. Dopodiché i tre milioni di artigiani, continuano a non avere rappresentanza. L’unico settore che fa eccezione è quello dell’edilizia, il cui sistema degli enti bilaterali va esteso ad altri settori dell’artigianato, riconoscendone il valore. Per quanto riguarda gli altri lavoratori, i precari, per i quali le collaborazioni coordinate e continuative costituiscono il contratto più diffuso, la battaglia sindacale è quella di creare dei percorsi di stabilizzazione; nel momento in cui questo riesce (si veda il contratto Telecom) nelle assemblee si è arrivati all’80-90 % dei consensi, dimostrando come un accordo sindacale adeguato permetta la risoluzione del problema. Questo ritardo sulle politiche contrattuali è dovuto alla mancata comprensione del meccanismo di scambio, quello realizzato con l’accordo del 23 luglio. Ormai le politiche monetarie sono fatte all’interno dell’Unione europea e quindi non ha più senso la fissazione di tassi nazionali di inflazione programmata, come base delle politiche salariali. L’altra grave carenza riguarda la democrazia economica, ormai siamo al balbettio. Sono inutili i grandi discorsi sulla concertazione, pur essendo migliorato il clima con l’arrivo di Montezemolo, se non viene posto insieme al tema dello sviluppo, dell’accumulazione anche il problema della redistribuzione. Pirani rileva come solo la Confindustria sia impegnata nella stesura del documento, mentre nessuno nelle tre confederazioni sta scrivendo una riga, per cui alla fine si metteranno sul tappeto l’Irap e tutte le questioni che interessano gli industriali, ma non ci sarà il recupero del drenaggio fiscale, né una politica fiscale più equa tanto meno un accenno di politiche contrattuali più adeguate. E allora c’è da chiedersi che concertazione sia questa. Bene, dunque, riprendere un dialogo senza illusioni, ma se manca una capacità di proposta, su cui creare il consenso, si verrà travolti. Se si rinuncia alla riforma della contrattazione, si contribuirà ad una crisi irreversibile del sindacalismo confederale italiano.

 

Reichlin: in gioco la rinascita nazionale

Alfredo Reichlin tiene a sottolineare come tutti i discorsi che si stanno facendo siano in un certo senso anacronistici, in quanto il vero nocciolo della questione è riconducibile a due termini: la rinascita nazionale o la decadenza irreversibile del paese. C’è stata una rottura profonda, in questi anni, del patto sociale o meglio ancora civile che regge il paese. La destra ha sfasciato questo paese, non ha fatto semplicemente una politica antilabor. Non esiste una politica economica oggi che non riparta da una ricomposizione di un patto sociale e una parte della Confindustria sembra averlo capito. Già in passato i grandi balzi in avanti dell’economia italiano sono stati originati da questo genere di condizioni: nel dopoguerra nel modo più eclatante e in misura minore con il governo Ciampi, quando ci trovavamo sull’orlo dell’abisso. È dunque fondamentale che si avanzi una proposta, che di fronte alla sconfitta elettorale appena incassata da Berlusconi ci si presenti sulla scena con delle idee sostenute anche dal padronato, dall’opposizione e dallo stesso presidente della Repubblica, aprendo così scenari del tutto nuovi che vanno al di là della semplice concertazione.

Per quanto riguarda l’unità sindacale, il discorso è riaperto. Riconfermando una costante del sindacato italiano, la sua politicità, che non va intesa come mancanza di autonomia o funzione di cinghia di trasmissione. Alle radici storiche della Repubblica, due partiti, due gruppi di partiti, che sapevano benissimo di appartenere a due campi opposti della guerra fredda e di avere due visioni della società radicalmente diverse, si misero insieme e favorirono, anzi, benedirono il patto di Roma, in quanto tutti e due avevano un comune interesse storico-politico, quello di dare un colpo alla vecchia Italia. Dopodiché cominciava la lotta nell’interesse a dare alle masse popolari rappresentate un posto diverso nella vita dello stato e del paese rispetto a prima, perché in qualche modo tutti e due i partiti erano figli degli esclusi.

Finché c’era la guerra fredda è comprensibile che non vi potesse essere unità sindacale, ma nell’attuale situazione italiana è auspicabile che un gruppo dirigente sindacale cominci a mettersi in un certo ordine di idee e ad avanzare qualche valida proposta.

 

Carrieri: unità rafforzata tra gli attori sociali

Mimmo Carrieri ritiene che per i sindacati ci sarà una prospettiva importante a patto di riformarsi e di fare i conti con alcune questioni di lungo periodo, che ne stanno erodendo le basi sociali e rappresentative. La prima è la difficoltà dei capitalismi europei, in particolare di Francia, Germania e Italia, che pone a tutti i sindacati un problema di ridefinizione delle proprie strategie e la ricostruzione di un patto sociale per lo sviluppo e il rilancio delle economie. La seconda questione è il passaggio all’economia dell’informazione, che in tutti i paesi rende le imprese sempre più piccole ed anche più volatili e quindi rende più complicata un’azione di rappresentanza dei soggetti collettivi. Infine la crescita del lavoro atipico, discontinuo. In molti paesi vediamo un declino dei tassi di sindacalizzazione. Non riescono a trovare cittadinanza piena i lavori discontinui, i lavori più qualificati, i giovani. Ci sono dunque processi di lungo periodo a cui si è poi aggiunto nel caso italiano, l’atteggiamento antilabor del governo, o l’orientamento della Confindustria di D’Amato, che ha messo in discussione la concertazione e poi ha assunto una posizione esplicitamente antisindacale. Quest’ultimo elemento congiunturale sembra si stia modificando, ma è solo uno dei tasselli che vanno a completare uno scenario comunque complesso.

La concertazione è ovviamente un orizzonte strategico rilevante per i sindacati, ma lo è solo per i sindacati, perché i governi vi ricorrono quando gli ritorna utile, e lo stesso gli imprenditori. È giusto che i sindacati continuino a parlare di concertazione, sapendo tuttavia che si tratta di una pratica di tipo triangolare che non è oggi ovviamente attuabile in Italia, perché questo strano matrimonio a tre ha almeno un soggetto, che per il momento rimane su posizioni ostili, anzi teorizza l’orientamento a decidere anche contro gli attori sociali. Ciò non impedisce agli stessi attori sociali di pensare a strategie di cooperazione, in cui sia riproposto uno scambio in funzione del rilancio del sistema italiano. Quali sono queste possibili strategie? In primo luogo, le politiche dei redditi, per le quali ci si deve chiedere, se si possano realizzare accordi bilaterali e non trilaterali. Si può, ad esempio, provare a costruire attraverso accordi interconfederali alcune ipotesi che siano di forte stimolo al rilancio della produttività e della competitività. Uno dei nodi dello scambio possibile riguarda allora un allargamento della copertura dell’attività contrattuale, che è stato uno dei punti critici dell’applicazione del protocollo del 1993, fortemente squilibrato perché inserito nel quadro di regole praticabili nell’ambito delle aziende di dimensioni maggiori. Circa due terzi del nostro apparato produttivo non sono stati infatti coperti dall’attività negoziale. Il secondo aspetto riguarda l’allargamento dei diritti e in qualche modo delle protezioni sociali a coloro che oggi ne sono privi.

Un terzo aspetto da considerare è quello del rilancio dei meccanismi di partecipazione dei lavoratori e della democrazia economica, a cui si lega ovviamente un problema di redistribuzione. Ciò però chiama ad occuparsi anche dei lavoratori che oggi hanno meno coperture contrattuali o hanno poca o nessuna tutela. Al primo posto va messo dunque l’allargamento della contrattazione o il potenziamento dei redditi per i già occupati, quelli già coperti dalla contrattazione. Una scelta che richiede aggiustamenti, anche nella prospettiva di un mantenimento del ruolo rappresentativo dei sindacati. Da parte della Confindustria poco si dice in proposito.

Sull’unità sindacale, l’oratore manifesta un certo scetticismo, non tanto sull’utilità dell’unità sindacale, ma su come essa si possa realizzare. Nell’ultimo periodo sono emerse due linee che sono entrambe poco stimolanti: la prima è quella del rilancio di un’unità organica, di cui non si capiscono né gli strumenti né gli approdi; la seconda è quella che è sotto gli occhi di tutti: una navigazione a vista con aggiustamenti quotidiani. Tuttavia non c’è dubbio che sia più necessario di prima costruire una coesione maggiore fra i sindacati. Come fare? Tenendo sotto controllo le tentazioni, e promuovendo seri correttivi riguardanti la rappresentanza e il rapporto con il sistema politico.

Per la questione della rappresentanza, la posizione secondo cui non sono praticabili interventi legislativi pare condivisa dalle tre confederazioni. Se mai in futuro se ne dovesse riparlare, si dovrebbero seguire percorsi diversi da quelli seguiti in passato dalla CGIL, che hanno prodotto tensioni con le controparti e divisioni fra i sindacati. Gli strumenti dovrebbero dunque essere in qualche modo più condivisi dai soggetti sociali, però nell’immediato in materia di regole di rappresentatività si possono fare solo accordi fra i sindacati, forse anche con le controparti. Per quanto riguarda la validità dei contratti, con qualche correttivo andrebbe bene la formula proposta da Terzi della democrazia rappresentativa con elementi di democrazia diretta perché non funziona la democrazia referendari.

Per quanto riguarda il rapporto con il sistema politico, il concetto di autonomia è un concetto troppo abusato e logoro, che non descrive bene i processi in atto. Negli ultimi anni non abbiamo visto poca autonomia sindacale, semmai ne abbiamo visto un eccesso, dovuto sia al fatto che i sindacati sono diventati più forti dei partiti, e quindi sono entrati nell’arena politica da soggetti protagonisti, sia anche al cambiamento indotto dalla presenza del bipolarismo, condizione inedita per il nostro sistema politico. Detto questo, è bene che ci siano delle regole concordate dalle tre organizzazioni, regole che condizionino il sistema politico bipolare più che esserne condizionate, cioè regole che consentano ai sindacati di avere un atteggiamento comune verso le coalizioni e i governi.

 

Passoni: un progetto per incidere sul confronto politico

Achille Passoni pensa che si debba prendere atto che un nuovo schema di unità sindacale è intervenuto dal 1984. Allora ci fu la divisione di San Valentino, poi alla fine degli anni ottanta è ricominciato un percorso unitario, mosso dalla crisi aziendale e dalla necessità di difendere il lavoro. Si è arrivati così alla divisione del 1992 e al successivo riavvicinamento nel 1993, dovuto più che altro ad un fatto esterno ovvero all’intervento di Ciampi e Giugni, che in un qualche modo costrinsero le tre confederazioni a tornare a ragionare insieme. Di nuovo una divisione e si è agli ultimi 18-20 mesi della nostra storia, e infine una ripresa del rapporto alla fine del 2003, anche qui in virtù di fatti esterni.

Insomma si può affermare con qualche schematismo che dal 1984 non c’è più uno scatto unitario. Sarebbe dunque opportuno riflettere un po’ di più su questi vent’anni, per vedere che cosa ci hanno insegnato. Ovviamente in questo scenario cambiano le forme e i modi della ripresa unitaria e della divisione, ma sostanzialmente non c’è nessuna novità. Ora la domanda legittima è: fra sei mesi si rischia di ritrovarsi nelle stesse condizioni di prima, con una nuova divisione in atto?

Affrontando il tema dell’autonomia, il vero problema è se si è in grado o meno di sanare il gap intervenuto in questi 20 anni. Così come Reichlin chiedeva quale proposta avanzare di fronte all’attuale situazione catastrofica e Pirani criticava il sindacato per l’atteggiamento di attesa di una proposta da parte della Confindustria, Pezzotta parla della mancanza di un’idea progettuale unitaria. La stessa piattaforma unitaria è ancora un’idea difensiva, Se il movimento sindacale riuscisse a fare quel salto che tutti singolarmente riteniamo necessario, anche la questione del rapporto fra sindacato, la sua unità e il quadro politico muterebbe. In passato il tema dell’autonomia sindacale e del rapporto con il quadro politico perfino nel parlamento trovava espressione nei due grandi partiti, che alla fine arrivavano ad una mediazione. In un sistema bipolare lo schieramento si definisce prima, quando si chiede all’elettore di votare per un’idea comune ad uno schieramento, sulla quale poi si governerà se si vince. Il programma di governo non si fa dopo il voto. Una declinazione dell’autonomia esattamente negli stessi termini del passato non è dunque possibile. Se il sindacato italiano riuscisse a costruire un progetto che servisse al paese, potrebbe incidere anche sulla rappresentanza politica, a cui andrebbe offerto questo prodotto e a cui bisognerebbe chiedere se ritiene di poterlo accogliere come un punto di vista nella costruzione del proprio programma elettorale. Un ultimo punto riguarda la centralità del tema del lavoro nella riflessione politica, e il fatto che questo abbia una sua visibilità all’interno della forma partito, senza per questo voler riproporre le sezioni di fabbrica, ma semplicemente prevedendo una sede nella quale il lavoro possa esercitare la propria rappresentanza.

Per quanto riguarda la concertazione, egli nota che un sistema di regole serve a difendere i più deboli, ed è necessario a tutti i livelli per assicurare alla rappresentanza sociale ha un luogo dove concordare le questioni che l’attengono, anche se un sistema che dia garanzie maggiori di quello del 23 luglio è difficile da immaginare.

Sulla rappresentanza, fatto salvo quanto giustamente detto da Carrieri, continua ad avere valore, con tutti gli aggiustamenti del caso, l’analisi che Agostini fece nel 1989 in CGIL: questo sindacato è ancora fordista, fuori dalla grande fabbrica non solo industriale, bensì anche pubblica (ospedali, comuni ecc.) esso ha gli stessi problemi di 15 anni fa. Il problema, dunque, resta questo: come fare a rappresentare il lavoro disperso, se si rimane nella logica per cui la Fiat è forse il centro del mondo.



Numero progressivo: E33
Busta: 5
Estremi cronologici: 2004, luglio
Autore: Tiziana Prina
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, luglio 2004