IL PARTITO NUOVO

Scritto di Riccardo Terzi sulla storia del PCI

1) È un’opinione diffusa, e quasi scontata, che il contributo più originale dell’azione politica di Palmiro Togliatti stia nella costruzione di un partito di tipo nuovo, capace di modellare le proprie strutture tenendo conto di quanto si è venuto modificando nell’organizzazione della società e del potere, capace quindi di imprimere nuova vita ai principi del leninismo, mediante un’analisi spregiudicata della realtà e un’elaborazione creativa. È questo il partito che abbiamo ereditato e nel quale abbiamo formato le nostre capacità intellettuali. Questa eredità non deve però essere accolta passivamente, ma deve essere ripercorsa nelle sue tappe, e sviluppata sul terreno teorico oltre che operativo. Stanno di fronte a noi quindi due compiti di ricerca: ricostruire il processo che ha portato alla formazione del partito nuovo, tenendo fisso lo sguardo alle vicende interne del partito e al contesto politico-sociale nel quale il partito si collocate in secondo luogo studiare i presupposti teorici da cui discende la nuova teoria del partito, trovare il nesso che lega la teoria del partito alla analisi della struttura capitalistica. Ai fini di questa ricerca sarebbe necessaria una documentazione più vasta di quella che qui viene presupposta, e un ripensamento più radicale. Ci limiteremo quindi a fornire un primo parziale contributo, rischiando errori di valutazione, per avviare un lavoro che certamente troverà risposta e sviluppi nel partito e nel movimento operaio.

 

2) Il partito che sorge a Livorno è ben lontano dal prefigurare compiutamente gli elementi di novità che daranno successivamente un’impronta originale al Partito Comunista Italiano. La frazione comunista che esce dal PSI e rompe con la vecchia tradizione socialista si pone un obbiettivo ancora ristretto: quello di costruire un partito disciplinato, funzionante secondo delle norme precise, rigoroso nella selezione dei militanti, preparato ad affrontare il momento decisivo dello scontro di classe. Prevalgono quindi delle preoccupazioni interne di organizzazione, e l’azione esterna del partito viene vista quasi esclusivamente in funzione di uno scontro di classe violento. Vi è chiara coscienza dei limiti invalicati del vecchio socialismo, parolaio e inconcludente, ma la risposta è ancora insufficiente e volontaristica.

Nasce un partito che si propone di difendere l’integrità dei principi e di formare dei quadri militanti, che tende ad uno sforzo disciplinato della volontà, ma che non riesce ancora a darsi degli obbiettivi di lotta politica ben definiti. Il destino della classe operaia è affidato ad «un nucleo, anche ristretto, di militanti che tengano assieme, a costo di qualsiasi sacrificio, il partito rivoluzionario, che garantiscano l’integrità dei suoi principi e della sua tattica, la continuità della sua vita.»[1]

In tutto questo, certamente, c’è una spinta positiva, c’è il superamento di ogni visione meccanicistica del corso della storia: l’evoluzione del capitalismo prepara soltanto le condizioni materiali per l’avvento di una società nuova, e a tali condizioni deve aggiungersi, non ultima, la volontà degli uomini, il loro sforzo organizzato, la coscienza di sé che unifica la classe e la dispone alla lotta.

«L’uomo si è ribellato all’economia, la coscienza e la volontà contano di più delle leggi “scientifiche”.»[2] La rivoluzione d’ottobre esercitava un’influenza profonda: era la prova visibile che la trasformazione socialista avviene se vi è una volontà che si è fatta organizzazione, anche là dove le condizioni di partenza non sono le più favorevoli. Quella che Gramsci aveva definita «la rivoluzione contro il Capitale» spazzava via tutti i dogmi del socialismo accademico ed evoluzionista, e dava slancio alla costruzione di un partito nuovo, deciso a far proprio fino in fondo l’insegnamento leninista.

Non saremo certamente noi a misconoscere la funzione di quell’atto di volontà che ha dato corpo al partito comunista. Lo stesso Togliatti, ripensando a quella esperienza e sottolineandone gli errori, mette in luce ad un tempo il nocciolo positivo che essa conteneva. «L’errore conteneva, cioè, un impulso di ordine passionale, di ordine morale e di ordine politico, senza il quale è probabile che il partito comunista o non si sarebbe creato o non si sarebbe creato nel modo come si creò, ricevendo anche da quell’impulso qualche cosa che nel seguito degli sviluppi risultò essere largamente positiva. È vero, ci fu un errore. Gramsci sentiva, però, che a quell’impulso si doveva aderire, per riuscire a trasformarlo in un elemento che non fosse più puramente di negazione, ma positivo, costruttivo.»[3]

Il problema si trova quindi ad essere spostato in avanti: come utilizzare quell’impulso di volontà, come ricavarne una giusta linea politica. È qui che cominciano le differenziazioni all’interno della frazione comunista che a Livorno si costituisce come partito.

Gramsci e Togliatti entrano nel partito con un’esperienza già ricca, con l’esperienza compiuta a Torino intorno all’Ordine nuovo. Non vogliamo esaminare qui quale sia stato il valore di quell’azione politica, ma una cosa è certa, che è stato possibile superare i limiti del bordighismo anche grazie a quell’esperienza. Il movimento dei Consigli di fabbrica aveva posto il problema del potere radicandolo nella realtà dei rapporti di classe, aveva agito direttamente sulla classe operaia, evitando i limiti angusti del corporativismo, ma altresì le astrattezze dottrinarie.

Ora, nel partito modellato secondo i principi di Bordiga, queste esigenze andavano perdute. Il partito si riassumeva tutto nella disciplina e nella difesa dei principi; quell’impulso positivo di volontà da cui il partito aveva preso origine diventava astratto volontarismo. Togliatti critica la concezione bordighiana del partito sottolineando anzitutto la necessità di disporre di «un apparato capace di svolgere un lavoro rivoluzionario fra le masse.»[4]

L’elemento essenziale, che qualifica il partito rivoluzionario, deve essere, per Togliatti, il rapporto con la classe, un rapporto non solo ideologico, ma reale. È proprio questo rapporto che sfugge nella concezione di Bordiga. Il partito bordighiano è soltanto un insieme di idee e di programmi, una sovrastruttura, un complesso di principi immutabili che rifiutano qualsiasi verifica.

È giusta dunque la definizione che dà Togliatti del bordighismo come una forma di idealismo. In questo quadro teorico, infatti, il partito è un partito di classe solo perché è composto da militanti che hanno fatta propria la causa del proletariato, e non perché entri in un rapporto reale con la classe. Il punto di partenza è dato dalle idee, e non dalla realtà materiale dei rapporti di produzione.

Quali sono le conseguenze politiche di questo atteggiamento teorico? Il partito si muove secondo una logica aprioristica, e può incontrarsi col movimento reale delle masse solo occasionalmente, quando questo movimento coincida con i principi dottrinari del partito. Il legame fra le masse e l’avanguardia viene spezzato: l’avanguardia non è in grado di dirigere il movimento, ma può solo attendere che il movimento spontaneo provochi quello scontro violento di classe, per poter allora intervenire seguendo i suoi astratti principi. Ma, anche in questa occasione, il partito sarebbe ormai tagliato fuori da ogni rapporto con le masse, e incapace quindi di riprendere una funzione dirigente, di mettersi alla testa dell’azione rivoluzionaria.

La stessa sorte tocca alla tattica del partito. Per Bordiga «1. Il partito deve determinare la sua tattica sulla base dei suoi principi e del suo programma generale, che rimangono immutabili in tutte le circostanze. 2. L’analisi della situazione deve servire unicamente a confermare le prospettive che il partito ha tracciato e il programma che ha fissato conformemente a queste prospettive. 3. Parallelamente al programma e ai principi teorici, che restano immutabili, esiste un insieme di formule tattiche, ugualmente immutabili, a cui il partito deve ispirarsi nella sua azione e che limitano le sue possibilità.»[5]

In altre parole, nella situazione si vuole trovare solo quello che si è già presupposto, e quindi la tattica si riduce ad una formula vuota, in quanto non c’è più una realtà in movimento alla quale di volta in volta debba conformarsi. È possibile trovare in questa critica al bordighismo già i germi teorici della concezione del partito di massa. E questa espressione è già usata da Togliatti, in un senso certamente più restrittivo, per sottolineare l’esigenza di un legame organico e permanente fra l’avanguardia e la massa, quel legame che il movimento dei Consigli di fabbrica aveva cercato di porre in atto nel cuore stesso della fabbrica capitalistica.

L’azione dell’avanguardia politica sulla classe operaia ha la funzione di far maturare nella classe la coscienza dei propri compiti politici generali, è una azione in certo modo esterna, che si sovrappone alla immediatezza spontanea del movimento. «Nessun culto, quindi, della spontaneità; cioè nessuna tendenza a idealizzare le forme dell’azione operaia nella fabbrica e a chiudersi in esse, ma sforzo consapevole per portare la classe operaia ad una più elevata coscienza del proprio compito nazionale.»[6]

È questo un punto fermo già nel corso dell’esperienza torinese, ed è un risultato teorico che si muove sulla scia del più puro leninismo. È una acquisizione non solo contingente, ma di principio: il partito di classe nasce quando riesca a trascendere la spontaneità della classe, che lo condannerebbe ad una posizione di retroguardia e puramente solidaristica, e a mantenere tuttavia un legame von la classe non solo ideologico, ma fatto di organizzazione e di direzione reale. La sua azione è esterna, ma non può che partire dal livello determinato raggiunto dai rapporti di classe, non può non tener conto del livello di maturità soggettiva conquistato dalla classe operaia. Si tratta quindi di fondare l’azione del partito non su astratti e aprioristici schemi teorici, ma sull’analisi dello sviluppo delle forze sociali, considerate nei loro elementi oggettivi e soggettivi. Questo è il nocciolo della teoria del partito di massa: un partito cioè che si propone di essere in ogni momento lo strumento della lotta delle masse, non uno strumento qualsiasi, ma l’unico dotato di una teoria generale e capace quindi di unificare al massimo livello di coscienza i singoli momenti della lotta. «Questa unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della ‘disciplina’, è appunto l’azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa.»[7]

Gli sviluppi successivi della teoria del partito di massa non modificano questo punto di partenza, ma ne saranno la traduzione politica nei termini imposti da una situazione profondamente rinnovata. Quello che cambia è il rapporto fra il carattere esterno, di avanguardia, dell’azione del partito e il suo collegamento con le masse, è cioè il terreno su cui si realizza praticamente l’azione dirigente del partito; questa azione può configurarsi essenzialmente come rapporto fra un’avanguardia ristretta e la massa, o anche come sforzo di promuovere già fin da oggi una partecipazione delle masse all’azione politica del partito. Ma su questa questione potremo soffermarci più avanti.

 

3) Importa qui riprendere un tema al quale abbiamo già accennato: quello della disciplina. La disciplina rappresentava, per il partito sorto a Livorno, una norma fondamentale della sua vita interna, ed era questa, certamente, un’esigenza obbiettiva, che faceva compiere un passo in avanti all’organizzazione di classe. Ma solo nel quadro di una concezione leninista, quale è quella sviluppata da Gramsci e da Togliatti, la disciplina acquista un preciso significato teorico e non si riduce ad una esigenza pratico-organizzativa. Il partito si fonda non sulla spontaneità della classe, ma su di un elemento esterno, entra in rapporto con la classe per dirigerla e per orientarla. E pertanto, nella sua organizzazione interna, il partito deve salvaguardare la sua capacità dirigente, ovvero la capacità di darsi una sua linea politica teoricamente fondata. Ora, questo carattere teorico del partito non può essere garantito se non per mezzo di quella disciplina che è inerente al concetto stesso di teoria scientifica. Si tratta quindi essenzialmente di una disciplina intellettuale, e solo nel quadro di questa concezione non si rischia di approdare ad un autoritarismo arbitrario. «Il partito è un “intellettuale collettivo”, perché una classe subalterna, la quale vuole affermare la propria egemonia e giungere alla conquista del potere non vi giunge spontaneamente, senza una direzione.» «Una massa umana non diventa indipendente per sé, senza organizzarsi, e non vi è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzati e dirigenti.»[8]

Ecco dunque la disciplina diventare un’esigenza obbiettivo della classe nella sua azione rivoluzionaria, un fatto non arbitrario, non coercitivo, ma strumento di maturazione teorica. Sulla base di questi presupposti, il problema della libertà nel partito può essere posto al di fuori di ogni schema democraticistico.

L’esigenza della libertà non si pone in contraddizione con le disciplina, ché anzi la disciplina è garanzia di una libertà che non sia, essa, arbitraria; tale esigenza pone invece il problema del fondamento del potere e del modo con cui il potere si costituisce. Si tratta cioè di stabilire se i fondamenti teorici del partito, su cui si basa l’interna disciplina, siano effettivamente la razionalizzazione del movimento di classe, e se l’elaborazione e lo sviluppo delle teoria siano compiuti non da una burocrazia chiusa e ristretta, tesa a mantenere il monopolio del potere, ma delle forze vive del partito, secondo un processo dialettico che utilizza e unifica tutte le spinte reali, tutte le energie. È questo ancora oggi l’unico modo corretto di porre il problema della libertà e della democrazia: le libertà non si trova là dove semplicemente esiste una molteplicità tollerata di opinioni, dove non si esige una disciplina intellettuale, dove si è rinunciato alla intransigenza teorica. Il problema è un altro: è quello delle partecipazione dei militanti alla elaborazione di una linea politica, e quindi, come condizione pregiudiziale, della formazione delle capacità teoriche richieste della complessità della battaglia politica.

In termini crudi, la democrazia bisogna meritarsela, mediante uno sforzo incessante di formazione e di autodisciplina intellettuale. Di qui la forza del partito comunista, che unisce libertà e disciplina, e sconfigge in partenza ogni velleità libertaria, ogni attentato all’unità e alla scientificità dell’azione del partito.

I problemi di organizzazione Sono quindi problemi di linea politica, e ogni separazione di questi due momenti è segno di opportunismo, sia quando si antepone l’esigenza di una astratta libertà alla linea politica del partito, o si teorizzano due fasi distinte, per cui prima ci si organizza e poi si svolge il lavoro politico, sia quando le linea politica non si fa organizzazione, non richiede uno sforzo disciplinato. In tutti questi casi, il partito si chiude in se stesso, si isola delle masse, sfugge ai compiti dell’attività politica. Sarà un partito settario, tutto concentrato nei problemi interni di organizzazione, o un partito socialdemocratico che ha fatto della tolleranza e dell’astratta libertà la sua linea politica, che ha rinunciato al rigore teorico. «Il partito si organizza nel lavoro, nella lotta.»[9] Tutta la sua attività deve essere in funzione della lotta delle masse, di cui rappresenta l’avanguardia organizzata.

Ed è evidente, per le cose già dette, che questa funzionalità del partito al movimento delle masse non significa affatto che il partito faccia propri i limiti dell’azione spontanea, ha anzi il compito di rimuoverli mediante la sua azione dirigente. Va, su questo punto, battuta un’altra tendenza opportunista, che respinge il modello leninista del partito in quanto rappresenterebbe una cosa artificiale, una realtà che si sovrappone arbitrariamente al movimento delle masse. Secondo questa posizione, che colpisce al cuore l’essenza della teoria leninista, «il partito si sarebbe organizzato da sé, naturalmente, dietro la copertura del movimento delle masse, di cui dovevamo aspettare, quindi, gli sviluppi.»[10]

Anche questa forma di opportunismo si risolve dunque nell’inerzia politica del partito.

 

4) Avanguardia e movimento di massa, organizzazione e azione politica; sono, queste, polarità inscindibili, il cui equilibrio deve essere deciso dall’azione intelligente del partito, muovendo dalle reali condizioni di partenza. Non basta affermare questo legame al livello teorico, ma bisogna realizzarlo praticamente, mettere in movimento cioè delle forze che diano vita ad un processo dialettico incessante. Così, l’avanguardia è veramente tale anche nella misura in cui esercita un’azione di conquista e allarga le proprie file, coglie tutte le possibilità di lavoro che esistono al di fuori del partito; e nello stesso tempo compie una selezione, richiede una presenza militante, combatte ogni tendenza a trasformare il partito di classe in un partito d’opinione. Sarebbe profondamente errato considerare l’avanguardia da un lato e le masse dall’altro, come entità separate e già definite una volta per tutte. Vi è un rapporto reciproco: l’avanguardia si forma nel vivo della lotta di classe, ne trae i suoi quadri militanti, e agisce direttamente sul movimento di classe, superando e modificando le tendenze spontanee. La condizione perché il partito non si burocratizzi è che ricerchi una verifica nella lotta delle masse, che voglia essere uno dei fattori reali che determinano questa lotta. Il che significa anche operare une selezione, darsi una direzione che rappresenti il movimento nella sua forme più cosciente, allargare il numero dei compagni attivi. Un partito è burocratico quando appunto vi è una direzione chiusa, che respinge ogni verifica e ogni rinnovamento, e vi è, all’estremo opposto, un largo numero di compagni inattivi. Sono, questi, problemi a cui Togliatti ha prestato una seria attenzione, sforzandosi di elevare il concetto di “membro del partito”, di organizzare gli strumenti necessari per l’azione di conquista verso lo masse esterne del partito, di indicare le forme di divisione del lavoro che permetterebbero una più razionale utilizzazione delle energie, di tutte le energie di cui il partito può disporre. Queste attenzione era necessaria perché i problemi di organizzazione non fossero sottovalutati, o ridotti a problemi puramente teorici, perché l’organizzazione non si risolvesse nell’efficienza burocratica, perché fossero vinte le tendenze passive, gli atteggiamenti di comodo che teorizzano la passività inevitabile delle masse o della base del partito.

Trattare dei problemi di organizzazione vuol dire trattare delle linea politica; questa affermazione non è solo la scoperta di un nesso teorico generale, è qualcosa di ben più concreto e ricco di sviluppi, in quanto, secondo la concezione delineata, il partito entra nel movimento di classe come uno dei fattori determinanti, si muove partendo delle condizioni oggettive, del livello raggiunto dei rapporti di classe, ma queste condizioni oggettive vengono poi modificate dall’azione del Partito. Per questo, non può darsi una teoria del partito senza una strategia del partito, e non per un semplice gusto di completezze, ma perché vi è un legame oggettivo, nelle cose, fra quello che il partito è e l’azione politica che conduce.

Ora, una strategia del partito consta essenzialmente di due elementi: l’analisi della dislocazione, reale e tendenziale, delle forze sociali, del grado di sviluppo delle forze produttive, della struttura del potere, in una parola la definizione scientifica del punto di partenza da cui muove l’azione del partito; in secondo luogo l’individuazione delle forze motrici della rivoluzione, del blocco di forze sociali che il partito deve costruire per arrovesciare i rapporti di potere.

Uscito delle secche del bordighismo, il partito comunista procede rapidamente in questa direzione, e ora veramente si emancipa dai limiti della tradizione socialista, che mancava di questo senso «delle rotture del blocco storico dominante o della creazione rivoluzionaria di un blocco nuovo»[11], mancava quindi di una strategia in senso proprio. Di fronte all’insorgere del fascismo, non bastava sottolineare il carattere di classe di questo movimento, non bastava dire che esso era una variante delle dittatura della borghesia; era necessario individuarne concretamente le basi sociali, definire il ruolo specifico della piccola-borghesia, del capitalismo agrario e del capitalismo industriale, vedere quali nuove contraddizioni si aprivano e come potesse svilupparsi l’azione delle forze rivoluzionarie per rompere il blocco della reazione.

Con la nozione di “blocco storico” si intende una determinate formazione storica, nelle sue componenti strutturali e ideali con la coscienza dell’azione reciproca che si svolge fra struttura e sovrastrutture. Una strategia del partito deve quindi investire anche le forze politiche e le correnti ideali; si tratta di segnare le frontiera della lotta di classe, di definire le forze motrici della reazione e della rivoluzione, e di operare dunque perché il terreno dell’azione rivoluzionaria si allarghi e nessuna forza vada perduta.

Questo non può non riguardare anche la struttura del partito; il partito è una avanguardia se in se le forze sociali d’avanguardia, se in se stesso comincia a realizzare quel blocco storico rivoluzionario cui è affidato il compito di rovesciare i rapporti di potere. In questo senso, partito di avanguardia e partito di massa coincidono, in quanto essere l’avanguardia significa organizzare determinate forze sociali e promuovere all’interno del partito il loro rapporto organico.

Bisogna evitare un infantilismo quello di mitizzare il blocco storico e di attendere quindi passivamente l’avvento. Si tratta invece di un’azione da costruire partendo delle sue basi, considerando quindi anzitutto la funzione delle lotte immediate. «Gli obiettivi rivoluzionari servono di guida anche nelle lotte immediate che orientano e illuminano, così come le lotte immediate servono a scoprire e indicare le linee fondamentali di organizzazione del nuovo blocco storico che, attraverso la rivoluzione e nella marcia verso di essa, afferma se stesso come forze dirigente nazionale.»[12]

In secondo luogo, si tratta di considerare come questo processo storico passa attraverso le mediazione delle forze politiche. Anche qui, perché questo problema venisse affrontato nel giusto peso, era necessario superare i limiti settari e guardare con maggior fiducia alla possibilità di un’azione unitaria. La scelte di Livorno era una scelta giusta, in quanto ricostituiva il partito su basi teoriche rinnovate, ma alla condizione che fosse seguita una vasta azione politica tesa a recuperare determinate forze, e costruire un fronte unitario.

L’alternativa non è fra une politica unitaria e una politico di isolamento, ma il problema è di sapere quale sia la forza dirigente del movimento unitario.

Per questo era necessario togliere alle tradizione socialista la guido del movimento di classe, e battere le tendenze riformiste, per impostare poi secondo una prospettiva diversa la politica unitaria, con la presenza egemonica di un partito rivoluzionario e leninista. Da questa impostazione esce un quadro rigoroso del processo rivoluzionario, in cui nulla perduto dell’intransigenza di classe, e si acquisisce la coscienza di una pluralità di forze, sociali e politiche, che debbono spingere in avanti tutto lo schieramento di classe.

Il massimo di politica unitaria dunque, e il massimo di chiarezza politica per questo, ogni prospettive di unificazione del movimento operaio non può essere accetta se parte su basi equivoche, se si risolve nell’unità fittizia voluta delle socialdemocrazia. «Il partito unico delle classe operaie deve essere un partito completamente libero e per sempre libero da ogni influenza diretta o indiretta del riformismo.»[13]

Esce già, dalle cose dette, la rappresentazione di un partito nuovo, che applica alla situazione italiana i principi metodici del leninismo, che si propone di realizzare una sua egemonia mediante un rapporto con le masse e con le forze politiche. «Questo partito spezza in modo definitivo il vecchio provincialismo anche delle più avanzate tre le correnti di pensiero e politiche del passato; adegua il pensiero e l’azione alle più avanzate attuazioni internazionali; ristabilisce una piena circolazione e un contatto stretto fra il progresso per cui si lotta in Italia e quello per cui lavorano e lottano le forze sociali di avanguardie nel mondo intero, a Oriente e ad Occidente.»[14]

 

5) Con la forza di questo patrimonio, il partito si accinge a sviluppare le linee della sua strategia, alla luce degli sviluppi nuovi della situazione politica. Nell’economia di questa ricerca, sarà necessario sottolineare soltanto quegli elementi che imprimono un volto nuovo al partito, negli anni dell’ultimo dopoguerra. La situazione oggettiva, non c’è bisogno di dirlo, è profondamente mutata, e consente uno sviluppo originale di determinati motivi teorici, già presenti in nuce in tutta l’esperienza precedente. È questo il periodo – sono gli anni della Liberazione e quelli immediatamente successivi – in cui Togliatti lancia le parola d’ordine del partito nuovo, e si impegna a delineare i caratteri di questa nuove formazione politica. Nuovo rispetto a che cosa? Credo si possa sostenere con tranquillità che nulla va perduto dell’elaborazione precedente, che la novità sta nella situazione oggettiva che permette di dare una più ampia portata a certe implicazioni teoriche. Nuovo è anche il linguaggio con cui si esprime il partito, un linguaggio più lineare, più accessibile, perché si rivolge a delle masse più larghe, perché intravede concretamente la possibilità di assumere un ruolo dirigente in tutta la vita nazionale.

La funzione nazionale del partito: ecco il primo tema che viene posto di fronte alle masse, che viene indicato ai militanti perché sappiano modificare il loro lavoro. Battuto il fascismo, il partito della classe operaia, che ha diretto la lotta di liberazione, deve presentarsi come nuova forza dirigente, deve assumersi dei compiti costruttivi, e non solo di propaganda, deve svolgere cioè une funzione di guida nazionale. Il partito di classe diventa partito nazionale nel momento in cui la classe operaia è matura per rivendicare e sé il potere, le funzioni della direzione politica; quando cioè l’universalità della rivoluzione proletaria, che è emancipazione dell’intera società, ha un valore non solo teorico, ma politico, in quanto si concreta in precise alleanze politico-sociali.

Possiamo discutere ancora a lungo se tale maturità di fatto esisteva nell’immediato dopoguerra, o se non prevalevano invece illusioni alimentate dei successi della lotta antifascista. Ma una cosa è certa: che quella parola d’ordine si muoveva lungo una linea teorica già sperimentata, era la traduzione immediata di quella strategia volta e costruire un blocco storico di forze di avanguardia, diretta dal partito della classe operaia. Ed è una linea che è andate avanti, definendosi, precisandosi. Quello che inizialmente era un appello all’unità delle forze antifasciste, che lasciava aperti molti dei problemi della trasformazione socialista è diventata una politica delle alleanze definite nei suoi momenti tattici e strategici.

Ma quando si parla del “partito nuovo” ci si riferisce anzitutto alle natura di massa del partito. Anche qui va avanti un discorso già avviato, continua quello sforzo di stabilire con le masse un rapporto reale e organico, che già è stato sottolineato. Se è giusto rivendicare questa continuità dell’azione del partito, sarebbe però superficiale annullare il problema, fare solo una questione di adeguamento alle condizioni esterne più favorevoli. C’è qualcosa di più e di nuovo. Non soltanto il carattere di massa del partito riceve uno sviluppo quantitativo tale da provocare un salto di qualità, ma tutta la vita interna del partito riceve un significato nuovo, in quanto è già per se stessa una conquista, un atto costruttivo che mette in movimento una struttura democratica complessa.

L’iscritto al partito non è più soltanto un militante disposto a sacrificare agli obiettivi finali della lotta i suoi interessi immediati, ma trova nel partito, nella sua articolazione democratica, uno strumento positivo di soluzione dei suoi problemi, di formazione intellettuale, di superamento delle lacerazioni di un’esistenza affidata alla cieca legge del profitto.

La “democrazia interna” sta a significare questa esigenza; non è un problema giuridico, ma di sostanza, non è tolleranza, me unificazione e costruzione di nuove prospettive. Lo sviluppo della democrazia borghese ha sprigionato energie, che oggi non trovano più modo di svilupparsi all’interno di una prospettiva puramente borghese; lo stato si organizza in senso burocratico, lo sviluppo monopolistico aggredisce tradizionali autonomia della società civile, la vita del singolo è scossa, precaria. Ecco allora la necessità di un partito capace di convogliare tutte queste aspirazioni, di fornire già in se stesso, con la sua organizzazione, la via di una soluzione; la necessità di orientare in una direzione socialista tutto le istanze democratiche presenti nella società.

È un compito nuovo, che esige un partito nuovo; un partito che mantenga la sostanza del concetto di disciplina ma si liberi rapidamente di ogni incrostazione burocratica, di ogni strozzatura gerarchica. Il partito non è più una piccola schiera di propagandisti votati alla disciplina, ma è une realtà sociale complessa, che va regolata cercando di affermare già fin da ora dei valori positivi.

Le svolta del XX Congresso del PCUS fu di grande peso nella definizione delle natura democratica del partito, in quanto poneva di fronte al movimento operaio, con toni anche drammatici, il pericolo sempre risorgente di una degenerazione burocratica e di un isterilimento teorico nella vita del partito. Non si poteva sfuggire ad una ricerca che individuasse i nodi da sciogliere e i limiti da superare.

Bisognava affrontare il problema del centralismo democratico, andando oltre la formula e cogliendone la sostanza politica. Il punto d’approdo, e cioè la definizione del partito di massa, come strumento capace di convogliare nella sua azione tutte le istanze positive, capace di essere le mediazione concreta fra le masse popolari e gli istituti democratici, fra gli obiettivi immediati e la prospettiva finale, ci pone di fronte a nuovi problemi.

La direzione politica unitaria non può essere semplicemente garantita dalla capacità dei dirigenti. Quello che il partito è, la sua struttura e il modo con cui organizza le masse, interessa sempre più da vicino la sua linea politica.

Il carattere d’avanguardia del partito può essere garantito solo se la sua linea politica e le forme della organizzazione sono sottoposte ad un vaglio teorico rigoroso. Bisogna definire qual è nel paese l’avanguardia reale e cioè le forze sociali progressive, definire quindi quali masse il partito deve organizzare, e, in vista di quali obbiettivi. Il partito e la sua linea politica si legano strettamente, e per questo il partito deve definirsi anche in relazione alle altre formazioni politiche. Anche qui il XX Congresso ha fatto compiere un passo in avanti, ha spinto il nostro partito a ricercare le vie di una organizzazione pluralistica della società, che rifletta le caratteristiche originali di formazione del blocco storico rivoluzionario. Senza però mitizzare il pluralismo, senza farne l’unico elemento distintivo della democrazia, senza rinnegare quindi esperienze che sono sfociate in un’organizzazione unitaria della società, superiore per qualità ad ogni democrazia borghese. “Nei paesi tuttora capitalistici dove il movimento operaio e popolare sia molto forte e sviluppato, è tutt’altro che da escludersi la ipotesi di profonde trasformazioni socialiste attuabili in presenza di una pluralità di partiti e per iniziativa di alcuni di essi. Nella Unione Sovietica di oggi, però, pensare a una pluralità di partiti ci sembra impossibile. Da che parte verrebbero fuori? Per decisione dall’alto? Sarebbe un bel processo democratico! Bisogna riconoscere che non solo esiste una omogeneità sociale dovuta alla scomparsa delle classi capitalistiche, non solo esiste una omogeneità politica che si esprime con l’alleanza tra gli operai e i contadini, ma esiste una forma di unità della vita civile e della direzione politica che è sconosciuta e forse nemmeno capita, qui, nel mondo “occidentale”. La stessa nozione di partito è, nell’Unione Sovietica, qualcosa di diverso da ciò che noi intendiamo sotto questo termine. Il partito lavora e combatte per realizzare e sviluppare il socialismo, ma la sua opera è essenzialmente di natura positiva e costruttiva, non di natura polemica contro un ipotetico oppositore politico interno.

L’“oppositore” contro cui si batte è la difficoltà oggettiva da superare, il contrasto da risolvere lavorando, la realtà da dominare, la sopravvivenza del vecchio da distruggere per far avanzare il nuovo, ecc. Le dialettica dei contrasti, che è essenziale per lo sviluppo della società, non si esprime più nella competizione tre diversi partiti, di governo o di opposizione, perché non esiste più né una base oggettive (nelle cose), né una base soggettiva (nell’animo degli uomini) per una competizione simile. Si esprime all’interno stesso del sistema unitario che comprende tutta una serie di organizzazioni coordinate le une alle altre (partito, soviet, sindacati, ecc., ecc.).»[15]

Questa lucida analisi dei problemi della società sovietica illumina anche di un senso nuovo le prospettive del pluripartitismo, che deve assumere in sé un profondo sforzo unitario e superare radicalmente le forme e i miti della democrazia borghese. L’eredità di Togliatti sta in questa aderenza viva alla situazione italiana che si armonizza totalmente con lo spirito internazionalista, nella ricerca di una via italiana che faccia proprie le conquiste, pratiche e teoriche, di tutto il movimento operaio.

Come questa eredità debba incarnarsi nelle scelte politiche di oggi è un problema aperto. Abbiamo e disposizione una forza ideale che non deve andare perduta.

È necessario andare avanti sulla strada del rinnovamento; ma il rinnovamento non sta nelle velleità revisioniste, me nella capacità di cogliere l’essenza positiva di una tradizione e la sua interna dinamica. È questo forse l’insegnamento più valido, e più attuale, che emerge da tutta l’esperienza politica di Togliatti.

[1] Togliatti – lettera a Gramsci marzo 1923

[2] Togliatti – Lo Stato del lavoro, Ordine nuovo 1919

[3] Togliatti – Il partito rivoluzionario delle classe operaia nel pensiero e nell’azione di Gramsci, Rinascita n. 3 1958

[4] Togliatti – lettera a Gramsci 23 febbraio 1924

[5] Togliatti – Les bases idéelistes du bordiguisme – L’internationale Communiste n. 10 – 1926

[6] Togliatti – Il partito rivoluzionario delle classe operaia nel pensiero e nell’azione di Gramsci, Rinascita n. 3 1958

[7] Gramsci – Passato e presente

[8] Gramsci – Passato e presente

[9] Togliatti – Manifestazioni di opportunismo nel campo della organizzazione, Stato operaio n. 8 1932

[10] Togliatti – Manifestazioni di opportunismo nel campo della organizzazione, Stato operaio n. 8 1932

[11] Togliatti – Il partito rivoluzionario delle classe operaia nel pensiero e nell’azione di Gramsci, Rinascita n. 3 1958

[12] (12) Togliatti – Il partito rivoluzionario delle classe operaia nel pensiero e nell’azione di Gramsci, Rinascita n. 3 1958

[13] Togliatti – Problemi del fronte unico, Stato operaio Agosto 1935

[14] Togliatti – Appunti e schema per una storia del PCI, Rinascita n. 2 1951

[15] Togliatti – Intervista a Nuovi argomenti n. 20 1956


Numero progressivo: G131
Busta: 7
Estremi cronologici: [post 1964?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Note: Bozza