ELOGIO DEL RELATIVISMO

Il monopolio della verità genera violenza

di Riccardo Terzi

Penso anch’io, come Giulio Giorello, che il pensiero laico debba affermare con più decisione e con più fermezza le proprie ragioni, senza alcun senso di inferiorità e senza ricercare lambiccati compromessi. Parlo del pensiero, che deve procedere libero e chiaro. Che poi i compromessi si rendano necessari nella sfera della politica, è tutt’altro discorso.

Si può definire laico chi non accetta altra autorità all’infuori della ragione, e che nello stesso tempo ritiene che il dominio della ragione sia sempre un dominio relativo, costruito su ipotesi e non su certezze. Il relativismo, in questo senso, non è una malattia della ragione, ma è la sua essenza. La ragione è tale se è consapevole dei suoi limiti. Ma questa consapevolezza non la conduce a cercare altrove un principio di verità assoluta, ma a essere sempre più rigorosa con se stessa.

Il punto debole del razionalismo è che esso ci costringe a convivere con l’incertezza. Ma è un punto debole solo apparente, perché in realtà l’incertezza è il nostro modo di stare nel mondo, di essere «gettati nel mondo». Dall’incertezza non c’è mai un’uscita definitiva, perché essa è inscritta nel nostro statuto ontologico, e quindi tutte le promesse di una verità assoluta rientrano nel campo dell’illusione e del mito. Guidare l’uomo nell’incertezza, spingerlo a valutare le alternative possibili, a sperimentare nuove soluzioni, a essere costantemente impegnato nella ricerca, è questo il compito di un pensiero laico e razionale. Il pericolo per l’uomo non è l’incertezza, ma il non saperla padroneggiare.

Ciò non esclude l’efficacia politica delle ideologie e delle fedi, di qualunque natura esse siano. L’ideologia è l’equivalente moderno del mito, è una costruzione che si giustifica sul terreno della pratica, in quanto produce comportamenti, riti, identità. E non c’è società nella storia che non ne sia intrisa e condizionata. Ma essa, proprio perché affondata nella pratica, strumento al servizio della pratica, sta su un piano diverso da quello della ricognizione razionale intorno alla verità. Verità ed efficacia sono due discorsi storicamente divergenti. E vanno tenuti distinti, non sovrapposti. Quando questa distinzione si perde, si produce allora quella miscela teorico-pratica che si usa definire come integralismo o fondamentalismo, nella quale politica e verità fanno tutt’uno, e non c’è scampo, non c’è via d’uscita per chi vuole sottrarsi a questo abbraccio mortale. Laicità vuol dire anche questo: che la politica ha dei limiti che non deve valicare, e non può mai presumere di essere l’incarnazione della verità. La storia degli uomini è segnata dall’alterna vicenda delle ideologie, dalla loro ascesa e dal loro crollo. Nell’ascesa c’è sempre un integralismo in agguato. E nel crollo c’è un senso di smarrimento e di vuoto. In ogni caso, esse hanno a che fare più con la storia del potere che con quella della conoscenza. È una storia che non finisce, perché ogni comunità umana cerca sempre di riconoscersi in un fondamento ultimo, in un simbolo di identità. Per questo, tutti i discorsi sulla fine delle ideologie e sul declino delle religioni vengono sistematicamente smentiti dalla realtà. E sempre tende a riannodarsi l’alleanza di fede e potere.

Anche il potente Occidente secolarizzato non fa eccezione a questa regola: da Bush ai suoi patetici imitatori nostrani, Pera, Ferrara e compagnia cantante. Patetici, perché nel loro caso è del tutto scoperta la strumentalità politica. E anche a sinistra, purtroppo, non mancano laici pentiti e penitenti.

Tutto l’equivoco, ingenuo o calcolato che sia, sta nell’idea che la ragione abbia bisogno di una compensazione sul terreno dei valori. La ragione è fredda e calcolatrice, e allora si deve cercare altrove un supplemento di anima. Questo teorema non è altro che la riproduzione moderna del principio teologico medioevale della filosofia come «ancella» della religione, sottoposta al suo controllo e alla sua autorità. Ma la ragione non può accettare nessuna autorità esterna, se non al prezzo di perdere se stessa.

Per questo, tutto il discorso sui “valori” è estremamente scivoloso, e va affrontato con molta cautela. Quando la politica si appella ai valori c’è quasi sempre una trappola, e i valori vengono usati solo come una copertura della «volontà di potenza». Ricordo sempre un consigliere comunale democristiano che, dopo essersi esibito in un volo pindarico sui valori e sull’etica pubblica, passava bruscamente al discorso degli affari, cercando di coinvolgermi in qualche operazione tangentizia. D’altra parte i valori hanno un duplice senso: sono i principi morali, ma anche i beni materiali. Da allora, sono diventato decisamente più diffidente. E, guardando alla storia, si vede come ripetutamente i “valori” sono serviti non a umanizzare la politica, ma a scatenarne il potenziale di violenza. Perché la violenza non ha limiti se si pensa di possedere la verità. Ed è quello che oggi accade nel rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo. Questa dinamica era già stata colta, molti secoli fa, da Lao-Tze nella sua polemica col moralismo confuciano: nel momento in cui si nomina la rettitudine e la si codifica in un rituale «è l’inizio del disordine». Perché le cose tendono sempre a rovesciarsi nel loro opposto. E a questo destino sembra essere particolarmente esposta la politica, in quanto essa è anche arte del raggiro. E dunque c’è un continuo rimando tra il linguaggio dell’etica e il linguaggio della forza.

E allora, come temperare la politica, come metterla al riparo dalla sua tendenziale degenerazione? Ciò può essere fatto solo con mezzi politici, con una appropriata strumentazione politico-istituzionale: divisione dei poteri, controllo pubblico, regole democratiche. È la politica che deve risolvere i suoi problemi, in autonomia, definendo le sue regole, costituendosi così come una forma di vita consapevole e adulta. Anche la politica diviene più accettabile se introietta in se stessa i principi del relativismo, se si assume cioè la regola che ogni potere deve essere bilanciato da altri poteri. Non i valori, ma le regole sono il passaggio decisivo.

In questo, c’è un rapporto assai stretto tra razionalità del pensiero e umanizzazione della politica, un’alleanza tra illuminismo e democrazia, perché in entrambi i casi il processo è quello di fissare i limiti, di arginare l’arbitrio, sia esso l’arbitrio del potere o quello del dogma. La via del relativismo, in quanto razionalità consapevole dei suoi limiti, è quella che ci può condurre verso una modernità accettabile, che sappia uscire finalmente dalla spirale di violenza e intolleranza.

Dal punto di vista della Chiesa, in quanto grande istituzione storica che ha in se stessa il suo fondamento, sono evidenti e comprensibili i motivi di diffidenza. Non stupisce quindi che Ratzinger, uomo di acuta intelligenza e di ricca dottrina, abbia scelto il relativismo come suo principale bersaglio polemico, ancor prima della sua elezione al soglio pontificio.

Ma quando egli parla di «dittatura del relativismo» c’è una evidente stonatura, c’è un rovesciamento capzioso dei significati, perché il relativismo è proprio ciò che si oppone a qualsiasi dittatura. Ma nella Chiesa ci sono alternative possibili? Il tema è stato affrontato in un importante discorso di Carlo Maria Martini, che ha evocato la possibilità di un «relativismo cristiano». Se ho capito il senso di questa sua complessa testimonianza, ciò significa che il destino dell’uomo è affidato solo all’imperscrutabile volontà di Dio, e che gli uomini non ne possiedono mai pienamente la chiave interpretativa. Neppure i cristiani, neppure la Chiesa. Siamo dunque in un cammino che è sempre aperto all’imprevedibilità dell’evento, siamo sempre in una posizione di ricerca. La scommessa del cristiano, privata della sua presunzione assoluta, non impedisce allora il confronto e il dialogo con gli altri. Il cristiano diviene colui che si mette in ascolto e che cerca il fondamento di un comune destino. Forse sta qui, in questo difficile e arrischiato passaggio, la possibilità per la Chiesa di riannodare i rapporti con il mondo.

Sarebbe utile, su questi nodi, una discussione tra i laici e gli uomini di fede (non mi piace definirli «credenti, come se gli altri fossero privi di qualsiasi convinzione), con la chiarezza e anche con la durezza che talora si rende necessaria. Ciò che invece prevale è il discorso di convenienza, di opportunità, è il moderatismo che rifugge da qualsiasi scelta radicale, per cercare di tenere insieme ciò che insieme non può stare: la laicità e il suo contrario. Il risultato è un ibrido pasticcio istituzionale, in cui i confini di Stato e Chiesa, di politica e fede, si vanno sfumando, con un danno reciproco, perché ne va per entrambi della chiarezza e dell’autonomia del loro fondamento.

Della politica ho già detto, che deve trovare in se stessa le sue regole. E la Chiesa, se si lascia trascinare nei meccanismi del potere, perderà infine la sua battaglia e dovrà assistere impotente alla definitiva mondanizzazione della nostra civiltà. Già è questo oggi il grande tema che sta davanti alla fede cristiana; pensare di risolverlo con i finanziamenti pubblici, con i privilegi e con la protezione statale, è una miope illusione.

Dunque, se il terreno del confronto è quello del relativismo, di questo dobbiamo apertamente parlare. Mi sembrano essenziali tre diversi profili. In primo luogo, c’è il relativismo storico. Noi siamo immessi nel flusso della storia, e ogni pensiero, ogni teoria, vanno considerati dentro questo flusso, come un momento, come un passaggio, che prende il suo senso solo dentro determinate coordinate storiche. Gli uomini cercano di rispondere alle domande del loro tempo, e anche i momenti più alti del pensiero sono in relazione con il tempo. Da Eraclito a Heidegger, passando da Agostino, è il tempo la dimensione nella quale esistiamo e pensiamo. È il movimento la forza decisiva che crea sempre nuove condizioni e che impedisce il cristallizzarsi di una verità definitiva. La verità non è mai data, ma è sempre in itinere.

Il secondo profilo è quello del relativismo metodologico, che contrassegna il cammino della scienza. La scienza procede per tentativi, per approssimazioni, per ipotesi provvisorie e successive verifiche, ed esclude a priori che questo incessante movimento possa avere un suo definitivo punto di approdo. Senza relativismo, non c’è scienza. Tutto può essere sempre rimesso in discussione, e in questo cammino della ricerca tutte le verità dogmatiche sono destinate, prima o poi, a essere superate, accantonate o inglobate dentro teorie più complesse e più comprensive.

Infine, il relativismo può essere visto come la condizione del dialogo, del rapporto con l’altro. C’è dialogo solo se io sono disposto a mettere in discussione le mie convinzioni, se le relativizzo, se riconosco la possibilità che dal confronto possano scaturire nuovi risultati, possano aprirsi nuove piste di ricerca. È questo relativismo dialogico il punto che a me sembra oggi più importante, perché è di questa disponibilità al confronto che il mondo attuale ha estremamente bisogno, per mettere in relazione le diverse culture e farle uscire dalla gabbia dei fondamentalismi.

Coscienza storica, scienza, dialogo: stanno proprio qui le risorse da attivare per aprirci la strada verso un futuro migliore. Se viceversa la verità è già data, e c’è un’autorità che la presidia, tutte queste possibilità vengono prosciugate. Non c’è evoluzione storica, ma ripetizione del già conosciuto. Non c’è scienza, ma solo erudizione a commento di un corpo dottrinario immutabile. Non c’è dialogo, ma solo la pretesa arrogante di portare agli altri una verità che già possediamo. E su queste basi si può agevolmente prevedere che la violenza nel mondo non sarà estirpata, ma alimentata in una spirale di reciproche intolleranze.



Numero progressivo: L34
Busta: 9
Estremi cronologici: 2005, settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, settembre 2005, pp. 67-71. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 237-243