È INDISPENSABILE UNA RIFORMA DELLA MACCHINA ORGANIZZATIVA

Intervento sul XIII congresso della CGIL, di Luigi Agostini (Responsabile dell’area Diritti della CGIL) e Riccardo Terzi (Osservatorio Riforma dello Stato della CGIL)

Con il tramonto del modello fordista, imperniato sulla grande produzione di massa e su una dinamica espansiva dell’intero sistema economico, si va configurando in forme ancora non del tutto definite un nuovo modello, un nuovo paradigma, sia sotto il profilo tecnico-produttivo sia sotto il profilo sociale e questo cambiamento assume un ritmo sempre più accelerato. Si tratta del passaggio da un sistema di controllo e di regolazione centralizzata a un sistema di estrema variabilità e flessibilità. Si passa dal primato della produzione sul mercato a uno schema del tutto rovesciato, per cui è la variabilità del mercato che decide delle forme e dei ritmi della produzione. Ciò ha degli effetti sociali dirompenti, perché il nuovo sistema di produzione, inserito in un processo di globalizzazione, richiede che tutti i fattori produttivi, compreso il fattore lavoro, siano una variante totalmente adattabile all’incertezza e alla turbolenza del mercato. Tutto è in funzione del mercato e della sua logica competitiva.

Ne deriva un duplice effetto, nelle due opposte direzioni dell’inclusione e dell’esclusione. Da un lato, si presentano per i lavoratori più qualificati nuove opportunità di partecipazione e di riconoscimento del loro ruolo, perché l’impresa non può più reggersi con i vecchi criteri gerarchici di trasmissione autoritaria del comando e gli obiettivi di “qualità totale” sono raggiungibili solo con una mobilitazione di tutte le risorse umane. Ma nello stesso tempo cresce il bisogno di manodopera precaria, accessoria, priva di diritti e del tutto manipolabile in funzione delle necessità variabili del mercato. E cresce l’area della disoccupazione strutturale, crescono le disuguaglianze sociali, essendo entrato in crisi il rapporto diretto tra crescita economica e occupazione, tra strategia d’impresa e sviluppo sociale. Capitalismo e società entrano in rotta di collisione.

L’impresa si trova a dover necessariamente obbedire a una logica competitiva di carattere internazionale, e questa logica comporta l’esclusione di interi pezzi di società, di tutto ciò che non è funzionale al meccanismo competitivo, per cui si forma nelle società moderne, per effetto non della loro arretratezza, ma del loro medesimo sviluppo, una vasta sacca di esclusi, di marginali, di disadattati. Cambiano quindi le forme e i caratteri del conflitto, il cui cuore non è più nella fabbrica, ma nella società. La contraddizione fondamentale risiede oggi nei fenomeni di esclusione, di precarizzazione del lavoro e della vita. Esplodono i conflitti territoriali, i conflitti di generazione e di sesso, i conflitti razziali. Prendono corpo nelle regioni forti e nei ceti privilegiati spinte anti-solidali e progetti di secessione.

Il confine tra inclusione ed esclusione è determinato sempre più dal grado di accesso alla conoscenza, dalla disponibilità o meno degli strumenti necessari per regolarsi nel nuovo universo tecnologico. La discriminante è la conoscenza, il sapere, la professionalità. Il lavoro tende a organizzarsi intorno a un nucleo ristretto di personalità forti al di là del quale si estende una vasta area di precarietà e di marginalità. In questa nuova situazione il sindacato rischia di diventare un elemento di stabilizzazione corporativa e conservatrice, e questo rischio è maggiore quanto più si resta prigionieri di una concezione tradizionale del conflitto di classe. Esso dunque può ritrovare il suo ruolo solo esplorando in modo innovativo i nuovi caratteri della società e le sue interne contraddizioni. Si richiede quindi un mutamento profondo di analisi e di concezione teorica, perché sta cambiando la natura del conflitto sociale, il quale non ha più il suo baricentro fondamentale nel luogo di produzione, ma assume un carattere più trasversale e diffuso, coinvolgendo i nuovi soggetti sociali.

Per una nuova strategia democratica occorre mobilitare le risorse territoriali e le risorse sociali. C’è una spinta positiva verso l’autogoverno dei sistemi urbani territoriali, verso il decentramento dello Stato, verso il federalismo, e ciò può essere un potente contrappeso rispetto alle tendenze alla concentrazione autoritaria. Il sindacato è immerso in questo cambiamento di fase e deve ridefinire le sue priorità, le sue coordinate di fondo. Pensare di galleggiare nella nuova situazione affidandosi soltanto all’esperienza collaudata e alle virtù di un pragmatismo flessibile è operazione illusoria e di breve respiro. È necessario uno spostamento del baricentro dell’azione sindacale dalla fabbrica alle città e al territorio, dalla produzione all’organizzazione sociale. Il conflitto attiene oggi al progetto di società, ed è su questo terreno che il sindacato deve far valere una sua autonomia di proposte e di azione.

Non è certo un caso che la più grande mobilitazione sindacale è avvenuta, negli ultimi anni, su un tema di politica sociale, qual è appunto quello del sistema previdenziale, il quale riguarda il destino e il ruolo della persona nella società. Non è stato un evento occasionale, un’impropria invadenza del sindacato nel campo della politica, ma all’opposto è stato il segnale di una nuova prospettiva, di un nuovo rapporto che si può stringere tra sindacato e lavoratori, tra sindacato e cittadini. I problemi cruciali che oggi ci stanno di fronte, con la necessaria riorganizzazione dello Stato sociale, con i vincoli dettati dall’integrazione europea, sono problemi che hanno una spiccata valenza politica e che trascendono la sfera strettamente contrattuale. In tale contesto, un sindacato che “torna a fare il suo mestiere” è un sindacato che abdica ai suoi compiti strategici. L’azione sindacale incrocia necessariamente la dimensione politica. Non c’è autonomia sindacale senza un progetto, senza un’idea di società, senza un programma di politica economica e sociale. Occorre dunque riconoscere esplicitamente la politicità dell’azione sindacale.

Se l’autonomia è concepita in termini angusti, in una concezione corporativa, come una divisione di sfere di competenza tra il politico e il sociale, il risultato sarebbe una delega alla politica per tutte le questioni che oggi sono strategiche. Una tale concezione dell’autonomia si capovolge quindi nel suo contrario, in una totale subalternità al sistema politico. Il sindacato è autonomo non perché dispone di una sua nicchia, di un suo ambito circoscritto, ma perché affronta, dal suo particolare punto d’osservazione, tutti i problemi della società italiana, e su di essi si misura senza timidezze e senza complessi d’inferiorità verso nessuno. Politicità e democratizzazione del sindacato sono i due pilastri sui quali costruire il nuovo sindacato unitario. Per realizzare questi orientamenti di linea politica è indispensabile una radicale riforma organizzativa. Si tratta di snellire e di riqualificare le funzioni di direzione e di costruire una robusta “prima linea” a contatto diretto con i luoghi di lavoro e con i contesti sociali. Si possono così rimotivare numerosi quadri oggi in crisi d’identità, e si possono attrarre al sindacato nuove forze, in quanto vengono chiamate a un lavoro di responsabilità creativa. Tutto il baricentro organizzativo dev’essere spostato verso il basso, e ciò richiede una fortissima determinazione politica, perché significa rimettere in discussione il ruolo, il prestigio, il lavoro di centinaia di quadri e di dirigenti.


Numero progressivo: A1
Busta: 1
Estremi cronologici: 1996, 30 aprile
Autore: Riccardo Terzi, Luigi Agostini
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Rassegna sindacale”, n. 14, 30 aprile 1996