È IMPRUDENTE ESSERE PRUDENTI

Verso un campo di forze riformiste

di Riccardo Terzi

I Congressi dei partiti politici si possono classificare secondo due tipologie: congressi di innovazione o di stabilizzazione. Sono due momenti entrambi necessari, che occorre saper dosare con attenzione, in rapporto alla concretezza del processo politico. È bene quindi diffidare di quelli che predicano, sempre e comunque, la necessità di una svolta, di un nuovo inizio, perché alla fine il risultato è solo una condizione di permanente incertezza e fragilità, non essendoci mai una base consolidata, una sedimentazione, un punto fermo intorno al quale organizzare le forze.

Trovo per ciò del tutto comprensibile che si possa impostare il prossimo congresso dei DS, dopo un lungo girovagare senza meta, come un momento di consolidamento. C’è il filo conduttore del socialismo riformista, già tracciato a Pesaro, che resta la nostra bussola orientativa, c’è un gruppo dirigente che è riuscito ad invertire la tendenza negativa e ha conseguito risultati politici ed elettorali di indubbia efficacia, c’è il grande corpo vivo dei militanti che chiedono di potersi riconoscere in una prospettiva di fiducia e di unità, senza ulteriori strappi e senza dover riaprire tutte le ferite della lotta politica interna.

Si può fare un congresso che dice: siamo sulla strada giusta. E il segretario può ottenere la sua definitiva investitura, con un consenso larghissimo. È una linea plausibile, e certamente la forza di inerzia, la spontaneità delle cose, se non intervengono altri fattori, ci porta diritti a questo tipo di esito. E tuttavia questa linea di prudenza, di navigazione tranquilla, mi sembrerebbe essere un errore di valutazione, un’occasione mancata. Come spesso accade nella vicenda politica, siamo in una tipica situazione nella quale è imprudente essere prudenti. Per due fondamentali ragioni: perché tutta la situazione, nazionale e internazionale, è in piena effervescenza e richiede pertanto un’accelerazione, uno scatto in avanti dell’elaborazione e dell’iniziativa. Stare fermi equivale ad essere del tutto spiazzati dagli avvenimenti.

La crisi della destra è virtualmente aperta. Ciò è chiaro dopo il turno delle elezioni europee. Ma non c’è nessun automatismo, non c’è affatto un esito scontato. Se la sinistra non riesce a produrre una forte offensiva e a riorganizzare le sue forze, se tornano a prevalere i vecchi rituali di una infinita e inconcludente trattativa diplomatica tra i partiti, la crisi virtuale del blocco di destra può essere ricomposta. E inoltre non possiamo accontentarci degli esiti del congresso di Pesaro, e pensare che ormai si tratta solo di gestire una linea politica già fissata e già sperimentata. In quel congresso abbiamo arrestato la parabola discendente, abbiamo cominciato a diradare la cortina fumogena che era stata prodotta, in precedenza, da tante iniziative avventate e confuse. Abbiamo cominciato a dire, con sobrietà, che cosa siamo e da che storia veniamo: la storia del socialismo europeo. Ma è stato solo il primo passo.

Concordo quindi con la forte sollecitazione di Reichlin, per un congresso che affronti davvero i nodi cruciali della politica italiana e della funzione che la sinistra intende assumere. L’identità della sinistra, tema che ha sollevato grandi passioni, ma anche tante discussioni sofistiche ed astratte, sta in quello che la sinistra è in grado di fare nella situazione storica data. L’identità è un prodotto della storia: c’è se abbiamo una funzione, e si perde se ci lasciamo mettere nell’angolo. E in questo caso ci possiamo consolare con l’ideologia, con l’integrità dei valori, con la fermezza di chi non conosce i se e i ma. Ma se tutto ciò non incide nella realtà, è solo una costruzione di sabbia che prima o poi si sfalda. Il rischio che io vedo è quello di riprodurre una discussione tutta ideologica, scissa dalla realtà: da un lato la sinistra, con i suoi valori di sempre, con una sua identità immutata, dall’altro l’incubo di una deriva moderata, di uno snaturamento, che si materializza nell’idea del partito unico riformista. In questo schema la sinistra è un principio statico, metastorico, e tutti i tentativi di muoversi nella realtà e di produrre innovazione politica hanno inevitabilmente i segni della deviazione, del tralignamento, perché ci si allontana dal modello, dalla rappresentazione ideologica in cui abbiamo forzatamente rinchiuso tutta la nostra storia. E allora tutta la discussione precipita intorno a questa alternativa: sì o no al partito riformista, o al patto federativo che ne costituisce il primo passo, con il sottinteso che sono qui in gioco l’autonomia o la subalternità della sinistra.

Una discussione che sia condotta lungo queste coordinate così sommarie e superficiali ha come suo esito una troppo facile e scontata vittoria dell’opzione riformista, troppo facile e quindi poco meditata ed elaborata, aperta a tutte le più diverse interpretazioni. Insomma, una cambiale in bianco al gruppo dirigente, che ne può fare qualsiasi uso. E una così ampia discrezionalità della funzione dirigente non è mai un fatto positivo.

Non temo, quindi, un risultato congressuale che ci riporti indietro, verso una forma ideologica irrigidita, ma temo piuttosto che ci si fermi a questo stadio elementare, che ci si limiti a dire che la sinistra deve essere aperta all’innovazione e deve candidarsi ad una funzione di governo, senza dire come, con quali contenuti, con quale progetto. La stanchezza per l’ideologia e l’ansia di tornare a governare: da questa miscela può nascere un partito di puro pragmatismo, pronto a qualsiasi giravolta e a qualsiasi tatticismo. Se la sinistra interna ha solo una funzione di freno, il congresso deciderà che non ci sono freni. Se la dialettica interna è condotta sul terreno dell’ideologia, il congresso deciderà che le ideologie sono morte. Ma in questo possibile esito vedo più di un motivo di inquietudine.

È vero che il cuore della discussione riguarda il progetto del partito riformista, o, per essere più esatti, dell’organizzazione di un campo di forze riformiste. Questo progetto non è affidato alla diplomazia dei nostri rapporti con Rutelli o con Boselli, non è una concessione che facciamo ad altri, ma prende senso solo da quello che noi decidiamo di essere e di fare. È la sinistra che ha in mano l’iniziativa e può decidere di aprire una fase nuova, su un terreno più avanzato. Il riformismo è il campo su cui noi costruiamo la nostra iniziativa, a partire da noi stessi, dal nostro profilo politico e progettuale.

Il prossimo congresso dei DS non è un congresso di scioglimento, per riversare le nostre forze in un altro contenitore, ma è il momento in cui alla prospettiva riformista dobbiamo saper dare, per nostra interna convinzione e non per convenienze tattiche, tutta la potenzialità che è in grado di esprimere. Noi dobbiamo decidere la nostra linea di marcia. Poi vedremo come risponderanno le altre forze, quale percorso sarà possibile fare insieme, quali sbocchi politici e organizzativi. Il nostro tema è l’organizzazione di un campo di forze che sia in grado di esprimere una cultura riformista e di governo. E in questo campo noi non siamo una forza gregaria, che si accoda ad altri, ma siamo l’elemento trainante e decisivo. Sul riformismo, sul suo concetto, mi ero già soffermato in un mio precedente articolo, al quale rimando. D’altra parte, è questo il filo conduttore di tutta la ricerca che si è organizzata intorno alla rivista. Voglio qui sottolineare solo due aspetti, che mi sembrano essenziali.

In primo luogo, il riformismo fa saltare il classico schema politico, secondo il quale tutta la partita si gioca al centro e la guida spetta comunque alle forze moderate, mentre la sinistra può solo fornire le truppe di complemento. Il centrismo è forte quando il riformismo è debole. E tutta la storia politica italiana ha avuto questa traiettoria, lasciando alla Dc il ruolo di partito regolatore, in un equilibrio variabile nella forma, ma stabile nella sostanza. Possiamo leggere in questa chiave anche la stagione del compromesso storico, come l’effetto di una mancata scelta riformista, per cui non restava altra via che quella di venire a patti col centro moderato, fino a considerare come un’avanzata l’ennesimo monocolore democristiano.

Il riformismo, all’opposto, è una sfida lanciata direttamente alle pretese egemoniche del centro: non ci sono più campi protetti, riserve di caccia, ma c’è una sinistra che agisce a tutto campo. Altro che sinistra subalterna. È il vecchio moderatismo che vede come il fumo negli occhi questo progetto, perché toglie la sinistra dal suo stato di minorità, dal suo ruolo periferico. Ed è per questa ragione che si apre oggi una dialettica aspra nella Margherita: tra chi pensa di perpetuare la vecchia logica del centrismo e chi viceversa decide di partecipare al progetto riformista.

La posizione di Prodi è, su questo punto, molto netta. Le sue richieste di chiarezza e di determinazione toccano esattamente questo nodo: se si vuole costruire un campo riformista, o se si vuole ripetere il vecchio gioco altalenante tra il centro e la sinistra, fatto di aperture solo tattiche, di alchimie politiche, di una permanente manovra di spiazzamento in cui gli uni tentano di mettere fuori gioco gli altri. Rispetto alla storia politica dell’Italia, ciò che oggi propone Prodi rappresenta una rottura profonda, di straordinario valore. Dobbiamo semplicemente decidere se a questa sfida noi siamo pronti, o se preferiamo tornare all’antica pratica del compromesso, degli accordi tattici, lasciando che altri riprendano in mano quella funzione regolatrice svolta nel passato dalla Dc. C’è una strana sintonia tra le riserve della nostra sinistra interna e il discorso di Marini o di De Mita sulle identità storiche da salvaguardare. Capisco chi vuole continuare a dettare, dal centro, le regole del gioco; capisco assai meno chi a questa manovra centrista ritiene utile offrire una sponda.

Il secondo punto che voglio sottolineare è la dimensione sociale, prima ancora che politica, del progetto riformista. Non esiste riformismo senza soggetti sociali, senza rappresentanza, senza una rete sociale che si vuole riappropriare della politica e che costruisce un suo progetto, un suo modello di relazioni, coltivando tutto il grande spazio intermedio tra Stato e mercato, tra i due estremi del dirigismo politico e del liberismo senza regole. Costruire il campo del riformismo significa organizzare questa rete sociale: il sindacato, l’associazionismo, l’imprenditoria diffusa, le autonomie locali, i luoghi del sapere.

E qui si incontrano la tradizione del riformismo socialista e quella del solidarismo cristiano, lungo una linea che mette al centro la persona, i suoi diritti nel lavoro e nella vita sociale, le sue relazioni, le forme della partecipazione dal basso, rifiutando il modello della democrazia verticalizzata e plebiscitaria. Ora, questa rete è già presente, attiva, anche se spesso appare frammentata. Si tratta di riconoscerla e di immetterla nel circuito della decisione politica attraverso una prassi sistematica di dialogo, di concertazione, di sussidiarietà, e promuovendo con decisione un processo di unità sociale.

È su questo piano che prende corpo e visibilità l’alternativa alla destra: partecipazione sociale contro decisionismo, pluralismo e autonomia dei soggetti sociali contro la concentrazione del potere nelle mani di un leader carismatico. È questo un punto decisivo, da rendere più chiaro, come l’asse di una proposta alternativa. Il nostro conflitto non può riguardare solo la persona del leader, ma riguarda tutto il sistema politico e democratico, la sua articolazione, il suo rapporto con la società. Per questo, il riformismo non si racchiude tutto in un partito, ma è un campo di forze. La definizione delle forze che si vogliono organizzare e rappresentare è il tema di fondo su cui si misura una strategia politica. Ricordo che in uno dei suoi interventi graffianti Massimo D’Alema aveva sostenuto che il soggetto e il progetto sono la stessa cosa, suscitando un vespaio di polemiche.

Sono la stessa cosa, perché il progetto è l’espressione delle forze che si vogliono rappresentare. Se abbiamo chiaro il blocco sociale di riferimento, i programmi vengono da sé. Viceversa, se non si è costruito un rapporto reale con la società i programmi sono solo pezzi di carta. In un intervento all’ultimo congresso dei DS avevo espresso lo stesso concetto, con una formula anche più radicale: «non è il progetto che determina la forza, ma la forza che determina il progetto». Ovvero, non c’è strategia se non c’è accumulazione di forza, se non c’è radicamento nei processi sociali, nella loro dinamica, se non c’è un fondamento oggettivo, materiale, sul quale si innesta l’azione politica. E ciò richiede, oggi, un’analisi aggiornata della società italiana e dei cambiamenti che hanno investito il lavoro e la vita materiale delle persone.

Ora, io vedo nel progetto riformista, così inteso, il tentativo, l’unico serio oggi in campo, di accumulare le forze necessarie per costruire un’alternativa politica alla destra. La lista unitaria alle elezioni europee è stato un primo e parziale tentativo di organizzare questo campo di forze. Il fatto politico importante è che con questa operazione si è data visibilità alla crisi della destra e si è delineata una possibile alternativa di governo. Non c’è solo un movimento multiforme di protesta, ma c’è un soggetto politico che a questo movimento dà forma e prospettiva. Tornare indietro significherebbe disperdere questo risultato e riprodurre una frammentazione, una dispersione, in cui ciascuno difende la sua identità parziale, perdendo di vista la necessità di un progetto alternativo. Credo che anche i rapporti con Rifondazione comunista potranno avere uno sviluppo positivo, se c’è una forte aggregazione riformista che prende in mano la guida della coalizione. Le posizioni politiche di Bertinotti sono di grande interesse: danno voce politica a un’area sociale, a un insieme di movimenti, e cercano di farli uscire da una posizione di pura testimonianza, intrecciando un dialogo costruttivo, anche se critico e difficile, con l’insieme del centro-sinistra. C’è un processo nuovo, c’è una identità politica in evoluzione, c’è insomma qualcosa di vivo, di reale, col quale è di grande interesse stabilire un confronto. Basti pensare a tutti i temi della globalizzazione, del nuovo ordine mondiale, della costruzione di un’Europa sociale. Serve quindi un confronto attento e rispettoso, senza relegare Rifondazione nel ghetto di un presunto massimalismo ideologico.

Ma queste due strade, nella sinistra, sono complementari, si incontrano ma non si sovrappongono. E l’una ha bisogno dell’altra. Se Rifondazione non trova una sponda politica seria, anche la sua evoluzione finirebbe per regredire e per insabbiarsi. Questi sono comunque i due progetti politici che cercano di interpretare, da angoli visuali diversi, le domande reali del paese. Nel mezzo, e ai lati, c’è poco o nulla.

Tornando al congresso, è intorno a questi punti di strategia che occorre discutere, per assumere una posizione chiara, per indicare una linea di marcia che non sia suscettibile delle più diverse e contraddittorie interpretazioni. Preferirei finire in minoranza, come molto spesso mi è accaduto, piuttosto che partecipare a un rassemblement confuso e indistinto, nel quale si sta insieme solo per convenienza. La proposta di un congresso aperto, a tesi, temo che sia funzionale a questo tipo di esito: un’unità fittizia, in cui ciascuno si riserva per il futuro la più larga libertà di movimento. Stemperare le posizioni, assumere decisioni generiche, elastiche, ambivalenti, non sarebbe di utilità per nessuno. Un congresso di stabilizzazione? Che si limita cioè a riconfermare il gruppo dirigente e ad avviare una lenta marcia di avvicinamento tra le sue componenti interne? Una tale operazione non ci farebbe compiere nessun passo in avanti. E lascerebbe del tutto aperto quel vuoto di cultura politica, di identità, di strategia, che ormai ci trasciniamo da troppo tempo, da quando abbiamo deciso una svolta, senza sapere in quale direzione e con quali idee costruire un partito di tipo nuovo. Dopo una lunga navigazione incerta, è il momento di dare al partito un’ossatura, una fisionomia, un progetto chiaro. E lo possiamo fare proprio perché siamo usciti dallo stato comatoso e abbiamo ora le basi sufficienti, di consenso e di forza, per fare finalmente un’operazione di verità.



Numero progressivo: H39
Busta: 8
Estremi cronologici: 2004, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, ottobre 2004, pp. 7-12