DIALOGO NONOSTANTE TUTTO

di Riccardo Terzi

Quando mi sono deciso a scrivere un “elogio del relativismo” sapevo bene di entrare in un campo minato e di espormi a una serie di contestazioni. Relativismo è una parola che facciamo fatica ad accettare, perché essa sembra deprimere ogni nostro slancio nella ricerca della verità e sembra condannarci a una condizione di impotenza, nella quale non disponiamo più di nessun criterio di valutazione. Non resta allora che un atteggiamento di totale indifferenza, perché non c’è nulla di saldo a cui possiamo aggrapparci. In questa accezione il relativismo è la ragione che dispera di se stessa e che si arrende, e in questa sua resa si adatta passivamente alla realtà, rinunciando sia a interpretarla sia a trasformarla.

Io ho cercato di indicare una diversa prospettiva, intendendo la relatività nella quale siamo necessariamente implicati come lo stimolo per un pensiero critico, per una razionalità adulta che è consapevole dei suoi limiti e che è sempre in cammino, in un processo di ricerca che resta infinitamente aperto. Non la rinuncia e l’adattamento, quindi, ma la volontà tenace di mettere in chiaro le cose della vita e del mondo, pur sapendo che non ci sarà mai un punto d’arrivo, un momento in cui possiamo dire che la ricerca si è conclusa. Mi sembra essere questo l’unico modo in cui può procedere un’indagine scientifica, per approssimazioni successive, per esperimenti, per tentativi che ogni volta devono essere verificati e possono essere rimessi in discussione. L’alternativa non è mai tra il nulla e il tutto, tra il nichilismo e l’assoluta certezza, ma è tra diverse possibili linee di ricerca, nelle quali dobbiamo mettere al lavoro tutti i limitati strumenti razionali di cui disponiamo. Nel corso della discussione molte cose si sono chiarite, e nello stesso tempo sono affiorati molti problemi nuovi, filosofici, etici, politici. Posso quindi dire che il mio obiettivo, che era quello di avviare un confronto, sia stato sostanzialmente raggiunto. Ricreare le condizioni del dialogo, e scongiurare il ritorno alle guerre di religione: questo mi sembra essere oggi, in un mondo attraversato da molteplici conflitti potenzialmente distruttivi, il compito prioritario. Se il dialogo è soppiantato dalle certezze assolute e dalle intolleranze dei fondamentalismi, la nostra civiltà finirà per sprofondare in una crisi drammatica.

Questo è stato ed è tuttora il mio intento, un intento essenzialmente politico, e non dottrinario. La stessa riflessione filosofica ha un senso, a me pare, se non si irrigidisce in una dottrina, in un sistema. Ogni volta che il pensiero si chiude in una verità codificata, esso perde la sua forza di penetrazione e finisce per girare a vuoto intorno a se stesso. E diviene uno strumento di potere, una ortodossia, il segno distintivo di una casta, e ciò che inevitabilmente ne discende è la guerra contro le deviazioni, contro le eresie, contro quello spirito di libertà senza il quale non c’è propriamente pensiero. E nella storia troviamo innumerevoli esempi di questa degenerazione. Parlando di relativismo (e si possono trovare anche altre parole per esprimere lo stesso concetto) ho inteso dire, nella sostanza, che dobbiamo liberare il nostro pensiero da qualsiasi gabbia dogmatica, religiosa o laica che essa sia, che dobbiamo tenerlo aperto e mobile, pronto a considerare tutte le svariate angolazioni da cui si può osservare la realtà.

Sono quindi pronto a considerare e ad accogliere molti dei rilievi che sono stati avanzati, proprio in nome di quel relativismo “dialogico” di cui ho parlato, che significa mettersi in discussione nel confronto con l’altro. Come chiarisce bene Francesco Totaro, «nel dialogo io relativizzo le mie convinzioni nel senso che le metto in correlazione con le convinzioni dell’altro per arrivare a risultati nuovi sperabilmente più ricchi di quelli di partenza. Il dialogo è quindi possibile se si mettono in gioco prospettive di verità parziale che scoprono la propria parzialità nel momento stesso in cui giungono a un punto di vista superiore». E tutto il testo di Totaro è uno sforzo molto serio e impegnato, per gettare le basi di un dialogo nel quale ciascuno deve compiere un lavoro di chiarificazione, e si possono così trovare, anche partendo da diverse premesse, alcuni approdi condivisi. «Il rappresentarsi in una tensione comune, da parte delle diverse prospettive di verità, rende possibile riconoscere in altri messaggi orientati alla verità elementi preziosi per il nostro cammino di verità. Non si tratta di avallare la confusione delle prospettive ma la loro convergenza». Bene, è proprio di questo lavoro che abbiamo assolutamente bisogno, per riuscire a vedere come i diversi punti di vista possono tra loro incrociarsi, su molti punti essenziali, pur restando distinti nelle loro premesse di partenza e nel loro metodo di indagine.

È in questo senso che tra ragione e fede resta aperta la possibilità di una comunicazione, di uno scambio, non configurandosi l’una come la negazione dell’altra, perché la fede non è, o meglio può non essere, un salto nell’irrazionale, ma è un cammino che deve essere razionalmente argomentato, e la ragione cerca di guardare anche oltre i propri limiti, di spostarli in avanti, e non rifiuta nessuna delle domande, anche quelle a cui non sa dare una risposta. Si può dire che in questo loro rapporto sia la fede sia la ragione sono relativizzate, in quanto sono movimenti paralleli verso un dove che non viene pienamente afferrato e dominato. Le strade a un certo punto divergono, ma hanno in comune il soggetto che le percorre, l’uomo che si interroga su di sé. E questo soggetto è sempre, in proporzioni variabili, un impasto di fede e ragione, e cioè di convinzioni e credenze diversamente motivate. Le due opposte figure dell’uomo razionale e dell’uomo religioso non esistono mai allo stato puro, ma solo in una loro infinita combinazione. Nello stesso conflitto, apparentemente così nitido, tra razionalità e fede si insinua quindi l’elemento della relatività, perché l’una rimanda all’altra. Se siamo in cammino, e se il cammino non è tracciato a priori da una qualche verità dogmatica, è sempre possibile la comunicazione e il confronto, ed è possibile scoprire che con linguaggi diversi attingiamo a un comune fondo di verità.

Questo mi sembra essere il risultato del nostro dialogo, la sua potenzialità, a condizione che gli interlocutori siano reciprocamente disponibili all’ascolto. Così è accaduto con Comin e Totaro, “uomini di fede” per i quali la religiosità non è la corazza del crociato contro gli infedeli, ma è un invito a: guardare “oltre”, a tentare cioè di percorrere anche quella strada impervia che ci porta a esplorare le verità “ultime”, a passare dal relativo all’assoluto. Io continuo, personalmente, a considerare questo movimento come una impresa arrischiata e improbabile, che produce a un certo punto un salto dalla razionalità al mito, dalla conoscenza dell’essere alla costruzione soggettiva di un dover essere, ma non posso certo disconoscere la legittimità di una tale ricerca. Ciò che importa è la disponibilità a discutere di tutto ciò con estremo rigore concettuale, tenendo sempre la nostra mente aperta a ogni possibile argomentazione. La saggezza, ce lo insegnano i grandi classici cinesi, consiste nel non fissarsi su una verità parziale, nel pensare non l’uno contro l’altro ma l’uno nell’ altro. Ed è proprio questa saggezza che sembra essere una virtù scarsamente praticata nel nostro mondo e nel nostro tempo. Ciò che sta accadendo oggi, nel rapporto concreto tra l’istituzione della Chiesa cattolica e l’ordinamento democratico del nostro Paese, è qualcosa di assai diverso da questo spirito di dialogo e di reciproca comprensione. È in atto un’offensiva politico-ideologica per affermare il primato della Chiesa e la sua missione esclusiva nella sfera dei valori e dell’etica pubblica. In sostanza, la Chiesa rivendica per se stessa una superiore magistratura morale, proponendosi come l’unica forza capace di garantire alla società la sua interna connessione, la sua identità, la sua coesione. La politica ha sì un suo spazio autonomo, ma solo entro i confini che sono tracciati dalla Chiesa, in quanto garante dell’etica collettiva. C’è dunque un limite esterno che viene imposto al processo democratico, perché i fondamenti etici della convivenza non sono il risultato di questo medesimo processo, ma sono ad esso presupposti e stabiliti per via autoritativa, affidati a una istituzione che sta fuori dal circuito democratico. Tutto il rapporto tra Stato e Chiesa viene così sbilanciato e reso asimmetrico, perché le voci plurali della democrazia debbono a un certo punto tacere, e può parlare solo la voce di chi possiede la verità. Non è altro che il vecchio teorema conservatore e antidemocratico: la decisione ultima è riservata ai pochi che possiedono l’autorità necessaria.

C’è, in questa attuale posizione delle gerarchie ecclesiastiche, una decisa sterzata rispetto al messaggio conciliare, rispetto all’idea di una Chiesa che è aperta allo spirito del tempo, che sta nel mondo come una forza vivificatrice, come una testimonianza di carità, senza pretendere di competere nell’occupazione del potere. Con Ratzinger, papa teologo e dottrinario, la Chiesa imbocca una diversa strada, e tende ad assumere una posizione fondamentalista, nel senso letterale della parola, proprio perché ad essa, e solo ad essa, spetta la decisione intorno ai fondamenti. È una Chiesa combattente, che lancia la sua sfida al mondo secolarizzato. Ecco che allora il relativismo, denunciato come il male delle nostre società contemporanee, come il veleno che dissolve i valori tradizionali, diviene il campo di un conflitto ideologico di grande portata. E a questa idea di una verità che sta tutta da una parte, di un “primato” della religione su tutte le altre manifestazioni della vita umana, che ritengo necessario reagire, anche con asprezza, non in nome di un laicismo di vecchia maniera, ma in nome di una vera convivenza e di un lavoro in comune che possono svolgere, partendo dai loro rispettivi punti di vista, uomini di fede e uomini di ragione, che non sono credenti e non credenti, ma diversamente credenti, e comunque impegnati in una ricerca di verità che li accomuna.

Mi sembra evidente che si è aperto un conflitto dentro la stessa comunità religiosa. E non sono mancate, infatti, voci autorevoli di intellettuali cattolici che hanno consigliato una diversa linea, di flessibilità, di attenzione pastorale al vissuto concreto delle persone, di maggiore autonomia e distacco rispetto ai conflitti politici. In sostanza, si tratta di decidere se vale ancora l’ispirazione del Concilio, con le sue aperture e con il suo spirito dialogante, o se la Chiesa si arrocca in una difesa intransigente delle sue verità dogmatiche, pretendendo che esse siano l’unico possibile fondamento della convivenza civile. Si rischia così di tornare indietro, a un conflitto deleterio tra Stato e Chiesa, tra laici e cattolici, e in questo conflitto viene dissolto quello spazio pubblico comune che garantisce l’autonomia e la laicità della politica, perché alla logica della mediazione, che è propria della politica, si vorrebbe sostituire l’affermazione incondizionata e non mediabile di principi assoluti. È un processo inquietante, che rischia di esasperare ed estremizzare le differenze, fino al punto che sul tema della famiglia si è infine prodotto il risultato di due opposte mobilitazioni di piazza.

Credo che da questa tenaglia dobbiamo assolutamente cercare di uscire. Va colta l’articolazione e la dialettica che è aperta nel campo cattolico, la quale a sua volta riflette la complessità sociale e culturale del Paese. La Chiesa è sempre un corpo assai complesso, all’interno del quale sono sempre aperte diverse opzioni, diversi modi di interpretare e di testimoniare la religiosità nel mondo reale, e quindi sono sempre possibili diverse linee evolutive. Non dobbiamo quindi fermarci a una lettura troppo schematica e unilaterale. E soprattutto dobbiamo capire come il mondo cattolico, nel suo insieme, con quelle sue interne differenziazioni, sente oggi molto fortemente il bisogno, in una società secolarizzata, di dare in modo più aperto una battaglia culturale intorno ad alcuni nodi cruciali che attengono alla nostra comune convivenza. Questa è la ragione del successo del family day. Non c’è solo il motivo contingente e strumentale dell’opposizione al progetto di legge sulle convivenze, che ha prestato ovviamente il fianco alle manovre politiche della destra, ma c’è anche l’idea di un nuovo protagonismo della cultura cristiana nel mondo moderno, e questo movimento, in quanto chiama alla partecipazione, può contribuire alla crescita democratica del Paese, a condizione che esso sappia evitare la strada senza sbocchi del fondamentalismo. Se la democrazia è la costruzione di uno spazio pubblico, nel quale si confrontano e si mediano i diversi punti di vista, è necessario, come condizione di partenza, che tutti i partecipanti al gioco democratico siano disponibili a mettersi in discussione, e che nessuno quindi pretenda una posizione di privilegio. Le motivazioni di ordine religioso possono entrare proficuamente in questo processo, ma esse debbono essere tradotte in un linguaggio umano universale, che parla a tutti e che fa appello al comune senso di appartenenza alla comunità.

E la comunità stessa, se vuole continuare a essere una comunità democratica, deve essere concepita in modo aperto, riconoscendo la pluralità dei possibili percorsi di vita e la sostanziale libertà delle persone. Non dobbiamo essere messi nella condizione, come giustamente teme Giulio Giorello, dover scegliere tra communitas e libertas, perché la nostra appartenenza alla comunità non deve essere una espropriazione della nostra autonomia personale. La comunità deve essere il luogo in cui le diversità imparano a riconoscersi e a convivere. Che i cristiani, in questo spazio comune, parlino ad alta voce è quindi un bene, ma non lo è più se essi parlano in nome di un’autorità che non può essere discussa, ma può essere solo accettata o subita. Insomma, il conflitto non è tra religione e politica, ma solo tra fondamentalismo e democrazia, tra il principio di autorità e la regola democratica del consenso.

In questa situazione, nella quale ci troviamo tutti nuovamente esposti a un possibile riesplodere dei conflitti ideologici, è essenziale non sbagliare l’approccio e non fare passi falsi. L’esito di questa vicenda non è tutto nelle mani della Chiesa, ma è soprattutto nelle mani di una politica che sia responsabile e che sia capace di scavare nei problemi, di farli emergere in tutta la loro complessità e di orientarli verso soluzioni condivise. E la politica che deve recuperare la sua funzione regolatrice.

La tradizionale concezione liberale della separazione di Stato e Chiesa non è più sufficiente, perché non è più possibile fissare con nettezza il confine tra il pubblico e il privato, tra ciò che è affare di tutti e ciò che è affare di ciascuno. Le questioni etiche entrano necessariamente nel dibattito politico, e la laicità della politica non può significare una sorta di indifferenza etica, ma è piuttosto la capacità di ricondurre tali questioni a quel fondamento comune che sta scritto nella nostra Carta costituzionale e che consiste nel valore originario e nella dignità della persona, vista nelle sue relazioni sociali e nella sua responsabilità, come un soggetto che è insieme portatore di diritti e di doveri. Il quadro si complica e si arricchisce se consideriamo il carattere sempre più multiculturale e multietnico delle nostre società, il quale richiede una sempre più raffinata capacità di riconoscimento del pluralismo, costruendo una cittadinanza coesa e plurale, in cui ciascuno si possa riconoscere senza dover subire un’integrazione forzata. Senza questo lavoro, la società va in pezzi.

Partire dal primato della persona vuol dire assegnare alla politica non il compito di prescrivere delle norme di condotta, invadendo il campo della responsabilità individuale, ma di accompagnare e sostenere le persone nel loro libero cammino di vita, mettendole nella condizione di poter esercitare la loro autonomia in modo consapevole e socialmente responsabile. In questa concezione, che si oppone sia all’individualismo radicale sia a un “primato” della politica che vuole tutto regolare e disciplinare dall’alto, sta il punto di incontro delle grandi tradizione democratiche del nostro Paese.

E il progetto del “Partito democratico” ha un senso e un fondamento se si riallaccia a questa tradizione e sa riattualizzarla. Non deve essere solo un partito “nuovo”, ma un partito che riscopre queste radici comuni della nostra storia democratica e costituzionale, alla quale hanno attivamente contribuito le diverse culture politiche. Ora, nella situazione che abbiamo descritto, e che vede all’ opera su diversi fronti un lavoro di divisione e di contrapposizione, il Partito democratico deve agire nella direzione opposta, per ricomporre un quadro unitario di valori che tenga unita la nostra comunità nazionale. Ed è questo il significato più profondo della “laicità” della politica, il fatto cioè che nel nostro agire politico non siamo prigionieri di identità chiuse, separate, di feticci ideologici, ma pensiamo, classicamente, la polis, la comunità, come il luogo che vive della partecipazione di tutti. Nel momento in cui riprendono forza gli opposti fondamentalismi, l’unica vera garanzia di laicità sta in un partito che lavora non a dividere ma a unire. Di questo spirito democratico, partecipativo e aperto, c’è oggi in Italia un estremo bisogno. Il Partito democratico può segnare una svolta se riesce a rappresentare questa necessità. Può essere la risposta alla crisi della politica. Ma a condizione che sappia davvero liberare il dibattito politico da tutte le vecchie scorie ideologiche e che si presenti ai cittadini come uno strumento che possono prendere nelle loro mani, per discutere, per decidere, per trovare insieme le risposte ai problemi, senza dover attendere l’arrivo improbabile di un deus ex machina, perché non c’è nessuno che può sciogliere i nodi se non c’è un lavoro collettivo nel quale tutti ci sentiamo coinvolti.


Numero progressivo: L32
Busta: 9
Estremi cronologici: 2007, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, giugno 2007, pp. 75-84