DIALOGANDO SU CULTURA E LAVORO

Sindacato e ricerca: un rapporto complicato e vitale

Salvo Leonardi – Responsabile per l’area relazioni industriali dell’IRES nazionale
Riccardo Terzi – Segretario Nazionale dello SPI-CGIL

S.L. Nel corso della tua lunga militanza, prima politica e poi sindacale, ti sei sempre distinto per una certa attitudine a leggere ed interpretare gli accadimenti della politica e della società sempre al di là delle loro manifestazioni più contingenti, sforzandoti piuttosto di coglierne i sommovimenti più profondi e strutturali. Di questa tensione costante ne è una testimonianza il tuo recente La pazienza e l’ironia (Ediesse, 2011), in cui sono raccolti alcuni tuoi scritti pubblicati fra il 1982 e il 2010. Ne emerge, insieme al profilo intellettuale e politico dell’autore, la mappa e il tragitto di un intero ciclo di eventi che ha scandito e cambiato la storia del nostro paese. Parli del ‘68, del compromesso storico, della sconfitta operaia alla Fiat, e poi ancora dell’accordo del 1992, dal fenomeno leghista, della crisi della democrazia, dei dilemmi della sinistra e del sindacato. Il fil rouge delle tue analisi mi pare risieda nella centralità che hai sempre conferito al sociale, e alla sua relativa autonomia: il lavoro, la classe, la rappresentanza, il sindacato. Anche in polemica con quanti negli stessi anni teorizzavano e perseguivano l’autonomia e il primato della politica. Il movimento operaio, in particolare, e la sua crisi tardo novecentesca, costituiscono la cifra a partire dalla quale declini la crisi della sinistra, nella sua forma partitica e sindacale. I sistemi sociali sono divenuti molto più complessi che in passato, pregiudicando – tanto sul piano materiale che simbolico – la possibilità di avere del lavoro una rappresentanza, e prima ancora una rappresentazione, tendenzialmente unitaria. In che modo e su quali basi ritieni possibile ricostruire oggi una trama del sociale in grado di rifondare una soggettività autonoma e solidale da contrapporre all’egemonia neoliberista di questi anni?

 

R.T. Hai giustamente individuato nell’autonomia del sociale il filo conduttore che mi ha guidato in tutto il mio lavoro. Ciò esclude il “primato” della politica, ma non la sua autonomia; esclude cioè di poter stringere in un unico blocco le due sfere, che restano distinte e che percorrono diverse e autonome traiettorie. La sinistra, egemonizzata dal modello leninista, ha per troppo termo subordinato totalmente l’azione sociale agli obiettivi strettamente politici, affidando al partito politico il ruolo di rappresentante esclusivo della coscienza di classe. A tutta questa impostazione abbiamo pagato dei prezzi molto alti.

Posso citare, come eccezione a questa regola, solo il pensiero di Bruno Trentin, che ha rovesciato l’ortodossia dominante e ha puntato a riscoprire e a valorizzare quelle correnti minoritarie che, dall’interno del movimento operaio, hanno cercato di definire un diverso paradigma, centrato non sulla politica e sulla conquista del potere, ma sulla libera soggettività del lavoro. A guardar bene, troviamo in Trentin già impostati tutti i problemi che oggi dobbiamo affrontare: i diritti di cittadinanza, la riforma del welfare, le nuove domande sociali. Egli ha fornito al movimento sindacale un quadro teorico innovativo e coerente.

La crescente complessità dei sistemi sociali è un fatto indubbio, ma in fondo non sposta di molto il quadro teorico complessivo. C’è un uso strumentale della complessità, il quale tende a dire che non è più possibile nessuna interpretazione unitaria del reale, perché esistono solo frammenti, parzialità, e in questa società del frammento tutte le identità collettive sono destinate a sfrangiarsi. Non è più possibile, quindi, configurare un movimento di insieme, ma ci sono solo gli infiniti rivoli in cui si consuma e si disperde la nostra identità. La conclusione di questo discorso è la “fine del sociale” e la definitiva individualizzazione della società.

In realtà, guardando a tutta la storia del movimento operaio, vediamo come l’unità di classe non sia mai un dato immediato, spontaneo, ma solo il risultato di un processo. Le società sono sempre complesse, e le identità sono sempre costruzioni artificiali, il punto di arrivo di un lavoro, di un lungo attraversamento dentro le pieghe e le contraddizioni del sociale. In una certa fase storica, è stato il mito politico a tenere unito il movimento di classe. Oggi è il momento di rovesciare questo schema, e di partire dalla persona, dalla sua libertà, dai suoi diritti di cittadinanza. È una diversa traiettoria, un diverso modo di pensare e di agire, e su questa base si può ritrovare un fondamento unitario, un orizzonte comune che tiene insieme tutto un arcipelago di movimenti e di esperienze di lotta. Mi sembra che la CGIL stia cercando di essere il punto di riferimento di queste diverse esperienze. Forse non c’è una piena consapevolezza teorica, ma c’è già un’azione pratica che va in questa direzione.

 

S.L. Trattando di sindacato, hai sempre espresso la necessità di portare a compimento un progetto di autonomia, capace di preservarlo dal duplice rischio di una istituzionalizzazione e di una politicizzazione subalterna da un lato e di una deriva corporativa e disgregante dall’altro. A un certo punto descrivi la trasformazione del lavoro sindacale, rilevandone criticamente alcuni processi materiali di burocratizzazione e di politicizzazione impropria. Gli incontri ai ministeri, i convegni politici, le tavole rotonde di partito. Alla fine degli anni ‘80 ti chiedi: «Quanti sono ancora i quadri sindacali che hanno un rapporto vivo con la realtà, che sanno studiare e capire i processi, che sono espressione di forze reali con le quali si confrontano in un rapporto quotidiano, in una verifica sul campo, nel vivo del conflitto sociale?». Vorrei chiederti quanto vi sia ancora di attuale in questo giudizio e in che misura, secondo te, il progetto dell’autonomia sindacale passa per l’adozione e il consolidamento di centri sindacali autonomi di ricerca e di elaborazione, sia empirica che teorica?

 

R.T. Continuo a pensare che il progetto di autonomia sia tuttora un progetto incompiuto. E la situazione in questi anni si è aggravata, perché si è instaurato un sistema politico che ha fatto del bipolarismo il suo dogma fondativo, per cui tutto deve essere bipolarizzato e tutti gli spazi di autonomia vengono travolti. Il risultato rischia di essere la colonizzazione del sindacato, costretto nell’alternativa forzata tra sindacato di governo e sindacato di opposizione. Se questo avviene, vuol dire che non abbiamo saputo costruire le condizioni culturali di una nostra effettiva autonomia, che non abbiamo preso tutte le misure necessarie per evitare uno “slittamento” nel politico, e quindi una condizione subalterna. Questa autonomia può essere conquistata solo con un lavoro continuativo, in un rapporto vivente con la realtà sociale e con i suoi mutamenti, così da formare un quadro dirigente capace di incarnare in sé questa idea di autonomia, per cui il suo lavoro non è mai condizionato dall’esterno, e non è un lavoro provvisorio, in vista di altri traguardi politici, come troppo spesso accade.

Forse è questo un ideale astratto. Ma questo continuo interscambio tra il sociale e il politico non è un segno di vitalità, ma solo di debolezza. Certo, non c’è autonomia se non c’è l’elaborazione di un pensiero, di un progetto, se non c’è una ricerca che offra al sindacato le basi culturali necessarie per reggere l’urto delle strumentalizzazioni politiche e delle invasioni di campo. Essere autonomi vuol dire possedere una intelaiatura teorica con la quale riusciamo a leggere la realtà.

 

S.L. Nell’Italia del ‘900, similmente ad altri paesi industrializzati, il sindacato ha fornito un grande contributo alla crescita culturale e dunque civile e sociale del paese. Ciò è avvenuto grazie all’enorme apporto didattico e pedagogico esercitato all’interno del mondo del lavoro, ma anche attraverso le energie e gli entusiasmi che ha saputo suscitare in quei settori della cultura “alta” che al mondo del lavoro e alle lotte sociali hanno scelto di ispirare il loro impegno e le loro opere. Nella letteratura, nell’arte, nel cinema, nel campo della ricerca e dell’impegno sociale, gli esempi sono innumerevoli e memorabili. Al contempo sia la CGIL che la CISL avvertono immediatamente l’esigenza di dotarsi di propri centri studi sui problemi del lavoro. Analogamente a quanto del resto facevano le imprese: fosse il mitico movimento “Comunità” di Adriano Olivetti o l’IPSOA o il CEPES di Vittorio Valletta. Di Vittorio, Foa e Trentin ebbero sempre chiara e netta la visione di un sindacato soggetto politico, capace a tal fine di dotarsi di propri centri autonomi di ricerca ed elaborazione. Nel dopoguerra Uffici studi vengono immediatamente costituiti nelle principali Camere del lavoro, nelle Federazioni più avanzate e a livello confederale. Alla fine degli anni ‘70, per iniziativa di Trentin e con la collaborazione di Giuliano Amato, nasce l’IRES nazionale e strutture analoghe vengono costituite in varie regioni italiane. Qual è il tuo ricordo e il tuo giudizio sul rapporto che la CGIL ha saputo instaurare col mondo dei saperi e con quello della ricerca socio­economica in particolare? Quali sono stati a tuo avviso i punti di forza e quali invece i punti di debolezza?

 

R.T. Questa capacità di rapporto con la cultura è uno dei tratti distintivi del sindacalismo italiano. E forse non ci rendiamo abbastanza conto che la CGIL ha avuto nella sua storia un gruppo dirigente di altissima levatura culturale, capace di parlare non il linguaggio di una “corporazione”, di un segmento, ma di rappresentare gli interessi generali del paese. Oggi, in un clima politico mutato, il rischio è che ciascuno sia ricondotto ad un compito più settoriale, più specialistico, per cui si fatica a costruire quello spazio pubblico comune che mette in comunicazione i diversi saperi, le diverse competenze. C’è una formula che ogni tanto ritorna: a ciascuno il suo mestiere, la quale non è altro che la rappresentazione di un antico ideale conservatore, che assegna a ciascuno la sua parte, il suo ruolo, escludendo qualsiasi rimescolamento delle carte.

Il nostro “mestiere”, se possiamo dire così, è quello di occuparci di tutto ciò che riguarda la vita delle persone. E, nel caso dei pensionati, questo è ancora più evidente, perché ciò che vogliamo rappresentare è una condizione esistenziale, una determinata fase della vita, che va oltre le passate esperienze lavorative. In questo lo SPI ha una funzione di traino e di anticipazione, spingendo l’intero movimento sindacale verso una sua funzione “generale”, confederale. Mi è capitato di dire che lo SPI è un sindacato “filosofico”, perché si deve occupare dei problemi fondamentali della vita. Oggi è essenziale riannodare tutti i rapporti con la cultura esterna, coi centri di ricerca, con gli specialisti, in tutti campi del sapere. Per fare utilmente questo lavoro, sarebbe utile una strutturazione meno frammentata del nostro lavoro culturale, riconducendo tutte le diverse iniziative, territoriali e di categoria, ad un unico centro di direzione. La stessa esigenza vale per l’attività di formazione e per gli strumenti di comunicazione. Oggi tutto questo lavoro è troppo disperso e scoordinato, e non riesce quindi ad esprimere tutta la nostra forza potenziale. Io vedo comunque ancora oggi una grande disponibilità degli studiosi e degli esperiti a collaborare con la CGIL, che continua ad essere, pur con i suoi limiti, un essenziale punto di riferimento ideale ed organizzativo per chi voglia impegnarsi nella costruzione di un nuovo modello sociale.

 

S.L. Nella patria di Antonio Gramsci, teorico dell’egemonia e dell’intellettuale organico, il rapporto fra sapere e prassi – a sinistra – è stato per lungo tempo inteso in una prospettiva teorica che fosse al contempo critica, globale, generalista; in grado di determinare una “visione del mondo” al fine di trasformarlo. “L’intellettuale è un tecnico dell’universale”, scriveva J.P. Sartre. Da anni si assiste invece alla “decadenza” (Bauman) o al “tradimento” degli intellettuali (Eagleton), e ad una trasformazione dello statuto epistemologico dello studioso che in particolare si presta all’impegno sindacale e politico. Ciò che è ora richiesto è un tipo di sapere pratico, empirico, tecnico, tendenzialmente neutrale, rivolto non tanto ad una interpretazione critica ed olistica dei “massimi sistemi” bensì ad un problem solving più o meno contingente e fortemente circoscritto dal punto di vista dei saperi disciplinari. Tutto il resto è declassato a livello di mera “ideologia”; nel senso deteriore che si suole attribuire a questa categoria. La crisi contemporanea dell’umanesimo che investe pesantemente l’insegnamento scolastico e universitario, mi pare il sintomo più clamoroso di questo salto di paradigma.

Come valuti questa mutazione e in che misura ritieni – se lo ritieni – che essa possa già rappresentare un indicatore dell’egemonia ideologica del neoliberismo, divenuto capace – nell’epoca della tecnica e della globalizzazione – di disinnescare a monte, sul piano epistemologico prima ancora che politico, un sapere e una prassi critica nei riguardi del suo dominio? C’è ancora bisogno di un tipo di conoscenza in grado di determinare il disvelamento delle contraddizioni fondamentali della società?

 

R.T. Ho già detto della tendenza alla specializzazione, al “mestiere”, e della assoluta necessità di spezzare questa logica. Ma non credo che si tratti di una traiettoria inevitabile, perché in varie forme ritorna il bisogno di una visione generale e di un confronto pubblico aperto sulle prospettive del nostro mondo. Potremmo dire che ritorna una domanda di “saggezza”, intendendo la saggezza come l’essere aperti a tutte le verità possibili, senza mai fissarsi su un solo punto, su una sola verità parziale.

La tesi della fine delle ideologie non regge alla prova della storia, tanto è vero che il nostro mondo globalizzato è sempre più popolato da nuovi miti e da nuove identità, anche nelle forme inquietanti dell’integralismo e dell’intolleranza. I teorici del post-ideologico hanno lasciato un vuoto, e questo vuoto viene riempito, in varie forme e con diversi contenuti. Se la sinistra continua a pensare che il suo problema è quello di liberarsi del suo passato come di una zavorra e di diventare “neutrale”, incolore, moderata, essa sarà semplicemente spazzata via, come è giusto. Perché sono proprio i cambiamenti straordinari del nostro tempo a reclamare una teoria, una visione, una interpretazione del mondo.

Io ho l’impressione che l’ubriacatura post-ideologica sia avviata alla sua inevitabile conclusione. E c’è lo spazio, credo, per un nuovo lavoro sui fondamenti, per ridare senso all’azione collettiva. È bella e convincente la definizione di Sartre. Dobbiamo nuovamente praticarla.

 

S.L. In occasione dell’ultimo congresso, e degli eventi organizzativo che lo hanno preceduto e accompagnato, la CGIL ha posto grande enfasi sul tema dell’identità. Pur non disconoscendo affatto il ruolo cruciale esercitato dall’offerta di servizi e di tutele, sia collettive che individuali, la Confederazione individua nella rivitalizzazione identitaria – e dunque culturale, storica e valoriale – un principio fondamentale di reinsediamento sociale. Le potenzialità, a questo riguardo, paiono effettivamente ampie, come testimoniano le grandi manifestazioni di interesse e simpatia raccolte in questi anni in vaste fasce della società e dell’opinione pubblica. Che valutazione esprimi riguardo a questa scelta? E che ruolo pensi possa avere il sistema degli istituti di ricerca?

 

R.T. Il tema dell’identità è un grande tema, e, come tutte le cose grandi, contiene in sé una fortissima carica di ambiguità. L’identità, se è ben intesa, è lo sguardo sul futuro, è il progetto, è la funzione storica che pensiamo di poter svolgere. Nello stesso tempo, essa rischia sempre di rinchiudersi su se stessa, di esser solo il ripiegamento narcisistico su una posizione di autocompiacimento, in una linea di conflitto con tutto ciò che è diverso. Si produce così un’identità morta, incapace di interagire con la complessità del reale, con i suoi mutamenti, con il pluralismo delle idee e delle culture.

Quello che si usa chiamare populismo è appunto questa mitizzazione di una identità originaria che va immunizzata da tutte le influenze esterne che la possono snaturare. E da ciò viene l’identificazione del diverso con il nemico. Questo tema dell’identità è quindi, per tutte le grandi organizzazioni, una risorsa necessaria, ma anche una possibile trappola. Per queste ragioni, io penso che noi dobbiamo maneggiare questo problema con molta attenzione e prudenza, per non rischiare mai di scadere in una logica identitaria deteriore, che si traduce nei fatti in una pratica sterile di pretesa autosufficienza.

Un organizzazione deperisce nel momento in cui viene meno lo spirito critico, la capacità di indagare in modo aperto anche sui propri limiti e sui propri errori, per rendere possibile una risposta creativa ai problemi nuovi che si presentano. Mi piacerebbe che fosse questa l’identità della CGIL: una continua tensione a guardare oltre i propri confini.

 

S.L. Da alcuni anni ormai lavori e collabori con lo SPI, all’interno del quale sei stato fra i maggiori animatori di progetti ed eventi volti ad accrescere la sensibilità e la conoscenza intorno ai grandi temi del nostro tempo. Ancora poche settimane fa avete invitato a discuterne Amartya Sen, fra i più acuti interpreti della globalizzazione e delle sue conseguenze per la libertà e per la democrazia. Nei tuoi scritti descrivi la crisi della democrazia come venire meno di una reale competizione tra idee diverse di giustizia, che si definiscono in base ad un sistema di valori e di principi su cui modellare l’ordinamento sociale. Come possono i valori e i principi che il sindacato e la sinistra hanno finora incarnato – uguaglianza e solidarietà – sopravvivere alle sfide drammatiche della globalizzazione e dell’individualismo? Si può immaginare, come suggeriscono alcuni (Eagleton; Cantaro; Hyman), una narrazione complessivamente alternativa a quella neoliberista della “fine delle ideologie” altrui e del “non ci sono alternative”?

 

R.T. Il lavoro nello SPI ha una straordinaria potenzialità, perché è un osservatorio da cui si guarda il mondo, ed è una rete organizzata che tiene insieme i diversi fili di una grande esperienza collettiva. Per questo, il tema della democrazia è per noi cruciale, perché il nostro obiettivo è proprio quello di sconfiggere quelle che possono essere definite come le trappole dell’invecchiamento: la passività, la marginalità, il ripiegamento nel privato, la solitudine. Per questo c’è bisogno di una rete democratica che funzioni, di una cittadinanza attiva, di una democrazia che non si consumi nell’osservanza formale delle norme, ma dia luogo ad una effettiva partecipazione popolare. L’incontro con Sen nasce da qui, dall’idea che la giustizia non è un modello astratto, ma è il risultato di una pratica democratica.



Numero progressivo: E11
Busta: 5
Estremi cronologici: 2011, 8 luglio
Autore: Salvo Leonardi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “ERE - Emilia Romagna Europa” n. 8, luglio 2011. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Autonomia”, pp. 217-222