[CONVEGNO GRAMSCI]

Torino, [1976]

Intervento di Riccardo Terzi

Il tema della “governabilità democratica”, che è stato scelto opportunamente come filo conduttore di questo Convegno è entrato da qualche tempo nel linguaggio politico corrente, nel dibattito quotidiano tra i partiti, ma in generale ciò avviene in modo del tutto insoddisfacente e restrittivo, come se la questione fosse semplicemente quella di individuare una possibile maggioranza di governo, una formula politica praticabile. Dato che bisogna pur garantire in qualche forma la governabilità del paese, l’immaginazione politica va alla ricerca di quelle combinazioni che possano costituire un punto, sia pur fragile, di raccordo e di mediazione tra le posizioni dei diversi partiti.

Se la questione viene impostata solo in questi termini, allora si rinuncia ad affrontare, in tutta la sua portata, il tema della crisi dello Stato democratico e del suo necessario rinnovamento.

È questo l’appunto che può essere rivolto a certe impostazioni socialiste, non già per il loro realismo e la loro prudenza, ma per il fatto di non porre il problema del governo e della direzione politica in un quadro più ampio. Si resta allora prigionieri di quella particolare logica politica che si riassume nel principio della “centralità democristiana” il possibile è ciò che rientra nei confini tracciati dalla Democrazia Cristiana, il realismo politico è l’accettazione del predominio democristiano, come cardine insostituibile della vita democratica, la governabilità si riduce pertanto alla ricerca di quelle combinazioni parlamentari che possano, nelle condizioni attuali, garantire il prolungamento del sistema di potere dato. Su questa via la sinistra può essere ammessa come forza di supporto, alla condizione che non si qualifichi con un proprio originale progetto di cambiamento e di riorganizzazione del potere democratico. Per la Democrazia Cristiana il problema delle alleanze politiche è un problema di cooptazione e di assimilazione. È evidente che, per la sinistra, accettare un tale terreno significherebbe un atto unilaterale di abdicazione, e che pertanto la stessa iniziativa unitaria verso la DC è inscindibile dalla necessità di condurre una decisa azione di rottura del suo sistema di potere.

Non credo affatto che la sottolineatura di questo antagonismo e l’indicazione di una linea che punti alla rottura della centralità democristiana comporti lo scivolamento nel velleitarismo o nell’avventura. In realtà, a me pare che il fatto rilevante che caratterizza la presente fase politica sia proprio la messa in discussione, a livello di massa, del regime vigente, delle sue forme e della sua logica. Ciò appare spesso come crisi della dimensione politica, come atto di sfiducia nell’ordinamento democratico, ma a ben guardare la sostanza di molti fenomeni, anche assai discutibili e rischiosi, è la rivendicazione di un nuovo tipo di assetto democratico e di rapporto tra potere politico e società.

Di fronte alle manifestazioni politiche che si sono recentemente verificate, in modo particolare nei grandi centri urbani, sia sul piano elettorale (referendum sul finanziamento ai partiti, astensionismo e voto radicale), sia su quello del costume (tutto ciò che viene sbrigativamente indicato come riflusso), sarebbe fuorviante, a mio giudizio, una valutazione che riducesse tutto questo complesso di espressioni della coscienza pubblica sotto il segno del qualunquismo e della regressione individualistica.

I segnali che ci vengono dalla società sono la testimonianza di nodi politici reali, che vanno adeguatamente inquadrati e affrontati, e un approccio moralistico e predicatorio a tali questioni sarebbe del tutto inconcludente.

Un esempio significativo ci viene dal processo di ripensamento politico in atto nelle nuove generazioni. Sono caduti i facili miti dell’estremismo sessantottesco, l’ideologizzazione e politicizzazione assoluta, e tale caduta è il recupero di una più equilibrata e misurata razionalità. A ciò subentra una fase di ricerca e di incertezza, una difficoltà a trovare la via di un impegno politico chiaramente orientato e definito, il che trae con sé anche elementi di sfiducia e rinuncia.

Possiamo forse trovare una chiave di interpretazione di quanto si sta verificando nel superamento e nella messa in discussione del primato della politica: ecco allora l’emergere di nuove tematiche, l’affermazione della loro autonomia, della loro irriducibilità, come avviene per tutti i problemi della vita soggettiva, del privato, come avviene nel movimento delle donne, che vuole affermare una sua carica dirompente al di fuori i schemi politici consueti.

La politica non riesce più a riassumere in sé tutte le manifestazioni del reale, ad essere l’esclusivo e totale quadro di riferimento. Ora, questa critica della politica ha in sé due potenzialità contrapposte: può essere l’affermazione di una più elevata coscienza civile, di una più netta presa di coscienza della società come soggetto e come artefice della politica, oppure può avere il senso di un ritorno ad uno stadio corporativo della coscienza pubblica, di un offuscamento che riconduce l’individuo entro la sfera ristretta dei suoi interessi immediati e delle sue relazioni private.

La partita oggi in corso è tra queste due eventualità, tra questi due esiti possibili. La battaglia non può essere vinta con un opera di “orientamento” che cali dall’alto, ma con una capacità di rinnovamento delle forme della politica, senza di che si va verso un accelerato processo di americanizzazione della vita e delle coscienze, di cui già sono visibili sintomi inquietanti.

Il punto di osservazione della coscienza giovanile e delle sue particolari forme di cultura è quello che meglio ci può indicare le tendenze generali della società ed allarma il fatto che la sinistra non sappia dedicare a questo tema un’attenzione politica effettiva e, che non si intenda come sia qui la difficoltà più rilevante che sta davanti a noi.

Nelle grandi concentrazioni urbane questo complesso di problemi si manifesta in modo più netto, proprio perché più acute sono le contraddizioni e più visibile il divario tra emancipazione politica ed emancipazione umana, tra democrazia e libertà.

Se ci fermiamo al primo lato di questo rapporto, è inevitabile che si perda terreno, non per il riflusso, ma perché non sappiamo avanzare su di un nuovo terreno.

Queste considerazioni possono spiegare il recente fenomeno radicale, che non è altro che l’esasperazione estrema di una tendenza più generale e diffusa. Come fatto strettamente politico-elettorale può anche trattarsi di un episodio marginale e transitorio, ma ciò non è scontato, e soprattutto occorre non perdere di vista le tendenze profonde che agiscono nella società e che solo indirettamente e parzialmente si esprimono nel voto.

È opportuno, credo, ripensare al significato che ha avuto quel vasto movimento di opinione che, nel ‘75 e nel ’76, ha determinato una svolta negli equilibri politici e che ha avuto il suo epicentro nelle grandi città.

Questa spinta ha trovato allora il suo punto di riferimento essenziale nel Partito Comunista, in quanto più di ogni altra formazione politica si presentava come forza alternativa, ma è evidente come si trattasse di un atto di fiducia condizionato, non di una scelta di campo definitiva e irreversibile. Il venir meno delle grandi opzioni ideologiche crea le condizioni per un’ampia mobilità elettorale, e allora ogni volta il consenso va conquistato e dipende da ciò che un partito fa, e non da ciò che dichiara di essere. Questo processo di laicizzazione segna indubbiamente un progresso rispetto all’inerzia che ha caratterizzato nel passato il nostro sistema politico, paralizzandolo in blocchi contrapposti, ma nel contempo pone a tutti problemi e difficoltà nuove, e richiede una grande capacità di dialogo aperto con la società.

Rispetto alla svolta del 15 giugno non ritengo che sia intervenuto in questi anni un ribaltamento di prospettive, che abbia ripreso il sopravvento l’egemonia dei vecchi gruppi dominanti. Quella rottura non è reversibile: è un cambiamento di cultura che non potrà essere riassorbito, anche se rimane incerta, aperta a diversi sbocchi, la sua valenza politica. In sostanza si tratta di quell’autoaffermazione della società civile e dei suoi diritti che si oppone ad un dominio politico non più legittimato dal consenso, non più capace di una egemonia.

La sinistra ha una grande carta da giocare, un’occasione non facilmente ripetibile, ma deve sapere che la domanda di cambiamento la coinvolge direttamente, che essa stessa è messa alla prova e viene giudicata con severità. Inoltre è evidente che questa opposizione del sociale al politico può anche avere un esito conservatore, liberal-democratico, e che pertanto non si tratta solo di assecondare i movimenti in atto, ma di intervenire su di essi e di guidarli.

Vi è stato probabilmente da parte nostra, dopo le elezioni del ‘75, un errore di timidezza, di prudenza eccessiva. C’è stato il timore di un brusco contraccolpo nei settori moderati della società e di una lacerazione nei rapporti politici. A ciò, in effetti, ha puntato, in un primo momento la Democrazia Cristiana, cercando di determinare uno stato di allarme nelle forze capitalistiche e nelle classi medie, di creare un clima cileno, ma l’operazione non è riuscita e la stessa propaganda democristiana ha cambiato rapidamente registro: le giunte di sinistra sono state messe sotto accusa in quanto incapaci di realizzare il cambiamento promesso, l’opposizione della DC ha scelto il populismo e la demagogia.

Ora, nell’imminenza della prossima consultazione elettorale, devono risaltare con estrema chiarezza i termini dello scontro politico, deve essere evidente che si tratta di una battaglia che oppone forze diverse e antagoniste, con diversi programmi e, soprattutto, con una diversa concezione della politica. Le forze della sinistra, e tra esse in primo luogo il Partito Comunista, racchiudono in sé una possibilità di alternativa e sono lo strumento per un pieno, incondizionato, dispiegamento delle esigenze di libertà e di crescita civile e culturale che nella società sono maturate e che politicamente cercano di affermarsi.

Una diversa linea di condotta porterebbe alla sconfitta. Se, dopo l’avvio contrastato di un’esperienza innovativa dovessimo prospettare ipotesi di generale solidarietà tra tutte le forze democratiche, anche là dove non se ne vedono in nessuna misura le condizioni, ciò avrebbe solo un effetto deprimente e smobilitante. La Democrazia Cristiana non è riuscita, in questi anni, a riacquistare credibilità. Ha condotto una opposizione, nelle grandi città, confusa e agitatoria, senza una linea politica coerente, senza un’elaborazione programmatica. D’altra parte la grande articolazione politica esistente nelle città consente di assicurare un equilibrio con il concorso di forze diverse, valorizzando il ruolo delle formazioni intermedie, che sono rappresentative di strati sociali tipicamente urbani.

Il 15 giugno, pur nella molteplicità delle motivazioni e delle aspettative che in esso sono confluite, ha rappresentato una richiesta di ricambio della classe dirigente, la cui attualità è più che mai viva, dato il quadro di scadimento del costume politico che emerge dai numerosi e gravi episodi della cronaca di questi mesi e di questi giorni. Qui sta uno degli aspetti essenziali della governabilità: solo se si ristabilisce una corrente di fiducia tra le istituzioni e i cittadini può essere fondato un governo autorevole, e ciò implica un cambiamento politico, un atto significativo di rottura rispetto al passato.

Una ripresa di vitalità democratica del nostro ordinamento può avvenire, io credo, solo in una libera e aperta competizione, in cui ogni forza faccia valere pienamente i propri valori, la propria fisionomia. Quando si oscura la linea di demarcazione tra i partiti politici la vita democratica si impoverisce e si allenta la tensione politica, oppure sorge il sospetto del regime e scatta allora immediatamente una reazione nel corpo della società.

Ciò che a noi viene chiesto è di scendere in campo con la nostra identità, di essere il punto di riferimento e di aggregazione per una battaglia di lungo periodo che si ponga l’obiettivo di un profondo rinnovamento dello Stato, del suo personale politico, del suo funzionamento.

Tornando alla questione posta inizialmente, può essere ora chiaro in quale contesto più generale e a quali condizioni possa essere posto il problema della governabilità, ovvero della costruzione di una democrazia salda e rinnovata.

Alla mediazione corporativa tra gli interessi costituiti, che contraddistingue il sistema di governo democristiano e che conduce ad un equilibrio stagnante e alla riproduzione inerte dell’assetto sociale con le sue contraddizioni irrisolte, è necessario opporre una linea di attivizzazione delle forze sociali e di loro effettiva partecipazione, politica e non clientelare, alle scelte generali, alla progettazione dello sviluppo. Il tema della partecipazione ha ancora bisogno, a mio giudizio, di un ripensamento approfondito, in quanto non possiamo restare fermi a quella sorta di “cultura di quartiere” che si è diffusa in questi anni e che ora segna il passo. Il problema del governo delle grandi aree urbane richiede articolazioni più complesse e implica mediazioni culturali al più alto livello. La dimensione orizzontale del quartiere diviene tra l’altro sempre meno significativa in una realtà urbana che realizza una estrema mobilità e in cui l’aggregazione avviene sempre più su altre basi.

Accanto all’importante conquista del decentramento territoriale occorre pertanto affrontare il problema, certamente più complesso, delle aggregazioni verticali, del rapporto democratico che deve essere stabilito, in modo organico, con le istituzioni culturali, con le rappresentanze sociali, con i movimenti autonomi che si organizzano nella società, aprendo ad essi le sedi decisionali, tuttora troppo esclusivamente riservate alle rappresentanze politiche. Un capitolo di questo tema è rappresentato, ad esempio, dalla questione delle nomine e della necessità, non più procrastinabile, di porre fine al tradizionale criterio della spartizione tra i partiti, che troppo spesso premia non la capacità ma il servilismo.

Anche per il Partito si pone un problema analogo: nella grande città il carattere di massa del Partito e il sistema delle sue relazioni esterne non sono più sufficientemente garantiti dalla rete organizzativa capillare, che pure va difesa con il massimo impegno.

La tendenza al partito di opinione, che affida esclusivamente la propria immagine ai messaggi dei grandi mezzi di informazione, ha una base oggettiva, e alcuni partiti hanno ormai imboccato decisamente questa via. La questione su cui lavorare è quella, allora, dei caratteri che deve avere un moderno partito di massa, capace di aderire ai processi reali e di stabilire con la società un rapporto effettivo e permanente. Ciò richiede, indubbiamente, uno sviluppo coraggioso della democrazia interna, una riflessione sulle sue forme storicamente consolidate e una capacità nuova di raccordo con la realtà sociale. L’esperienza positiva che stiamo facendo in questi giorni con la consultazione preliminare, che ha già dato risultati sorprendenti di partecipazione, dimostra che vie nuove possono essere imboccate, e che ogni passo in avanti richiede un atto di coraggio e di fiducia.

Il quadro della società non è quello dello sfascio e della disgregazione, come spesso viene rappresentato, ma è dato invece da un complesso di energie potenziali che possono essere attivizzate alla condizione che la politica si presenti loro non come una sfera separata, ma come la possibilità di riprender possesso della propria esistenza, individuale e collettiva.



Numero progressivo: F19
Busta: 6
Estremi cronologici: [1976]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -