CAPITALISMO E CITTADINANZA

L’Italia nella transizione: il convegno milanese promosso dalla CGIL e dal CRS

Intervento di Riccardo Terzi al convegno milanese promosso da CGIL e CRS intitolato “L’Italia nella transizione”

L’Italia nella transizione: quali sono i processi profondi di trasformazione sociale e istituzionale, quali i possibili scenari del prossimo futuro e le alternative che sono aperte? Intorno a questi interrogativi si è svolto a Milano un interessante, convegno, promosso dalla CGIL e dal Centro per la riforma dello Stato. Centinaia di persone (quadri del sindacato, intellettuali, lavoratori, giovani, dirigenti politici) si sono ritrovate insieme per tre giorni intensi di lavoro e di ricerca. Mi sembra un fatto significativo, una prova della vitalità democratica che ancora percorre la società italiana. Ma di tutto ciò, del vario fermento culturale che si sviluppa nel paese, più ricco di quanto non si pensi, non c’è in generale notizia sui grandi mezzi di informazione, interessati solo alla politica-spettacolo che vede come attori esclusivi i membri di una sempre più ristretta oligarchia.

Bisognerà, credo, affrontare al più presto, e con la necessaria decisione, questo grande tema dell’informazione e reagire all’attuale stato di cose. Se la politica appare così angusta e opaca, ristretta a un ceto politico avvitato su se stesso, ciò è anche un effetto di questi meccanismi distorti della comunicazione, i quali riescono a rappresentare la vita politica italiana in un’ottica ancora più riduttiva, più povera di contenuti e di significati, di quanto non sia nella realtà.

Di questi temi abbiamo ampiamente discusso a Milano, ponendo al centro il problema delle forme della democrazia, degli strumenti della partecipazione politica. Vi è la necessità di un progetto democratico nuovo che sia capace di offrire un’alternativa alla tendenza leaderistico-plebiscitaria oggi prevalente. Non solo la destra punta esplicitamente su questo modello, e ciò è del tutto coerente, ma anche le forze progressiste sembrano essere talora trascinate dalla corrente, nella convinzione, non so se ingenua o disperata, o cinica, che ormai queste sono le regole, queste le forme obbligate della competizione politica.

Questo realismo rassegnato che subisce i processi in atto di restringimento della democrazia come se fossero eventi naturali, oggettivi, è un falso realismo, perché un tale atteggiamento di mero adattamento all’esistente non rende la sinistra, come ci si illude, più innovativa e più competitiva, ma al contrario la rende superflua.

Il primo e fondamentale terreno di competizione riguarda la concezione e la pratica della democrazia, e la sinistra ha un senso solo se su questo terreno riesce a qualificare una sua prospettiva e una sua proposta.

I luoghi e le forme della democrazia: questo oggi è il problema politico centrale. Il partito politico, l’informazione, l’economia, la rappresentanza sociale, il territorio: su ciascuno di questi terreni è in atto un processo di concentrazione oligarchica delle decisioni e di svuotamento della democrazia. Quali risposte diamo, quali nuovi strumenti mettiamo in moto?

Come si vede il Convegno di Milano si è mosso in una precisa direzione critica, rifiutando le rappresentazioni propagandistiche e le formule retoriche della «Seconda Repubblica» e scegliendo di andare contro corrente.

La transizione è aperta, non predeterminata nei suoi sbocchi, e il risultato dipende da un complesso di forze, di iniziative, di progetti. Così, ad esempio, l’adozione della nuova legge elettorale maggioritaria non segna di per sé l’inaugurazione di una nuova e più alta forma di democrazia, ma è solo uno strumento che può essere utilizzato in vista di diversi obiettivi. La sua funzione essenziale è stata quella di dinamizzare e di rimettere in movimento un sistema politico sclerotizzato. Ma la direzione di questo movimento non è garantita, non può essere affidata solo ai meccanismi istituzionali, ma dipende dall’azione e dalle scelte dei soggetti politici.

Ciò che finora è concretamente avvenuto non è il passaggio dal dominio partitocratico all’autogoverno della società civile, ma al contrario è l’affermazione di una nuova e più ristretta casta politica. È un risultato che non dipende dalla legge elettorale presa per se stessa, ma dalle strategie politiche che si sono messe in campo. Quando si sostiene che il completamento della riforma è l’introduzione del presidenzialismo, si compie una precisa opzione politica, con la quale si chiude il cerchio: la domanda di una democrazia più vicina ai cittadini e più trasparente, che costituiva la ragion d’essere del movimento referendario, si capovolge infine nel suo opposto. Per liberarci dai partiti, che hanno abusato della nostra delega, dovremmo affidare a un uomo solo una delega ben più impegnativa e rischiosa.

La democrazia, quindi, è a un punto critico, e va ridefinita nei suoi strumenti. Già stiamo pensando a un prossimo appuntamento, che continui questo lavoro in comune tra la CGIL e il CRS, dedicato al tema dei «luoghi della democrazia». Serve infatti un lavoro di lungo periodo, che dia continuità alla nostra ricerca. Che il sindacato si misuri con questi temi può apparire, in superficie, come un’impropria invadenza nel campo della politica. Io credo, al contrario, che non ci si possa sottrarre a una discussione a tutto campo, soprattutto in un momento come quello attuale, di «transizione», nel quale è in gioco la natura dello Stato democratico e l’equilibrio dei poteri. Il sindacato è anch’esso attraversato dai processi di cambiamento che investono la società nel suo insieme, ed esso non difende la sua autonomia ritagliandosi una nicchia protetta, delimitando una propria esclusiva area di influenza, ma solo facendo valere un proprio specifico punto di osservazione con il quale intervenire sui problemi politici e sociali presi nella loro interezza.

Se non c’è sguardo sul futuro e lungimiranza strategica, non c’è autonomia, non c’è capacità di intervento nella realtà, ma c’è solo una possibilità di sopravvivenza subalterna dentro le categorie classiche del corporativismo. In questo caso i fini della politica sono prefissati e sono comunque al di fuori della nostra portata, e resta solo il campo dell’interesse economico immediato, resta la pratica del conflitto fine a se stessa, nell’indifferenza per i contenuti e per i fini dell’azione rivendicativa. Funziona allora solo la logica della forza, e si riproducono e rafforzano le gerarchie di fatto esistenti anche tra i lavoratori.

Anche quando si ammanta di un’ideologia di sinistra, questa riduzione del sindacato a struttura di servizio per i conflitti di fatto finisce per essere funzionale alla logica del mercato, che sancisce processi di inclusione e di esclusione sociale. Ecco perché il «mestiere» del sindacato non può essere motivato solo in termini economicistici, ma deve essere guidato da un «progetto di società» e quindi invade necessariamente anche il campo della politica, proprio per essere coerente con le sue stesse autonome finalità.

Per questo il sindacato ha bisogno di cultura, di analisi, di comunicazione con il pensiero scientifico. Così, d’altra parte, è sempre stato nei momenti alti della sua storia. E ciò di cui c’è bisogno oggi, come avvertono i suoi quadri più sensibili, è una nuova sintesi di pensiero e di azione, come condizione per poter svolgere in modo efficace anche i compiti più immediati.

La situazione «di transizione», nella quale ci troviamo immersi, rimette in discussione tutti gli equilibri consolidati e determina un’accelerazione del cambiamento tale da rendere inutilizzabili gli strumenti ordinari di controllo e di regolazione. La posta in gioco è quindi eccezionalmente alta, perché tutto è in movimento. Non si tratta solo della posta politica – chi vincerà le elezioni -, ma si tratta soprattutto del modello di società, dei caratteri di fondo su cui si costruisce la stessa identità nazionale.

A questo fine è essenziale l’analisi dei mutamenti che sono intervenuti nella struttura produttiva e nei rapporti sociali, l’analisi cioè di quell’insieme di processi che hanno determinato il superamento e la frantumazione del modello fordista e hanno segnato un vero e proprio passaggio di fase.

Il risultato è una devastazione delle tradizionali identità di classe, una messa in crisi delle soggettività politiche che si erano costituite a partire dal conflitto, distributivo e di potere, nel luogo di produzione. Ma è anche, contestualmente, l’affermazione di nuovi bisogni di libertà e di autonomia personale, e l’apertura quindi di nuove contraddizioni, su nuovi terreni.

Nella logica del capitalismo maturo al tradizionale conflitto di classe si sostituisce, tendenzialmente, un doppio movimento, di integrazione e di esclusione.

Di integrazione, da un lato, perché la legge del mercato, nell’epoca della mondializzazione, si fa sempre più stringente, dominata dall’imperativo della competitività su scala mondiale e da un insieme rigido di compatibilità economiche, e il lavoro quindi diviene solo una variabile subordinata. Non c’è, in questa visione, una soggettività autonoma del lavoro, ma esiste solo la missione dell’impresa, e sono disponibili spazi di partecipazione e di riconoscimento per i lavoratori solo in quanto essi si immedesimano con questa missione. Intorno a questa ambivalenza della partecipazione, dal punto di vista dell’impresa o dal punto di vista del lavoratore, si apre un nuovo campo di iniziativa, nel quale è in gioco l’autonomia e la dignità del lavoro.

Di esclusione, dall’altro lato, perché il capitalismo non riesce più a essere un fattore di crescita e di sviluppo per l’intera società, e deve via via sacrificare pezzi di società, territori o gruppi sociali, in quanto non dotati dei requisiti competitivi necessari, per i quali si apre un destino di precarizzazione del lavoro e della vita.

In altri termini capitalismo e società entrano in collisione. Se l’unico elemento regolatore è il meccanismo competitivo, ciò determina necessariamente, e in misura crescente, un processo di disgregazione del tessuto sociale, di degrado delle sue qualità civili e ambientali.

Ecco perché è necessaria la politica, ed ecco che si chiarisce ora qual è il punto centrale del conflitto politico che è aperto, perché ciò che caratterizza oggi la destra, nelle sue diverse varianti, è la teoria del capitalismo come società naturale, è quindi la scelta di affidarsi alla dinamica spontanea della società e in questa chiave qualsiasi intervento politico è in sé un elemento negativo, perturbatore, un atto di autorità che limita la libertà individuale.

È la logica dell’antipolitica, che ha sempre questo effetto, di sottrarre le decisioni ai canali democratici e di consegnarle ai gruppi di potere organizzati. L’operazione Forza Italia ha qui il suo fondamento, ed essa è l’espressione di quel blocco di forze sociali – imprese, lavoro autonomo e anche settori di lavoro dipendente – che pensano e agiscono solo nella prospettiva della competizione e il cui unico parametro di valutazione è il successo.

Il compito della politica si riassume quindi nella necessità di ricostruire le legature sociali che si sono allentate o spezzate, di mettere in moto un processo nuovo di coesione, di socializzazione, di trascendimento del mero interesse economico individuale. Ciò non significa rallentare lo sviluppo, ma indirizzarlo verso fini consapevoli. È questo rapporto tra politica e progetto sociale che deve tornare in evidenza, per non restare invischiati in un gioco politico tutto contingente.

Se invece i diversi piani restano separati, se c’è da un lato una politica autoreferenziale e dall’altro l’accademismo dei saperi e l’oggettività delle tecniche, allora su ciascuno dei diversi terreni finiremmo sconfitti o subalterni. Politicismo ed economicismo sono tra loro complementari e conducono al medesimo risultato: la politica come tecnica al servizio dell’oggettività presupposta delle leggi economiche.

Se è in gioco il modello sociale, se gli stessi diritti fondamentali, a partire da quello del lavoro, sono oggi a rischio, la discussione politica allora investe questioni di principio e assume un carattere «costituente». Non possiamo esimerci dal mettere a confronto la realtà con i principi del nostro ordinamento costituzionale. Non è solo aperto il problema delle riforme da introdurre nell’ordinamento dello Stato (federalismo, forma di governo, istituti di garanzia), ma occorre anche ridefinire l’idea di cittadinanza, in rapporto ai nuovi processi sociali.

Nella discussione che si è svolta a Milano è apparsa da un lato una sostanziale convergenza intorno a questo tipo di approccio, secondo il quale una politica costituzionale non può essere solo la definizione di una nuova architettura delle istituzioni, perché le stesse istituzioni vanno pensate in un rapporto stretto con il progetto di società. Basti pensare, ad esempio, a tutte le correlazioni che ha la riforma federalista dello Stato con il tema dei diritti, dell’eguaglianza, della solidarietà nazionale.

Ma sono emerse diverse conclusioni, in particolare in relazione all’ipotesi di una nuova assemblea costituente. La mia personale e ferma convinzione è che questa ipotesi debba essere contrastata. Una revisione complessiva della Carta Costituzionale aprirebbe oggi il varco a una generale offensiva conservatrice e il risultato sarebbe, con ogni probabilità, un arretramento sul piano dei diritti fondamentali. Penso piuttosto che si debbano seguire le procedure di revisione che la stessa Costituzione prevede, rafforzando gli stessi meccanismi di garanzia con la fissazione di un quorum più elevato.

Il processo costituente potrà avere nuovi sviluppi anche molto innovativi, su singoli punti, intorno a ipotesi che siano maturate nella coscienza pubblica e che abbiano un consenso sufficientemente largo. Dobbiamo lavorare perché queste condizioni si realizzino, esplorando anche nuovi terreni oggi decisivi, come quello dell’informazione, dell’ambiente, dei nuovi livelli di sovranità su scala europea. Ma l’impianto generale va salvaguardato, perché continua ad essere una risorsa politica fondamentale per contrastare le spinte alla disgregazione.

Di fronte alle tensioni e ai conflitti della società contemporanea è la politica che deve offrire risposte, è la politica che deve restituire certezza ai fondamentali diritti di cittadinanza, i quali hanno una base nel lavoro, ma non si esauriscono nel lavoro, e hanno una più ampia dimensione umana. In coerenza con i principi della Costituzione è necessario realizzare una politica sociale di inclusione e di pieno riconoscimento della dignità della persona.



Numero progressivo: B5
Busta: 2
Estremi cronologici: 1995, 16 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 36, 16 ottobre 1995, pp. 28-30